Culture

“My Kind of Country”, l’altro volto di Nashville: aperto e inclusivo

Sono disponibili su Apple TV+ i primi sei episodi del talent show, che racconta un modo completamento diverso di vedere il country

Autore Piergiorgio Pardo
  • Il25 Marzo 2023
“My Kind of Country”, l’altro volto di Nashville: aperto e inclusivo

Orville Peck (foto di Apple TV+)

Sono tante le ragioni che rendono My Kind of Country, il talent di Apple TV+ di cui sono stati appena lanciati i primi sei episodi in premiere mondiale, qualcosa di realmente innovativo.

Possiamo partire dal genere musicale, il country, che dalle sue origini nei primi decenni del secolo scorso fino ad oggi ha impresso nell’immaginario collettivo il racconto di una quotidianità, soprattutto ai margini, vista attraverso gli occhi di un americano bianco e di sesso maschile.


È l’America raccontata dai vari Hank Williams, Townes Van Zandt, persino Johnny Cash, che ha finito col rappresentare la quota caucasica, patriarcale e cisgender della musica popolare americana.

La serie racconta invece tutto un altro modo di vedere il country. Già il titolo lo dichiara apertamente ed è una scelta di campo. Il country come genere espressivo personale, libero e in grado di sovvertire i luoghi comuni.


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Orville Peck, Ismay, Micaela Kleinsmith, Alisha Pais e i Congo Cowboys (foto di Apple TV+)

Il cast di My Kind of Country

Poi c’è il cast. A cominciare dalle ideatrici della serie, scritta dalla produttrice e imprenditrice Reese Witherspoon insieme a un personaggio chiave del country contemporaneo come Kacey Musgraves (sei volte vincitrice di Grammy, sette di Academy of Country Music Awards, cinque CMA Awards).

Kacey è stata anche insignita dell’Innovator Award ai Billboard Women in Music. In entrambi i casi si tratta di artiste in grado di coniugare tradizione e pionierismo. E soprattutto di portare il cambiamento nel mondo dei vecchi pionieri, rendendo regole, contenuti e riconoscibilità dello stile qualcosa di aperto, inclusivo e flessibile.

In quest’avventura il ruolo dei tre scout è determinante già a livello autorale. Lo stesso team degli scout, costituito da Orville Peck, Mickey Guyton e Jimmie Allen, è per due terzi di colore, un fatto non da poco in ambito country.

La narrazione diventa poi ancora più incisiva se consideriamo che “l’uomo bianco” è qui Orville Peck, uno degli artisti americani più impegnati in tema di diritti LGBTQI+. Da sempre Orville, con la sua enigmatica mascherina barbuta, scommette sul proprio talento e carisma nel portare la propria visione e la propria identità all’interno del genere.


Mickey è stata dal canto suo la prima cantante di colore ad ottenere una nomination come Best Country Solo Performance ai Grammy Awards. Jimmie Allen invece è riuscito a espugnare le classifiche country già con il suo primo singolo One Shot.

Il nesso fra il team degli scout e lo stesso processo creativo che ha portato alla ideazione della serie è molto forte e sono stati gli stessi protagonisti a chiarirlo nella conferenza stampa di presentazione. Ci dice Mickey Guyton: «Credo che le autrici siano state davvero ispirate dalle nostre tre storie, dal nostro modo di vivere la musica country e di cantarne versioni così diverse, partendo da prospettive eterogenee».

La struttura

La struttura di My Kind of Country è l’altro elemento innovativo che caratterizza la serie ed è una diretta emanazione dei tre protagonisti.

Allen, Guyton e Peck scelgono ciascuno un elenco di artisti emergenti di grande talento e li invitano a partecipare ai loro workshop. Gli artisti provengono da tutte le parti del mondo, compresi il Congo e Bombay e davvero rivelano la capacità della musica country di declinare la propria vocazione roots in un universo di segni cosmopolita. Anzi «nella prossima serie speriamo di invitare dei cantanti italiani», dice ancora Mickey. «Così potremo trascorrere un periodo nel vostro fantastico Paese».


Sono molto interessanti gli argomenti dei diversi workshop. Vanno dal lavorare in team alla disciplina del “visual storytelling”, di cui è specialista Orville. «Non sono un musicista tecnico che lavora per progressioni di accordi predeterminate», dice lo stesso Peck. «Vado per immagini, cercando di catturare quelle che traducono in modo preciso il sentimento o la reazione che sto provando. È un po’ come girare il film delle proprie emozioni. Questa intimità è molto importante nella musica country».

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Ashlie Amber (foto di Apple TV+)

Nashville, terra di confine

In uno dei suoi seguitissimi editoriali sul New York Times, la scrittrice americana Pamela Paul è intervenuta di recente sul tema della “esperienza vissuta”. Dice lei: “Unless you have walked in my shoes, you have no business telling my story”. Fino a quando non sei stato nei miei panni, non è affar tuo raccontare la mia storia.

Il country, al pari dell’hip hop e del blues, è uno dei repertori maggiormente basati sul racconto in prima persona. Nel saggio Faking It: The Quest for Authenticity in Popular Music, i due musicologi Yuval Taylor e Hugh Barker indicano T.B. Blues, del grande Jimmie Rodgers, come uno dei fondamenti della canzone autobiografica.

Con la sapiente direzione musicale dell’Emmy Award Adam Blackstone (già direttore musicale di Justin Timberlake, Alicia Keys, Faith Hill, Rihanna), l’autobiografismo del country si apre qui a contaminazioni davvero entusiasmanti (notevoli ad esempio i Congo Cowboys, o si potrebbe fare già da ora fare il tifo per Ismay).


Infine c’è Nashville. A dispetto del suo primato conservatore, si dimostra qui terra di confine, di scoperta, di sorrisi, incontri e sogni che si accendono, anche di sperimentazione. Una meta di viaggi oltre le barriere.

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