22Simba è nato per vincere
Classe 2002, il rapper di Saronno è una delle penne più rappresentative della sua generazione: con lui abbiamo parlato di provincia, ambizione, fallimenti e del suo primo album, "V per

GEN B è il nuovo format editoriale di Billboard Italia che vuole dare agli emergenti più interessanti in circolazione lo spazio che meritano. Una serie di cover digitali che approfondiscono a tutto tondo le next big thing della scena scelti direttamente dalla redazione, che ogni mese punterà su due artisti che hanno dimostrato di avere quel quid per fare il grande salto. Il nuovo protagonista è 22Simba.

Foto: Giordano Mattar
Creative director: Pierfrancesco Gallo
Producer: Luca Perrone
Stylist: Alexander Asfaha
Set design: Thala Belloni
Come capita di consueto, la foto di copertina di questa cover sarebbe dovuta essere un ritratto dell’intervistato. Lui, da solo, da vero protagonista. Ne abbiamo scattate di belle, di bellissime, ma quando sul set 22Simba e i suoi amici posano insieme quasi per gioco, divertendosi come se nessuno li stesse guardando, tutti – lui compreso – abbiamo pensato la stessa cosa: non c’era foto singola che rappresentasse al meglio la sua essenza, il suo mondo, la sua missione con la musica. La vetta non è nulla se non è condivisa con la tua gente – parola che in questa intervista ritornerà spessissimo -, l’arte insensata se non è istintiva, reale, e non parla alle persone che vengono dal tuo stesso contesto che il più delle volte, in un Paese fatto di tante province e poche città, più che l’eccezione è la normalità.
Andrea, classe 2002 e fieramente proveniente da Saronno, lo ha imparato dagli artisti che hanno fatto lo stesso con lui – in primis Cranio Randagio (il motivo per cui a Simba ha aggiunto 22) e Massimo Pericolo (che infatti apre il suo primo album, V per Ventidue, uscito a maggio) – e ora porta avanti questa legacy con un’autenticità potente (come del resto il suo modo di rappare, viscerale, disperatissimo e catartico allo stesso tempo): quella di chi negli amici ha trovato una famiglia a cui è legato non dal sangue, ma dalla verità. La stessa a cui non è disposto a rinunciare ora che le cose stanno cambiando e quella di quando ci si guarda negli occhi con la consapevolezza di voler cambiare vita restando sempre fedeli a se stessi e alle proprie radici.
E se questa è la V di vittoria, 22Simba è nato chiaramente per questo. Senza mai smettere di correre, nonostante tutto.
L’intervista a 22Simba
Hai sempre vissuto in provincia?
Sì. Per puro caso sono nato a Rho per un puro caso e ho sempre vissuto nelle province limitrofe a Saronno, dove ora sto prendendo casa così finalmente nessuno potrà rompermi le palle sul fatto che non sono di lì!
Perché prima lo facevano?
Ma no, non era nulla di serio. Era più una cosa da ragazzini, qualcosa che veniva fuori all’interno della mia compagnia. Mi prendevano un po’ in giro, niente di cattivo, ma erano battute ricorrenti. Non ho mai avuto persone che mi giudicassero davvero per questo, magari qualche altro gruppo ogni tanto, ma niente di significativo. Negli ultimi anni, anche grazie alla musica, sono riuscito a creare legami tra tanti gruppi diversi. È una cosa di cui vado fiero, perché credo che la mia musica abbia avuto un ruolo nell’unire realtà differenti.
Per te è importante che la tua musica abbia anche un valore aggregativo? È qualcosa che hai vissuto anche tu da ascoltatore?
Sì, assolutamente. Anche se quello che scrivo è molto personale, mi fa davvero piacere sapere che oggi ci sono ragazzi che crescono ascoltando i miei brani, proprio come facevo con altri artisti. Credo sia questo il potere della musica, e non solo della mia. Per me è la cosa più bella che esista. Quello che mi fa davvero piacere è aver dato voce a persone che provengono da un contesto ben preciso. Ho sempre parlato della mia gente, del mio vissuto, e continuerò a farlo. Ho sempre detto che la mia scrittura viene compresa in profondità proprio in un contesto provinciale come quello da cui provengo. È un’esperienza che si riflette in tante province d’Italia, ed è bello vedere come certe dinamiche si ripetano in luoghi anche molto diversi tra loro.
Il mio obiettivo è sempre stato raccontare la vita di ragazzi che non si sentivano rappresentati. Poi, certo, col tempo le cose si sono allargate, e non voglio assolutamente prendermi tutti i meriti: tanti artisti lo hanno fatto prima di me. Ma questa esigenza di dare voce a certe realtà per me è sempre stata centrale.
Anche perché alla fine l’Italia è fatta più di province che di grandi città.
Esattamente. Mi scrivono molti ragazzi che vivono in contesti ancora più “provinciali” del mio. Io vengo da Saronno, che tecnicamente non è nemmeno provincia di Milano, ma ne siamo talmente vicini che viviamo una forma particolare di provincialità.
Cioè?
Vivere così vicino a Milano ti crea una specie di frustrazione: sai che a cinquanta minuti da casa tua ci sono mille opportunità, ma tu sei fermo lì, nel tuo paese. Milano diventa un traguardo, quasi un’ossessione. Vuoi mangiartela, ma comunque senza voltare le spalle al posto da cui arrivi.
Arrivare senza fuggire.
Sì. E questa tensione, paradossalmente, amplifica il senso di “provincialità”. Chi viene da lontano idealizza Milano come il Paese dei Balocchi. Ma vissuta, Milano è tutt’altra cosa: è una città che strumentalizza i sogni. Ne fa nascere tanti, ma non è una città che definirei sincera o di cuore.
Quanto è stato importante per te un artista come Massimo Pericolo?
Per me è stato fondamentale. Ecco, quando parlavamo del potere della musica, se c’era un artista che ascoltavamo in cuffia e che univa la nostra zona, era lui. È stato il primo, nelle nostre province, a parlare in modo così concreto di certe cose. Certo, ascoltavamo anche Guè, Marracash e altri, ma loro non raccontavano esattamente la nostra vita. Massimo Pericolo invece parlava di “quell’altra strada”, senza romanzare nulla: quattro amici in bici, le feste nei boschi, l’alcol, il casino. Era la nostra vita raccontata per la prima volta.
Ogni persona ha una storia diversa, e la sua a noi è arrivata in faccia e che mi ha fatto dire “fanculo, questa cosa esiste e possiamo parlarne”. Artisticamente per me è stato un punto di riferimento enorme. È anche il motivo per cui è nella intro del mio primo album. Arrivare a fare un featuring con lui è stato un traguardo importante.
Come hai iniziato a scrivere?
Avevo tredici anni, ero a Diano Marina, in Liguria. Uscivo con un gruppo di ragazzi più grandi di me, che però andavano tutti a ballare e io no, perché ero troppo piccolo. Una sera, un mio amico diciottenne mi disse: “Resto qui con te solo se scriviamo una canzone rap insieme.” Io accettai, solo per compagnia. Scrissi quella canzone ed è stato come scoprire un mondo. Era la prima volta che riuscivo davvero a esprimermi come non avevo mai fatto. All’inizio non pensi di diventare un rapper, pensi solo: “Che figata, riesco a dire quello che sento.” Da lì non mi sono più fermato. Prima è stata una necessità, poi è diventata passione, poi voce per la mia gente, e piano piano è diventato un lavoro.
Ti ricordi di cosa parlava quella prima canzone?
Di cazzate. C’era una rima in cui dicevo che ero un carro armato e ammazzavo tutto. Era pessima, davvero brutta. Non mi reputo uno di quelli nati col talento. Semplicemente sono una persona che ha trovato nella musica il proprio modo per esprimersi e che ha detto “okay, se questa cosa è vera allora sarà una soluzione per me”.
Infatti hai una scrittura molto emotiva e profonda che poi sfocia in questo urlato disperato ma liberatorio, reale, istintivo.
Mi viene naturale. Scrivo molto di pancia. A volte mi ritrovo a urlare già mentre sto scrivendo, senza accorgermene. È sempre stato così. Mi fa ridere perché, quando stavo firmando i primi contratti, mi dicevano di non urlare. Ma non ci posso fare nulla: è il mio modo di esprimere tutto quello che ho dentro. Sicuramente questa cosa è anche un po’ figlia delle cose che ho ascoltato, in primis Massimo Pericolo e XXXTentacion.
E arriviamo al tuo primo album. Il titolo è un riferimento a V per Vendetta?
Sì, anche se non è un concept album basato sul film. Il mio nickname sulla PlayStation era “Vper22”, ispirato proprio al film, che mi ha segnato sia artisticamente sia a livello personale. Mi piace il messaggio del film legato alla speranza e al non mollare mai, che per me non è un’ipotesi. Mi piaceva anche il modo teatrale e poetico in cui il protagonista parlava. Ho trovato molte somiglianze con il mio percorso, per questo ho voluto usarlo come titolo.
Il 22 per te ha una simbologia molto particolare.
Quel numero è legato a Cranio Randagio. Lui morì proprio nell’anno dei 22, e in questo modo volevo omaggiarlo. Conosco la sua discografia a memoria, ho un tatuaggio dedicato a lui. Sono contento che siamo tornati a parlare di lui, anche Shiva recentemente lo ha ricordato. Cranio è un artista che è passato troppo in sordina rispetto a quello che avrebbe potuto dare: era fenomenale, è una grande mancanza nel panorama italiano. Lui è stato il primo artista che ho ascoltato e di cui ho pensato “questa roba mi arriva come nient’altro”.
Nel disco dici: “Non lo faccio per vendetta.” Cosa intendi?
Non faccio musica per vendicarmi di qualcosa. Potrei avere motivi per farlo, ma non penso porterebbe gioia nella mia vita. La vera vendetta, se vuoi chiamarla così, è svegliarsi un giorno e non pensarci più. Se riesci a vivere senza avere rancori in testa, hai già vinto.
Beh, una gran consapevolezza per la tua età.
Sì, ma ho avuto la fortuna di avere vicino persone che mi hanno aiutato ad arrivarci. Venivo da una compagnia che non era esattamente “legale”, diciamo così. Ho visto gente fare cazzate, scelte sbagliate, ma sono anche le stesse che mi hanno detto: “Basta, io smetto perché questa non è vita e dobbiamo ambire a molto di più”. Ho visto gente che aveva situazioni molto pericolose in mano guardarmi negli occhi e dirmi “questa merda deve finire”. Tra di noi ci siamo sempre detti la verità, e questa cosa mi ha salvato.
Quindi intendi questo quando in No retail dici “odio l’intera società meno che il mio bro”.
Per me i miei amici sono tutto. Sono cresciuto in una situazione in cui tante cose che altri imparano in famiglia, io le ho imparate dalla mia compagnia. Eravamo otto o nove ragazzi, molti senza un padre, e ci siamo insegnati tutto a vicenda. Ho dormito a casa loro, loro da me, abbiamo litigato con tutte le madri possibili. Ecco, forse questa è la mia parte speciale: non tutte le persone che vivono situazioni difficili hanno la fortuna di trovare una compagnia che diventa famiglia e persino ambiente di lavoro. Ora lavoro con molti dei miei amici di sempre. Non voglio altre persone intorno.
Sono le persone di cui ti fidi di più?
Diciamo che posso fidarmi ciecamente sul raccontar loro la mia vita, non posso farlo sul fatto di sapere che saranno puntuali, che risponderanno sempre al telefono al primo colpo, o sul portarli a un release party perché so bene che sono delle teste calde… Ma l’amore alla fine è anche questo, no? Conoscere i difetti di qualcuno e scegliere comunque di averlo accanto: loro con me lo hanno sempre fatto, e io li amo perché sono veri e perché so chi ho davanti.
Sei anche in una fase in cui devi scegliere chi è con te per te e chi lo è per la fama?
Sì, e le persone che ci sono sempre state mi danno una sicurezza a cui io non sono disposto a rinunciare. Io sono sempre stato uno mega estroverso, ma mi rendo conto che negli ultimi anni questa cosa sta andando a scemare. Fino a qualche anno fa volevamo conoscere tutti, volevamo essere inclusi in qualcosa in cui non c’eravamo. Adesso non voglio più essere incluso in certi giri.
Non vuoi più entrare all’Old Fashion…
Brava, è proprio quello il senso di quella canzone. Adesso che ci vuoi siamo noi che non vogliamo te perché non ci importa niente di fare una vita finta. Questo è il motivo per cui amo i miei fratelli e per cui continuerò ad amarli.
In Proteggimi dici “che i fallimenti non spezzino l’ambizione”: per te sono più importanti i fallimenti o l’ambizione?
Bella domanda… Non lo so se possano esistere separati. Forse no. Spero che nel mondo ci siano delle storie di persone che non hanno vissuto il fallimento e con l’ambizione ci hanno fatto una carriera – bella per voi siete dei fortunati di merda – ma per quanto riguarda me, penso che un’ambizione come la mia che è così forte da farti cambiare vita, arrivi per forza da un fallimento, da porte chiuse in faccia e dal guardarti allo specchio dicendo “No, così non può andare”. E allora da lì parte qualcosa che non si può fermare.
La strada per arrivare dove vuoi non sarai mai quella che ti sei creato nella tua testa: ci saranno tante situazioni che non riuscirai a comprendere, a cui non riuscirai a dare un nome. Ti sentirai in un punto cieco, in una situazione da cui pensi di non poter risalire: è una cazzata. Fallire non significa non arrivare, la fine non arriva mai finché non sei tu a deciderlo.
C’è stato un fallimento nella tua vita che ha aumentato l’ambizione?
Sì. C’è stato un anno in cui non ho vissuto bene: sentivo di non riuscire più ascrivere canzoni come volevo io. Scrivevo, scrivevo, scrivevo, ma tutto mi faceva schifo. Ero completamente in down: le pare prendevano il sopravvento sulla speranza, mi guardavo e dicevo “quindi questo era tutto un abbaglio, ho scritto bene quei due anni perché ero affamato e ora che ho smesso di fare quella vita mi è passato tutto?”. L’anno dopo però è uscito Isolamento di gruppo, un EP di cui vado orgogliosissimo.
Come hai sbloccato questa cosa?
Continuando a scrivere. Quelle tracce non sono andate neanche bene, se parliamo di numeri, ma a me non frega un cazzo. Io sono un artista, non un imprenditore. Faccio arte, non numeri. Se un anno va male, pazienza: l’anno dopo può andare bene. E se non va bene neanche quello dopo, magari quello dopo ancora sì. Entro fine anno voglio far uscire un progetto di cui vado mega fiero. L’importante è non fermarsi. Non morire sotto il peso delle proprie previsioni. Non idealizzarsi. Ricordarsi sempre chi si è, anche quando le cose non vanno come avevi previsto. Ognuno arriva dove vuole arrivare e sarà nel posto giusto al momento giusto se quello è il suo destino. Se sai che quella è la tua strada vivi, continua a correre, e anche se quel mese corri un po’ più lento non smettere di farlo.