Interviste

Gaia Banfi, dove ti porta il vento

Nata a Milano, trapiantata a Bologna, ma con Genova e il mare nell'anima. L'artista classe 1998, cresciuta artisticamente in conservatorio, ha intrapreso una strada alternativa, lastricata di ricerca sonora e

Gaia Banfi, dove ti porta il vento
Autore Samuele Valori
  • IlMaggio 8, 2025

GEN B è il nuovo format editoriale di Billboard Italia che vuole dare agli emergenti più interessanti in circolazione lo spazio che meritano. Una serie di cover digitali che approfondiscono a tutto tondo le next big thing della scena scelti direttamente dalla redazione, che ogni mese punterà su due artisti che hanno dimostrato di avere quel quid per fare il grande salto. La quarta protagonista è Gaia Banfi.

Creative Direction: Pierfrancesco Gallo
Foto: Dalila Slimani
Stylist: Paola Marti
Ass. stylist: Lea Fontanella
MUA: Beatrice Torchio
Hair: Marica Abbascià
Set Design: Thala Belloni

La scrittura e le canzoni non seguono regole precise. Non esistono ricette o formule. Il più delle volte nascono da una sensazione, da un bisogno o da un ricordo che era stato volontariamente tenuto nascosto. Trasportate all’improvviso da un vento che sconvolge tutti i piani. Gaia Banfi si è affidata allo scirocco che soffia sopra il golfo di Genova quando il cielo è coperto e che i genovesi chiamano Maccaja. Per l’artista classe 1998, oggi di base a Bologna, quel mare e quel vento che le facevano compagnia durante le passeggiate solitarie da adolescente, hanno rappresentato una svolta artistica e umana. Il riappropriarsi di una parte di sé che aveva abbandonato e dimenticato.

Gli anni in conservatorio che aprono la mente e tante porte, poi un primo album figlio di quelle formule accademiche, un’esperienza a X Factor, finché tutto non è diventato troppo stretto. «Mi sono accorta che quello che stavo facendo era frutto di una costruzione» ci racconta Gaia dopo gli scatti. Ha iniziato così una ricerca sonora che, come il mare, la facesse sentire in bilico e allo stesso tempo al sicuro, tornando indietro agli anni della preadolescenza e alle domeniche con i parenti in Liguria. Ecco che allora l’elettronica si è fusa a con il pianoforte e gli arpeggi alla De André, lasciando spazio a poche parole, ma scelte con cura.

Gaia ha scritto e prodotto il suo secondo album, una sorta di nuovo debutto, come un percorso personale, senza il reale intento di scardinare quell’omologazione del linguaggio che rischia di saturare il panorama musicale odierno. Eppure, La Maccaia ci riesce ed è il suo nuovo inizio. Tant’è che, mentre chiacchieriamo, mi fa capire che le canzoni del suo primo lavoro probabilmente non le suonerà più.

La geografia e il mare, che è insito nella sua famiglia di marinai, sono le due coordinate di cui tener conto per comprenderla fino in fondo. Anche se ora vive lontano dall’acqua, come i rabdomanti, cerca di scovarla attraverso una musica locale e insieme contemporanea. Una filosofia condivisa anche dalla sua etichetta Trovarobato. «Siamo molto affezionati a chi è affezionato a sua volta alle radici» spiega il manager Damiano Miceli. «Oggi il resto del mondo sembra pronto a scoprire una serie di peculiarità della musica italiana anche grazie ai tanti musicisti che riescono a valorizzare determinati suoni senza farli sembrare semplice folklore».

Ascoltando alcuni i brani del suo ultimo album si percepisce come Gaia Banfi abbia in sé ancora un approccio jazz. Poco prima di salutarci, svela che il suo sogno è di esibirsi con dei musicisti sul palco per vivere quell’estemporaneità adrenalinica che solo l’interazione musicale può dare. Per ora, però, sarà dal vivo in solitaria (o quasi). Il prossimo appuntamento è il 16 maggio al Monsonica Summer Festival a Bologna.  

L’intervista a Gaia Banfi

Per capire chi è Gaia Banfi si potrebbe partire dalla geografia e da tre città. Le prime due sono quelle dove hai vissuto e dove vivi: Milano e Bologna. Che rapporto hai con questi luoghi?
Milano è la mia città del cuore, perché ci sono nata e perché ci ho vissuto dei momenti belli. Gli amici, quelli che rimangono, li ho conosciuti lì; quindi, sono molto legata. Bologna invece è il punto di arrivo, dopo una parentesi vicino Lecco. Per me rappresenta una via di mezzo tra la città, che comunque è una cosa che io ricerco sempre, e il contesto più naturalistico. Negli ultimi tre anni ho vissuto molto vicino alla campagna. Mi sono proprio completamente alienata dal mondo urbano e dal suo rumore e ho riscoperto il connubio con la natura.

E poi c’è Genova che, con la Maccaia e il mare, è la vera protagonista del tuo disco. In quale periodo della tua vita si inserisce?
Genova, ma in generale la Liguria, sono una parentesi connessa ai momenti della mia infanzia e preadolescenza. Quel periodo tra la fine delle scuole elementari e l’inizio delle medie. Ci andavo spesso a trovare i miei nonni, i miei zii e si organizzavano sempre questi grandi pranzi familiari. Tuttavia, la cosa che mi è rimasta impressa maggiormente di quel periodo sono le passeggiate che facevo dopo queste abbuffate. Erano le prime volte che uscivo di casa da sola e quei momenti li associo a delle immagini e a dei pensieri più maturi. Dai primi amori fino a domande più serie del tipo: “Cosa farò nella mia vita?”. Insomma, tutti quegli attimi più introspettivi. E il paesaggio è stato molto d’ispirazione, soprattutto il mare che è un elemento che continua a tornare nella mia vita.

Nel disco le passeggiate che racconti sono spesso associate anche al tema della fuga. Da cosa in particolare, da te stessa?
In parte sì. Poi Genova per me, a quell’età, rappresentava anche un po’ una prigione. Non era un posto in cui stavo volentieri perché comunque significava rimanere attaccata alla mia famiglia e non poter fare delle cose da sola. Queste passeggiate lungo Corso Italia e guardare il mare erano l’unico modo per fuggire da tutto.

Il mare riesce ancora a essere un’ispirazione centrale ora che vivi a Bologna?
Sì, sempre. Mio padre e mio fratello sono due marinai e mi mandano video ogni giorno. Quindi è un elemento che torna costantemente e il rapporto è quasi viscerale, cioè ogni volta che vedo il mare è estremamente di ispirazione. C’è un contrasto creativo che mi stimola: da un lato mi spaventa per la sua vastità, dall’altro quella stessa grandezza mi infonde meraviglia e anche un senso di protezione. Anche se adesso a Bologna non lo vivo in maniera fisica, c’è. Anche quando ero a Lecco ero distante, ma almeno avevo il lago. In realtà forse è più un sentimento legato all’acqua.

A proposito, l’acqua, fin dal ramo da rabdomante della copertina (opera realizzata da Nicola Ghirardelli), è uno dei concept del disco. Come avete lavorato in questo senso?
G:
È stato un processo che è partito da lontano durante il quale Ilaria mi ha aiutato a mettere a fuoco dove volessi realmente andare.

Ilaria Demo De Lorenzi:
Ho cercato di capire da dove arrivasse la sua necessità di raccontare delle storie personali e quale fosse il suo modo di volerle vedere rappresentate. Dal punto di vista visuale è stata come una ricerca di qualcosa di perduto, che messo insieme potesse ricostruire quella che era un’immagine complessiva di una storia. Abbiamo iniziato a lavorare per simboli ed elementi e laLiguria è un luogo dominato dall’acqua. Ma non volevamo palesarla perché, appunto, il disco stesso è una ricerca, prima ancora di una destinazione. Per questo abbiamo scelto di avere un totem, il ramo da Rabdomante: un oggetto che aiuta a trovare l’acqua e che è allo stesso naturale e vicino alla cultura popolare.

Quale è stato il motivo che ti ha spinto a intraprendere questa ricerca e a tornare indietro con la memoria alla tua infanzia?
È arrivato un momento nella mia vita in cui mi sono resa conto di aver bypassato completamente cosa ero stata e che cosa effettivamente mi ha portato ad essere quello che sono oggi. Era qualcosa che non ero mai riuscita a tirare fuori, sia a livello personale, proprio di consapevolezza, che come racconto artistico. Avevo bisogno di chiudere quel cerchio che non avevo mai indagato: dal punto di vista degli affetti, dell’amore, ma anche quello più malinconico, affrontando anche delle cose negative.

A livello musicale La Maccaia è molto diverso dal tuo primo disco Lótus (2020). Quando è scattata la scintilla che ti ha spinto a cambiare direzione?
Nell’ultimo periodo di studi in conservatorio. Sono coincise varie cose. Non riuscivo a tirarmi fuori da questa idea di essere costantemente messa in un quadratino e non poterne uscire. Lótus è un po’ quello, no? È il risultato di un periodo che sicuramente è stato bellissimo per me…però ero troppo lì dentro, dentro quelle mura, dentro quei suoni, dentro quella ricerca lì. E quindi nel 2020, ho avuto un momento in cui mi sono detta: “Ok, cosa sto facendo e perché? Come sono finita qui?”. Mi sono accorta che tutto quello che stavo realizzando non era una mia ricerca, ma era frutto di una costruzione. Da lì è iniziato un lungo processo di autoconsapevolezza. Ci è voluto molto tempo.

Ho l’impressione che non lo suonerai più dal vivo quel primo disco…
Forse no (ride ndr). Non rimpiango nulla però, di questo sono certa. Senza quell’album probabilmente non ci sarebbe stato nemmeno La Maccaia.

Questa evoluzione è coincisa anche con un avvicinamento a un suono più elettronico e al sodalizio con AKA5HA.
Sì, con lui ho iniziato a produrre. Mi ha insegnato a vedere la musica in maniera completamente diversa, meno suonata e più lavorata. In futuro mi piacerebbe molto lavorare anche a produzioni di altri artisti.

Beh abbiamo grande bisogno di produttrici nel panorama musicale, non solo italiano, ma mondiale.
Credo che sia importante anche a livello di suono. Ascoltando i dischi prodotti da donne è come se percepissi qualcosa di diverso, una sorta di eleganza inedita. Non che le produzioni degli uomini non lo siano in alcuni casi, però avverto proprio una cura dei suoni e dell’arrangiamento differenti. Il punto è che siamo veramente poche, io stessa che mi interesso, non conosco molte produttrici.

Come hai accennato, nella tua vita hai attraversato varie fasi musicali. Partiamo dal conservatorio: cosa ti porti dietro da quegli anni?
Al di là di tutto il conservatorio ha avuto un ruolo importante nel mio modo di approcciare la musica. Lo studio accademico e rigoroso all’inizio è molto interessante e ti apre veramente tantissime porte. A lungo andare diventa pesante ed è stato anche un po’ il motivo per cui dopo la triennale ho scelto di non finire la magistrale. Non mi interessava ed ero satura di quell’impostazione rigida per cui torni a casa e studi ore e ore. Però sono rimasta affezionata alla chitarra classica che è lo strumento con cui ho iniziato. Le composizioni scritte per chitarra classica sono pazzesche. Anche se oggi lo strumento quotidiano è il pianoforte, a livello di suono forse la prediligo ancora.

Nel corso del disco, per esempio in Piazza Centrale o ne Il lungoriva di Genova, infili sempre degli arpeggi di chitarra.
Ti rivelo che ho avuto un momento di scrittura del disco in cui ho riaperto l’”archivio” De Andrè (ride, ndr). È un artista che faceva già parte dei miei ascolti, ma avevo anche bisogno di rientrare a Genova e il suo suono disegna la città e le immagini in modo unico.

E invece X Factor?
X Factor è stata una parentesi esplorativa. Volevo sperimentare, ma non l’ho affrontata con l’idea di cercare di arrivare da qualche parte. Non avevo alcun tipo di aspettativa, se non l’idea di provare un’esperienza che fosse forte. Vieni messo davanti a milioni di telespettatori, parli con tantissime persone…è stata un’esperienza molto formativa perché ti mette molto alla prova.


Il brano che apre il disco, Macaia, include un audio in inglese che hai recuperato in modo casuale. Come mai hai scelto di affidare ad altri le prime parole dell’album?
Volevo qualcosa di musicale che introducesse il progetto in maniera soft, senza iniziare subito con una canzone classica. Sono partita dall’idea di creare un paesaggio sonoro, più “meditativo”, che potesse introdurre l’ascoltatore nell’album. La trovata del dialogo è arrivata in seguito, ma desideravo che avesse determinate parole ed esponesse un certo tipo di concetto. Non doveva esserci la mia voce, ma dare un senso di collettività. La cosa bella è stata che nella non ricerca è venuto fuori questo audio che ci stava benissimo. È stata davvero una coincidenza.

L’altro aspetto interessante è l’utilizzo dell’inglese, che chiude anche il disco, alternato pure allo spagnolo. È casuale anche questa alternanza di lingue o c’è una scelta artistica dietro?
Rientra in un discorso di recupero della collettività. Al di là del fatto che l’inglese e lo spagnolo siano parlati in molte parti del mondo, la mia è stata una ricerca in cui ho sperimentato e tentato di capire come una voce suonasse in una determinata lingua e su un certo tipo di tappeto musicale.In italiano quei brani non sarebbero stati la stessa cosa.  

La Maccaia ha un’estetica e una filosofia ben definite e peculiari. Per esempio, mi vengono in mente i due videoclip con immagini d’archivio. Sei partita sempre de questa idea di recupero della memoria?
Sì, anche i video seguono il concept di raccontare il passato.Utilizzare immagini d’archivio, realizzate da qualcun altro per ricordare un suo momento particolare, fa un effetto e fornisce un riscontro impareggiabile. Oggi, col il telefono sempre a portata di mano, sembra avere tutto meno valore e si perdono cose molto più facilmente.

Hai parlato di collettività e coralità. È una cosa che sta tornando nel cantautorato italiano e che sta conquistando il pubblico. Mi viene in mente il successo che sta avendo LA NIÑA con il suo ultimo album FURÈSTA. Secondo te perché?
Sì è vero e non è scontato. È bello che ci sia questa ripresa dopo che, secondo me, abbiamo vissuto un periodo storico musicale in cui la voce veniva un po’ meno. In realtà è la prima cosa che rimane impressa e quella attraverso cui tu identifichi un artista. Da parte mia c’è sempre stata questa attenzione, probabilmente deriva anche dalla mia formazione. Ho fatto parte di cori e insegnando canto ai bambini ho ben presente l’effetto che si crea, soprattutto quando sono loro a cantare. Finalmente sono riuscita a inserirli nel disco dopo tanto tempo.

Il disco si chiude con Seia e i bambini che cantano «Beg forgiveness for all I’ve said». L’ho interpretato come un modo per chiedere scusa alla Gaia Banfi bambina. È così?
È più un modo di chiedere perdono per non essermi concessa il tempo di raccontarmi in toto ed essermi un po’ accantonata su temi che sono naturali per paura e vergogna, soprattutto del giudizio degli altri. Parlare di amore è una cosa umana, ma quando scrivi sai che poi la tua voce andrà a finire da una parte all’altra. È il vento che decide.

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