Interviste

Dante, Maleducazione Siberiana

Classe 2003, fuori dalle righe, indefinibile, identitario e allo stesso tempo collettivo: l'artista milanese è davvero “la cosa più vicina a una nuova cosa in Italia”

Dante, Maleducazione Siberiana
Autore Greta Valicenti
  • IlMaggio 15, 2025

GEN B è il nuovo format editoriale di Billboard Italia che vuole dare agli emergenti più interessanti in circolazione lo spazio che meritano. Una serie di cover digitali che approfondiscono a tutto tondo le next big thing della scena scelti direttamente dalla redazione, che ogni mese punterà su due artisti che hanno dimostrato di avere quel quid per fare il grande salto. Il quinto protagonista è Dante.

dante gen b
Dante
Creative director: Pierfrancesco Gallo
Foto: Tommaso Remondini
Assistente foto: Francesco Amore
Stylist: Alessandra Pistolesi
Ass. stylist: Leonardo Chiaramida
MUA: Raffale Schioppo, Chiara Tipaldi
Props: Thala Belloni

Sulla facciata di un palazzo sbiadito a San Siro c’è un murale che suona come un monito per il quartiere: “L’individualismo è il primo passo per l’infelicità collettiva”. Non so se Dante, milanese classe 2003, abbia mai letto quella frase su quel muro, ma sicuramente ne incarna tutto il significato. Lo si capisce quando sul palco non sale mai da solo, ma con tutto il suo cerchio – il suo gruppo di amici a cui lo unisce «la voglia di essere soggetti liberi che esprimono una libera follia» -, portando in scena quello che sembra quasi un rito magico di gruppo, o quando – parlando del futuro – racconta che le sue paure sono legate ai suoi ideali granitici e al fatto che un eventuale successo possa renderlo una persona sola, e dunque infelice. 

Per ora Dante il suo mondo vuole tenerselo ben stretto e Circo Gran Siberia, il suo primo album interamente prodotto da Cripo, è uno dei progetti più identitari e allo stesso tempo indefinibili e fuori dagli schemi che siano usciti negli ultimi anni, o – per dirla come lui in Giostre, “la cosa più vicina a una nuova cosa in Ita”. Dentro infatti c’è di tutto, e tutto trova la sua collocazione disordinatamente perfetta.

C’è il rave – un ambiente che Dante ha iniziato a frequentare e capire al liceo e dove ha trovato quel senso di appartenenza a qualcosa di più grande – che diventa circo, quel luogo dove rifugiarsi e tornare bambini per staccare dai problemi, c’è la fascinazione per l’estetica dell’Europa dell’Est che si mischia con A$AP Rocky, Yung Lean e la techno di Berlino, c’è la notte, ci sono le feste in provincia, le tute Adidas e le sostanze che aiutano a non pensare. C’è l’hip hop ma con quell’attitudine punk che gli hanno trasmesso i suoi genitori, c’è l’urgenza di esprimersi e fare i conti con i propri demoni ma anche quella di rappresentare un movimento, c’è la ribellione pura e bellissima dei 20 anni e la maleducazione necessaria di chi si siede ai tavoli dei grandi per scombinare le carte, fare la rivoluzione e vincere. Tutti insieme. 

L’intervista a Dante

Come ti sei avvicinato alla musica?
In casa mia la musica è sempre stata una questione molto sentita. Mio padre è sempre stato un appassionato, mi faceva ascoltare un sacco di cantautorato. Io poi mi sono avvicinato al rap grazie a Salmo e a tutto l’universo Machete. 

Dante, foto di Tommaso Remondini

L’idea di collettività quindi deriva da lì?
Tantissimo. Per me è indicativo il fatto che la prima cosa che mi ha fatto scoprire il rap non sia stato un artista singolo ma una crew. Mi sono detto “allora forse c’è bisogno di collettività per arrivare alle persone”, e questa cosa mi è rimasta dentro. Ho bisogno di appartenere a qualcosa, e io appartengo a un movimento di cui mi sento un po’ il portavoce. Con il mio gruppo abbiamo sempre vissuto in ambienti diversi da quelli degli altri. 

Ad esempio?
Il mondo dei rave. Lì ho trovato delle cose che non avevo visto nel rap e quando mi sono ritrovato a frequentarlo ho pensato che ci fosse bisogno di rappresentarlo. Per quello dico che mi sento “la cosa più vicina a una nuova cosa in Italia”: perché mi mancava qualcuno che mi rappresentasse a livello di parole e di immagini, che sono la cosa da cui parto quando scrivo. Forse l’unico è Massimo Pericolo. 

Cosa ti piace di lui?
Il racconto che fa della provincia. Si vede che certi ambienti li ha frequentati davvero. Secondo me io e lui rappresentiamo la strada da un altro punto di vista, che non è quello dello zarro delle popolari, ma quella che si vive di notte, nelle feste in provincia, nei treni. Lui mi dà tantissimo l’idea di collettività perché parla per una certa nicchia. 

Anche di normalità forse, no?
Quella è la chiave di tutto per me. Ci ho pensato recentemente: io ho proprio bisogno di essere una persona normale, e le persone normali devono ritrovarsi in quello che dico. La cosa che noto e che mi fa piacere è che le persone che mi ascoltano mi conoscono davvero: per loro non sono un trend di TikTok, sono una persona reale. 

Tu però non vieni dalla provincia.
Però la musica che arriva da lì è l’unica in cui ritrovo un po’ il mio mondo. Quando andiamo alle feste dobbiamo quasi sempre andare via dalla città. I rave sono lontani, nei posti poco frequentati, e ci trovi quasi sempre le stesse persone. Ormai ne riconosco gli sguardi, lo stile, i pensieri. In città questi spazi mancano.

Forse perché ci vengono sottratti dai piani alti…
Certo, perché rappresentano una collettività in una società che ci vuole individualisti. Il mio non è un sogno materiale, non ne ho mai avuti. Io dico delle cose anche per le persone che ho attorno a me. Non faccio questa roba per vincere da solo. 

Temi un po’ che in futuro, se le cose dovessero continuare così per te, questo sogno si vada poi a scontrare con la realtà?
Sì. Ho paura perché nella mia vita vedo già dei cambiamenti e noto che sono difficili da gestire perché vanno a scontrarsi con i miei ideali che io cercherò sempre di rispettare. Quando tradisci quelli hai perso. 

In Circo Gran Siberia hai scelto di mettere due nomi che secondo me rappresentano bene l’idea di ideali e di normalità: Ensi e Jack The Smoker.
Per me sono entrambi dei miti. Non mi è sembrato vero quando abbiamo chiuso le collaborazioni: pensare che due persone che erano nel primo pezzo rap che ho ascoltato ora sono nel mio disco è incredibile. Ensi mi ha detto che nella mia musica riconosce realtà e necessità. 

Quando hai iniziato a frequentare i rave?
Al liceo. Quello dei rave è un mondo difficile, che devi capire e non giudicare. La prima volta ci sono andato perché mi ci hanno portato ma non avevo diffidenza, ero curioso. Tante delle persone che criticano i rave lo fanno perché li vedono da fuori, non perché ci sono entrati davvero: è un peccato che sia così stigmatizzato, perché una volta dentro ti rendi conto che è un ambiente in cui le persone trovano un momento di libertà sotto cassa. In quel frangente siete solo tu e la musica. Per me è meditativo, anche se non faccio uso di droghe ma allo stesso tempo non giudico chi lo fa. Il mio disco infatti è basato proprio su questo. 

Il circo quindi è il rave?
Esatto. Il circo è il luogo in cui le persone tornano bambine per non pensare ai problemi che ci sono fuori: la stessa cosa vale per il rave, dove le persone a volte utilizzano sostanze o modi alternativi per staccarsi dalla realtà. Che poi è un po’ quello che è per me la musica. Ho sempre pensato che la mia musica dovesse essere un modo per le persone per rifugiarsi, perché credo che ci siano tanti problemi in questo mondo e che ci sia la necessità di trovare spazi e momenti per se stessi, dove non pensare.

E i tuoi amici si rivedono in questa cosa?
Assolutamente. Loro sono la mia più grande ispirazione. Quando devo scrivere una canzone riguardo le nostre foto, ripenso ai momenti che abbiamo passato insieme o riascolto proprio i miei brani perché mi riportano nel mio mondo. 

Dante
Foto di Tommaso Remondini

Cos’è che vi unisce in particolare?
Credo il modo di vivere la vita. Vogliamo essere soggetti liberi che esprimono una libera follia senza conformarsi a quello che c’è attorno. Ad esempio abbiamo tutti lo stesso tatuaggio, che è il simbolo berbero della vita. 

Beh, hai trovato le tue persone.
Sì, e non ti nascondo che ho paura di perderle.

Cosa ti fa paura?
Il successo. Secondo me rende le persone sole. Ho paura che un giorno questa magia svanirà, che le persone che ora ho attorno pensino che questa vita non è la loro roba e che si crei una frattura ad un certo punto. 

Però arrivare insieme ad un obiettivo alla fine unisce di più, no? 
Sì, anche questo è vero. Io voglio far capire a tutti i miei amici che il nostro spazio esiste, e lì possono sentirsi liberi. Che non per forza dobbiamo modellarci noi per aderire a un certo contesto, ma possiamo fare in modo che sia il contesto ad adattarsi a noi. E quella sarà la vera rivoluzione, la vera rottura. E se agli altri farà paura, vuol dire che sta funzionando. 

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Foto di Tommaso Remondini

Tu nasci dall’incontro di due persone di ceti sociali totalmente distanti ma che ti hanno permesso di vedere il mondo da due prospettive diverse.
Mio padre viene dalle case popolari della periferia di Milano, mentre mia madre viene dalla classe media. Questa cosa mi ha aiutato perché in questa società bisogna essere camaleontici e sapersi rapportare con tutti. 

C’è un lato che ti affascina di più?
Sarei falso a dire che il mondo della borghesia non mi affascina, ma forse perché penso di poterla combattere da dentro (ride, ndr). In generale però ho preso tanto da entrambi i contesti: mio padre ha un sacco di inspo fighissime, mia madre è stilosissima. Pur venendo da un contesto più agiato ha certi ideali e anche lei ha visto cose pesanti nella vita. I miei genitori sono dei grandi. 

Ti hanno sempre appoggiato nella tue velleità artistiche?
Sempre. Mio padre da giovane suonava al Leoncavallo e mia madre ha sempre frequentato i miei stessi ambienti. Lei è quella che poi si preoccupa un po’ di più, ha quell’istinto protettivo per cui mi ricorda spesso che questa vita non è sempre un sogno. Io però lo so che non è solo divertimento ma è un lavoro. Per quanto sia tutto super naturale e super punk, io sono uno preciso quando devo fare qualcosa. Sono dedito, e questo i miei lo vedono. 

Mi hai spiegato la parte del circo: e la Siberia invece? In generale c’è un’estetica eastern Europe molto forte.
Quello dell’Est Europa è un mondo che mi ha sempre affascinato tantissimo e volevo rappresentarlo in Italia a modo mio, mettendoci anche un po’ di Berlino, la techno, A$AP Rcoky e Yung Lean.

Foto di Tommaso Remondini

E della collaborazione con Cripo che mi dici?
Sono fiero di quello che stiamo facendo. Abbiamo trovato un nostro sound, lui ci tiene tantissimo al mio progetto. Quello che abbiamo raggiunto è il frutto di anni di ricerca, con lui ho proprio trovato una formula per lavorare sulla musica. E poi insieme ci divertiamo un sacco: per registrare Siberia siamo andati a registrare nel bosco solo con un microfono. Abbiamo tante cose in cantiere al momento, tra cui il mio primo disco. Chissà, magari lo registreremo al lago…

Interessante questa cosa della sessione nel bosco…
Cripo: Ho un bellissimo ricordo di quella giornata. Eravamo io, lui e Jacopo Sol e abbiamo detto, quasi a caso, “ma sì, andiamo a Brunate”, in montagna, dove la famiglia di Dante ha una casa bellissima, con la vista sul lago di Como e in mezzo alla natura, proprio nel bosco. Per sicurezza ci siamo portati dietro anche delle cose per fare musica, dicendo “vabbè, magari esce qualcosa”. Abbiamo passato tutto il giorno a chiacchierare, mangiare bene, e alla fine siamo arrivati a un momento in cui abbiamo detto: “Okay, dobbiamo esprimerci, dobbiamo scrivere qualcosa”. A fine giornata quella è stata quasi una seduta psicologica, perché è scoppiata la magia. Dante ha raggiunto una sincerità disarmante, e Jacopo è stato pazzesco perché ha dato una grande visione con la sua chitarra. Stavamo viaggiando tutti sulla stessa linea d’onda e farlo con una vista del genere è stato incredibile.

Come hai conosciuto Dante?
Tutto è nato da un nostro amico manager, che ci ha messi in contatto quando nessuno dei due aveva ancora fatto nulla di nulla. Pensa, era pre quarantena addirittura. Dante è venuto in studio con un’idea di brano e da lì c’è stato subito un match pazzesco, perché abbiamo captato l’uno l’energia dell’altro. In quel momento è come se avessi visto che davanti a noi poteva esserci un lungo percorso. Ci siamo visti crescere a vicenda.

Cosa ti piace più di lui? Artisticamente e umanamente.
Mi piace che sia schietto, sincero e genuino. Il fatto che abbia un sacco di stima in lui come persona si riflette anche in quella che ho verso di lui come artista. Dante è un’energia incredibile, è qualcosa di quasi incontenibile, che cerca sempre l’originalità, la comunicazione, anche se si tratta di uno strillo, di un urlo: lui vuole che quel rumore comunichi qualcosa, e questa cosa mi stimola tantissimo.

Come siete arrivati a definire un sound così identificativo?
Sbattendoci tantissimo la testa! Trovare un suono è come sviluppare il proprio modo di vestirsi: devi farlo in modo naturale. Quello che cerchiamo di fare sempre è sporcare anche le cose più pulite, e quella probabilmente è la cosa che ci rende particolari.

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