EMMA, verso l’ignoto e oltre
Se c'è una cosa sulla quale Alessandro non scende a compromessi, è la sua musica: elettronica, distorta e profondamente umana

GEN B è il nuovo format editoriale di Billboard Italia che vuole dare agli emergenti più interessanti in circolazione lo spazio che meritano. Una serie di cover digitali che approfondiscono a tutto tondo le next big thing della scena scelti direttamente dalla redazione, che ogni mese punterà su due artisti che hanno dimostrato di avere quel quid per fare il grande salto. Il nuovo protagonista è EMMA.

Creative direction: Pirefrancesco Gallo
Hairstylist: Marica Abbascià
MUA: Arianna Miante
Stylist: Luca Venturelli
Producer: Nicholas Luca
Ass.stylist: Luigi Stelo
Ass. Foto: Alice Cairo
Location: UFO Milano
Alessandro è sempre stato EMMA. Anzi, EMMA è sempre stato parte di Alessandro, prima del 2022, prima del suo progetto ERA uscito l’anno successivo. È un concetto che torna spesso durante la nostra lunga conversazione. Siamo in un bar di Milano e la scena è surreale, soprattutto per le persone che passano di fianco al nostro tavolo. Uno dei due ragazzi che la gente vede parlare ha il viso e i capelli imbiancati dall’argilla utilizzata per lo scatto della cover. «Come avrai capito durante lo shooting, ho un rapporto complicato con la mia immagine» mi racconta. Lo si capisce dalle copertine dei suoi dischi, dove il suo viso non compare mai, se non nell’autoritratto stilizzato.
Il momento espressivo in cui genera l’arte è invece quello dell’assenza da sé. In quegli attimi Alessandro/EMMA è un tutt’uno con il suo brano e con i suoni elettronici. «La canzone per me è come la vita. Nasce, evolve, ha il suo tempo emotivo e arriva alla fine» mi spiega, facendo l’esempio dello scultore che estrapola la forma dal blocco di pietra e dando un significato nuovo alla polvere che gli sbianca il viso. Una cosa che stupisce è il suo essere esigente con se stesso, ma allo stesso tempo molto fiero e felice dei risultati ottenuti. L’ultimo capitolo della trilogia, che completa una sorta di unico grande album concettuale, ERA L’INIZIO, porta a compimento il suo stile unico. Strumentali distorte, influenze ambient e voce e scrittura solo quando sono strettamente necessarie. Sempre senza compromessi, se non quello del gusto e del sentimento interiore.
«Quello che ascolto mi deve far contorcere e sognare quando sono in camera da solo. Lì mi sento al sicuro e piango e ballo». Quando gli faccio notare che ha detto un concetto che descrive alla perfezione quel sentimento emo, quell’agrodolce sensazione che rende vivi solo con le cuffie in cameretta, sorride e mi chiede: «Perché? Cos’ho detto?». Ed è giusto così perché non c’è bisogno di etichette, soprattutto per chi prova quelle sensazioni. Le provi e basta.
L’intervista a EMMA
Essere una canzone triste / Usata per ballare: ti piace questa definizione di te?
Non lo so. In questo momento della mia vita percepisco tutte le mie canzoni come canzoni felici anche se in realtà sono tristissime. Nel momento in cui io riesco a esprimere qualcosa che sto provando, anche se è un’emozione negativa, e a trasformarla in musica o in una qualsiasi forma d’arte, sono felice. Quel verso nello specifico è un modo con cui ho tentato di osservarmi dall’esterno in un periodo durante il quale per la prima volta iniziavo a provare la sensazione di essere visto da qualcun altro.
Quando riesci a esternare le cose che ti fanno stare male, oltre a essere felice, te ne liberi anche?
Per adesso non ci sono mai riuscito, ma perché spesso quel male non so identificarlo in un singolo evento, è più esistenziale. È quel senso di vuoto con cui un po’ tutti hanno a che fare che, secondo me, deriva dal fatto che, alla fine, della vita non sappiamo nulla. C’è un grande ignoto che genera questo malessere. Non me ne sono liberato, ma scriverne mi aiuta a conoscermi meglio. Ci sono delle cose che ho capito dopo aver scritto determinate canzoni e riascoltandole. Per me è un processo di crescita, soprattutto nell’accettazione di quello che c’è di brutto in me.
Facciamo un passo indietro. Quand’è che Alessandro è diventato EMMA?
Penso di esserlo sempre stato. Alessandro è sempre stato EMMA. Mi piace definirlo come il processo di tutta la mia vita. In ERA, anche se non parla di tutta la mia vita, è come se ci fosse dentro con l’intero percorso che ho affrontato per arrivare ad essere la persona che ero in quel momento quando ho fatto il mio primo album. Dentro di me EMMA lo concepisco come un commitment. Il momento in cui ho capito che non volevo più avere compromessi e che mi sono deciso a esprimermi senza filtri. Ho parlato di accettazione, ecco: EMMA, tra tantissime virgolette, è il momento in cui ho accettato quello che sono. O meglio, quello che credo di essere perché poi nessuno lo sa con certezza.

Avevi già in testa l’idea della trilogia?
Non lo sapevo, però inconsciamente già sapevo tutto. Da quando ho scelto di essere EMMA, tutto quello che è accaduto fino ad ora, è come se fosse già stabilito. Lo giuro, man mano che avvenivano una serie di cose, di traguardi, pensavo: “Ok, sto facendo esattamente quello che devo fare”. Secondo me era già scritto dentro di me quello che sarebbe successo e io l’ho scoperto pian piano.
Quindi credi nel destino?
Credo che la vita sia semplicemente una scoperta di quella che è la vita stessa, della sua esperienza. Io vedo la musica allo stesso modo. Per me è come se stessi facendo una scultura: all’inizio ho il blocco di pietra davanti, che è la realtà con le sue infinite possibilità. Poi piano piano, andando avanti, viene fuori quello che vuoi esprimere. Per esempio, ERA L’INIZIO in principio era molto diverso. Avevo già iniziato a lavorarci mentre stavo finendo ERA LA FINE e me l’immaginavo come una roba iper-spinta e cattivissima, molto sull’elettronica e sperimentale. Neanche sapevo se ci avrei cantato o meno. Poi sono successe delle cose che l’hanno portato a essere il disco che è oggi, tant’è che quando l’ho finito ho avuto una mega crisi perché quasi non mi sembrava di averlo scritto io.

Non hai paura che prima o poi dovrai scendere a compromessi?
No, perché quello che faccio ha senso perchéè frutto di un processo personale. Per dare qualcosa di vero e bello agli altri deve esserlo per prima cosa per te. Solo in questo modo il pubblico potrà indirettamente riconoscerti e riconoscersi, magari traendone anche beneficio. Il mio obiettivo non è avere una safe zone, ma l’esatto contrario. Faccio musica per stupirmi e per aiutarmi in quello che affronto tutti i giorni. Quindi no, non mi preoccupo perché non mi interessa la fama.
Anche perché ci sono canzoni anche oltre i sei minuti che richiedono tempo e un ascolto non passivo.
Sì, perché per me la canzone è la cosa che più si avvicina alla vita. La puoi esperenziare: inizia, prosegue, finisce e nel frattempo agisce dentro di te. Ogni brano ha quindi bisogno dei suoi tempi. Per esempio, c 666 tu ha avuto una gestazione molto lunga perché non riuscivo a decidermi sulla durata dell’intro. Tutti i giorni prima di consegnare l’album li ho passati a raddoppiarla e dimezzarla. Alla fine, è tutta una questione di tempi e ogni elemento deve avere il suo giusto tempo emotivo per far sì che funzioni. Quando ascolto una canzone il viaggio sonoro deve rispecchiare il tempo emotivo della vita che sto cercando di raccontare. E deve esserci quell’apice, che non è semplicemente il drop. È proprio un picco emotivo che, anche se lo ascolto in camera, riesce a gasarmi, piango e ballo.
Come sei arrivato al suono elettronico che ti caratterizza?
Provando e sperimentando. Mentre faccio una cosa mi rendo subito conto se mi emoziona e se lo fa vuol dire che è quella giusta. Il punto di partenza forse è stata la mia passione per la musica elettronica distorta, ma comunque emotiva come Skrillex, Flume e 2hollis. A me piace ciò che mi fa contorcere perché è terapeutico. Soprattutto questo ultimo disco è ciò che musicalmente mi rappresenta di più. Ho dovuto scegliere tra duecento pezzi, tagliandone alcuni che mi piacevano molto, ma l’ho fatto proprio per definire la mia roba e sono veramente contento del risultato.
Nelle tue canzoni spesso ci sono glitch che ostacolano il tuo canto e parti sintetiche. Che rapporto hai con la tua voce?
Io ho un rapporto difficile con me stesso e quindi anche con la mia voce. È uno specchio di te e quindi ci sono dei giorni che ti guardi e fai: “Minchia sono un figo” – molto pochi in realtà – altri che ti fai cagare. Anche lì è un processo di accettazione tra amore e odio Quando ti esprimi però non pensi tanto a quello che stai facendo, è un momento di espressione puro: mentre registro una canzone, infatti, mi capita che mi sembri tutto giusto, poi subito dopo mi fa schifo. Perché alla fine è una traccia di te che resterà per sempre, come una foto che fai a diciott’anni che dopo qualche anno non ti piace più. Per questo la mia voce la uso solamente quando è necessario.
Allora anche per la scrittura vale la stessa cosa?
Sì, se devo scrivere dei testi lo faccio perché mi serve. Altrimenti, il suono parla già da sé. Per esempio, :FINCHÉ NON SEI ARRIVATA tu per un anno è rimasta una traccia strumentale. Poi però ai concerti ci cantavo sopra pur non avendola mai registrata con le vocals. E per molto tempo non ho trovato il coraggio di farlo. È stata un parto quella canzone. In generale, tutta la mia musica lo è.

Dal vivo, quindi, ti resta più facile usare la voce?
Sì, la mia voce dal vivo mi piace. Forse perchéin quel momento non sono né EMMA né Alessandro, sono pura vita. Durante i concerti è come se mi spogliassi di tutto ed è l’unico caso in cui tolgo ogni barriera e decido di vivere quegli attimi insieme agli altri. Chi è al mio live diventa parte di me e si crea una connessione. Infatti, i miei momenti preferiti sono quei rari casi in cui alzo lo sguardo e incrocio gli occhi di qualcuno nel pubblico. Lì il legame è fortissimo. Siamo tutti nello stesso non luogo e nello stesso non ambiente in cui scegliamo di essere. Io vengo dalla cultura hardcore, quella del pogo, e credo molto in questa cosa.
Ti rivedi mai dopo i concerti? Ti piaci?
Assolutamente no. Rivedermi online è molto dura perché è uno dei momenti più intimi della mia vita in cui sono pura manifestazione di me stesso perché non te ne frega un cazzo. Urli, sbrachi, scendi dal palco, balli e canti. Mi dispiace di essere nato in quest’epoca dove tutto è ripreso. Prima anche io facevo video perché avevo l’ossessione dei ricordi. Poi ho capito che in realtà se le cose tu le imprimi dentro di te, quel momento davvero importante impari ad accettare che sia singolo e finito. È speciale per quello che è in quel momento.
Hai sempre avuto molta cura anche delle copertine. Le prime due sono molto corporali, nella terza scompari del tutto.
L’artwork del mio primo album è un autoritratto inconsapevole che ho fatto a sedici anni. Cioè non mi sono reso conto che mi stavo disegnando mentre lo facevo e, quando l’ho visto, ho capito che ero io e l’ho fatto diventare il mio logo e me lo sono tatuato al centro del mio corpo. La seconda copertina è la foto del tatuaggio e del mio costato perché ERA LA FINE, dei tre dischi, è stato il più doloroso. Nell’ultimo album invece c’è la rappresentazione del mio sguardo. Io sono dietro e ciò che è in cover è quello che vedo.
E quello che vedi è una porta?
È l’ignoto, che non è solo il quadrato nero al centro, ma anche tutto il bianco e il gradiente che lo circondano. In realtà all’inizio doveva esserci la mia faccia abbagliata dalla luce. Avrebbe dovuto essere la presa di coraggio definitiva. Poi, dal momento che questa accettazione è qualcosa che in molti ricercano, per darle un senso più universale ho scelto di mostrare ciò che vedo nel momento del passo definitivo. Alla fine del viaggio, spaesato dai suoni del disco e dal labirinto di emozioni, ti ritrovi davanti a questa porticina che emana una luce fortissima.
Nel futuro ignoto che vedi ci sarà ancora la cameretta?
Io voglio stare tutta la vita nella mia cameretta perché è l’unico ambiente dove mi sento sicuro nell’esprimermi, in cui nessuno mi guarda e riesco a fare arte. Spero che questo passo verso l’ignoto mi aiuti a vedermi anche come una cosa bella e non solo come una cosa terribile. Vorrei riuscire ad essere un po’ più gentile con me stesso.