Interviste

Flying Lotus vola alto

Visionario ed enigmatico, il producer è fra i più brillanti interpreti del nuovo jazz. Una conversazione in vista del suo live a JAZZMI il 4 novembre

Flying Lotus vola alto
Autore Federico Durante
  • IlOttobre 10, 2025

Da sempre, soprattutto in ambito musicale, la parola “genio” è talmente abusata da scadere nel cliché. Ma è con convinzione – senza timore di apparire come il René Ferretti di Boris – che ci sentiamo di usarla in riferimento a un autentico visionario dei nostri tempi come Flying Lotus.

Tanto poliedrico quanto enigmatico, “FlyLo” è un producer (ma sarebbe meglio chiamarlo compositore) che sfugge a qualsiasi definizione, anche perché dichiaratamente ama cambiare approccio di album in album. Per riassumerla in poche parole chiave, la sua musica è in costante oscillazione fra l’elettronica, l’hip hop e il jazz più sperimentale, il tutto centrifugato e riversato in album cangianti e imprevedibili, come gli splendidi Cosmogramma (2010), You’re Dead! (2014) e Flamagra (2019).

Cresciuto in una famiglia dalla profonda vocazione artistica (è nipote di Alice Coltrane, pianista e moglie del celeberrimo John), Steven Ellison – questo è il suo vero nome – è anche fondatore di una indie label influentissima come Brainfeeder, che fra gli altri ha pubblicato i lavori di altri eccentrici eccellenti come Thundercat e Kamasi Washington: un ulteriore contributo all’espansione delle possibilità espressive del jazz contemporaneo.

Flying Lotus è fra i nomi di punta di JAZZMI 2025: l’appuntamento è per il 4 novembre al Fabrique. Lo schivo producer non concede spesso interviste: per questo, quando si è presentata l’opportunità di una conversazione con lui, non ce la siamo lasciata sfuggire.

digital cover Flying Lotus
Foto di Tim Saccenti

L’intervista a Flying Lotus

Cosa significa per te la parola “jazz”?

Lo spirito del jazz sta nell’improvvisazione e in generale nella libera espressione artistica, creando a partire da stati mentali del subconscio.

Come sei stato accolto dalla scena jazz vera e propria nel corso del tempo?

Piuttosto bene, per fortuna. È vero: all’inizio ero un po’ preoccupato all’idea di come mi avrebbe percepito la community dei puristi del jazz, non esattamente noti per vedere di buon occhio le cose che non siano jazz standard. Invece mi hanno stupito – i jazzisti come altre community musicali, per esempio hip hop, elettronica, classica… A quanto pare la mia musica ha toccato le corde degli appassionati di musica in generale, non solo di questo o quel genere.

Nei tuoi lavori il rapporto fra strumentazione analogica varia molto di album in album. Cosa determina la proporzione?

Dipende molto da ciò che mi ispira in quel momento: se ascolto molto jazz seguo maggiormente quel tipo di approccio, se sono in fissa con l’hip hop invece mi concentrerò sui sample… Penso non in termini di proporzione fra analogico e digitale ma di necessità del singolo brano e del progetto nel suo complesso. A volte, per esprimere qualcosa, ho bisogno di strumentazione analogica; altre volte no. I miei ultimi due progetti erano più per sintetizzatori, così ho seguito quell’approccio. Ma in futuro ciò può cambiare.

All’inizio ero un po’ preoccupato all’idea di come mi avrebbe percepito la community dei puristi del jazz

Dai l’idea di avere una mente estremamente creativa. Come nutri la tua creatività?

Mi immergo nel mondo che cerco di creare: leggendo libri che magari non hanno a che fare niente con la musica, guardando film, giocando coi videogame. Mi tuffo in tante cose diverse, insomma, raccogliendo ispirazioni di vario tipo. Ma trovo ispirazione anche nella vita di tutti i giorni: famiglia, relazioni, cose così. Finiscono sempre nella musica che faccio.

C’è qualcosa che ti sta appassionando particolarmente in questo periodo?

Ho appena scritto una nuova sceneggiatura. La trovo pazzesca. Spero di riuscire a farne un film presto.

Ti capita mai di avere blocchi creativi? Se sì, come li superi?

Non saprei se definirli necessariamente blocchi creativi, ma senz’altro ci sono dei momenti in cui capisco di dovermi prendere una pausa. Nel tempo ho imparato a non pretendere troppo da me stesso. Basta accettare l’idea che la “luce” non deve essere costantemente accesa: quando si riaccenderà, mi troverà pronto. Qualunque cosa tu faccia, l’importante è mantenere la pratica, l’interesse, la ricerca di cose nuove. Un buon modo per stimolare la creazione musicale è collaborare con altri artisti, trovando nuove idee in studio, remixando, sperimentando nuovi suoni.

Infatti collabori spesso con altri artisti, ma solo quelli con cui ha un forte legame (come Thundercat) o che rispetti molto (come Thom Yorke). Sono sicuro che ricevi molte richieste di collaborazione: hai mai declinato offerte di artisti magari mainstream ma che per te non sarebbero stati un buon “match”?

Oh sì, succede costantemente. A volte alcune collaborazioni è meglio immaginarle che farle davvero. Anche perché poi ti scontri con i paletti messi da manager e responsabili A&R che fanno sparire la genuinità dell’idea. Certo, se è l’artista stesso a contattarmi direttamente è già diverso. Mi piace lavorare con gente con cui vado d’accordo, a prescindere dal livello di notorietà: non mi importa chi tu sia, lavoro anche con artisti poco conosciuti, ma se ci troviamo bene insieme e tiriamo fuori dei bei suoni, questo è tutto ciò che conta.

Nel tempo ho imparato a non pretendere troppo da me stesso

Flying Lotus

Raccontaci la tua collaborazione con Herbie Hancock su Tesla. Immagino che lui sia una delle tue grandi influenze musicali.

Da tempo cercavamo di capire cosa potessimo fare insieme. Io ho semplicemente buttato giù alcune idee di base ed è capitata poi l’opportunità di incontrarci. Gli ho fatto sentire un po’ di musica apertamente ispirata ai suoi lavori. Dal canto suo, penso che gli piacesse sentire la mia energia. Un bello scambio, insomma.

Uno dei tuoi più stretti collaboratori è il bassista Thundercat. Non solo lui suona regolarmente nei tuoi album (e trovo il suo tocco uno degli elementi distintivi del tuo sound), ma tu hai anche prodotto un album fondamentale dello scorso decennio come il suo Drunk del 2017. Come fu il lavoro per quel disco?

Alcune delle cose che abbiamo fatto per Drunk sono tuttora fra le mie preferite. Quel periodo era piuttosto turbolento per lui: sono successe tante cose nella sua vita, ma al tempo stesso c’era tanto potenziale artistico. Registrava di continuo un sacco di materiale, ma dovevamo in qualche modo razionalizzare il tutto. È un disco nato dalle migliori intenzioni e mi sono divertito un mondo a realizzarlo.

Sembri una persona piuttosto spirituale. Dove vuoi che ti porti la tua musica in termini di stati mentali?

Sono grato di poter fare musica. La farei anche se non ci fosse nessuno ad ascoltarla, perché per me è qualcosa di terapeutico. Il fatto che altre persone provino qualcosa di analogo ascoltandola, creando il proprio universo interiore, o usandola come colonna sonora per la creazione della loro arte, mi rende particolarmente felice. Un bell’effetto domino, diciamo. È così che capisci che il tuo lavoro dura nel tempo.

Farei musica anche se non ci fosse nessuno ad ascoltarla

Flying Lotus

La tua musica è molto cinematica e le tue produzioni cinematografiche hanno una forte componente musicale: in che modo questi due mondi si influenzano a vicenda nella tua mente?

Sin dall’inizio, ho sempre visto la musica come una strada maestra verso il mondo visual. Ho sempre voluto avere videoclip folli. Poi ho iniziato davvero a fare film. Adesso è difficile non fare entrambe le cose insieme, perché la loro unione è davvero entusiasmante. La cosa più stimolante è creare brani su cui poi si sviluppano dei visuals o viceversa.

Ci sono colonne sonore storiche che ti hanno particolarmente ispirato?

Mi piace molto la musica di Stelvio Cipriani (autore del celeberrimo tema di Anonimo Veneziano e di moltissime altre soundtrack dell’epoca, ndr). E adoro le colonne sonore dei film horror italiani, come quelle scritte da Fabio Frizzi (compositore, nonché fratello del compianto Fabrizio, ndr).

Parlando di cinema, è recentemente scomparso David Lynch, un tuo grande mito con cui hai anche collaborato. Puoi condividere con noi qualche ricordo?

Un tipo adorabile. Era esattamente come ce lo si poteva immaginare. Anch’io vorrei diventare come lui invecchiando: rimanere appassionato a ciò che faccio, cercando nuovi modi per crescere e sperimentare cose nuove. Un po’ come Herbie Hancock, un altro che non ha mai smesso di trovare nuove strade. Per Lynch era facile perché era un artista talmente poliedrico… Se non gli andava di fare film, faceva musica; se non gli andava di fare musica, dipingeva, oppure scolpiva qualcosa. In arte bisogna sempre rimanere “studenti”. È stato bello far parte del suo universo per un po’. E, come me, anche lui amava essere lasciato per i fatti suoi!

Mi pare che tu sia molto influenzato dalla pop culture e dall’estetica giapponesi. Questo viene dalla tua passione per i videogiochi?

I giapponesi hanno uno sguardo speciale. La loro cultura ha dato enormi contributi alla moda, al cinema, alla musica. Andai in Giappone con mia madre all’età di dieci anni e trovai il paese estremamente interessante e affascinante. Sono sempre stato appassionato alla cultura giapponese. Ovviamente gli anime che guardavo da ragazzino hanno avuto una grande influenza.

Il tema della morte è frequente nella tua musica. Cosa succede quando moriamo?

Spero solo che ci sia qualcos’altro dopo.

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