Ilario Alicante, LINK in Milan
Mercoledì 30 aprile all'Ex Macello di Milano il dj livornese presenterà in anteprima mondiale il suo nuovo format: lo abbiamo incontrato per parlare di connessione tra pubblico e dj, di

Quando incontriamo Ilario Alicante l’Ex Macello di Milano è insolitamente deserto. È un pomeriggio di aprile, la città si è svuotata per il ponte e la giornata è così calda da sembrare agosto inoltrato tanto i ritmi sono rilassati.
Niente a che vedere insomma con la routine frenetica di Ilario – che intercettiamo tra un set sotto le Piramidi di Giza e uno a Ibiza – e con quello che accadrà mercoledì 30 aprile, quando il dj livornese presenterà proprio qui l’anteprima mondiale di LINK (qui i biglietti), il suo nuovo format che – come suggerisce il nome e come ci racconta lui – «ha come obiettivo quello di creare una connessione reale in un momento in cui si tende troppo ad avere un distacco tra la produzione, il dj e il pubblico. Per me è fondamentale sentire il calore delle persone mentre suono. Posso suonare nel miglior club del mondo, ma se sono solo in console in un ambiente asettico, freddo, lontano, non rendo al 100%».
Del resto non poteva essere altrimenti per uno come lui, che all’essere in mezzo alla pista lega i momenti cruciali che lo hanno portato ad essere uno dei dj più famosi del mondo. È stando nel dancefloor del Time Warp (dove nel 2008 è stato il dj più giovane ad esordire) durante un set di Richie Hawtin che capisce che far ballare le persone era quello che voleva fare davvero ed è stato dopo una serata al DC10 con Ricardo Villalobos e Luciano in console che è nata Vacaciones en Chile, la hit che tutti almeno una volta abbiamo sentito.
Seduti davanti alla cattedrale sotto la quale mercoledì, oltre a lui, suoneranno anche Cloonee, Joe Vanditti e II Faces, abbiamo parlato con Ilario Alicante di connessioni, quali sono i suoi club del cuore, come prendersi cura della propria salute mentale e di quella volta che – alla domanda di Sven Väth su voler fare questo lavoro per due anni o per tutta la vita – ha capito che l’unico modo perché la risposta sia la seconda è imparare anche a dire no.
Foto: Carlos Manuel Gasparotto
Creative director: Pierfrancesco Gallo
MUA: Beatrice Torchio
L’intervista a Ilario Alicante
Come ti sei avvicinato da fruitore alla musica elettronica?
Marinando la scuola (ride, ndr)! Mi ricordo che con un mio amico finimmo nel capannone di sua mamma, che era una cantante, e lì c’era un mixer. Cominciammo mettendo della musica in background alle jam che facevamo suonando le percussioni. Da lì ho iniziato a interessarmi a come si mixa la musica e poi sono partito da un locale vicino a casa mia in Toscana, si chiamava Pachamama Club. Poi sono andato a Ibiza, dove ho iniziato vendendo biglietti per le discoteche. Lavoravo fino alle 4 di notte e mi addormentavo nel retro del bar perché la mattina vendevamo i biglietti per We Love Space. Mi ricordo che litigavo con il mio datore di lavoro perché dovevo lavorare ma io volevo andare a ballare al DC10, al Circo Loco. Ed è lì che nasce la storia di Vacaciones en Chile.
Raccontami.
Ai tempi suonavano Ricardo Villalobos e Luciano, entrambi cileni, e io dalla pista mi immaginavo la musica che avrei voluto sentire. Quindi torno dalla stagione a Ibiza e faccio questo disco pensando proprio di essere in pista al DC10. Da lì è partito tutto: grazie a quel disco ho fatto il mio primo tour in Sud America, dove andò veramente forte.
Tra l’altro quello è un pezzo che conoscono tutti, anche persone che non seguono il genere, cosa non scontata.
È vero. Vacaciones en Chile è un disco semplice a livello tecnico, che ho fatto nella mia camera in tre ore e che è uscito dalla nicchia quando ancora la nostra musica non era mainstream come ora. Perché non scordiamoci che ora la gente da fuori vede jet privati e bella vita, ma noi veniamo da scantinati dove prendevi 500 euro da dividere in tre scappati di casa! Io me le ricordo le prime serate in cui aspettavi ore fuori dal locale per farti dare 50 euro con cui poi mi andavo a comprare i dischi.
E la prima volta che hai suonato a Ibiza te la ricordi?
Assolutamente, è stato incredibile. Fu al Cocoon all’Amnesia, e suonai tra Ricardo e Marco Carola, una cosa indescrivibile. Anche perché venendo dalla “strada” di Ibiza avevo tutti i miei amici a supportarmi. Quella cosa mi è rimasta dentro.
A proposito di Amnesia: ormai a Milano c’è questa tradizione del tuo dj set la sera di Natale. Come è nata e come si è consolidata?
Io e Riccardo lavoriamo insieme da sempre – infatti adesso stiamo collaborando per questa full production che faremo qui all’Ex Macello – e abbiamo deciso di unire l’utile al dilettevole. Il 25 dicembre sono sempre a casa mia a Livorno e Milano è l’unico posto in cui posso arrivare in tempo per suonare mantenendo il pranzo di famiglia. Io faccio più di 150 date all’anno, e questo appuntamento è uno dei più cari per me perché è lavoro ma davvero è come essere a casa. Ormai sono 10 anni che portiamo avanti questa serata.
Per molti il club diventa proprio un luogo dove trovi una famiglia: tu che rapporto hai con la comunità che abita questo spazio la notte?
Per me le persone sono una linfa vitale. La cosa più bella di questo lavoro è il contatto che si crea tra il dj e i clubber attraverso la musica. Quella connessione, quell’atmosfera… Per me sono cose imprescindibili e sono i motivi per cui faccio questo. La sensazione di sentirsi parte di una cosa più grande di te, grande quanto la musica. Da qui nasce anche il progetto LINK, che ha come obiettivo quello di trovare una connessione reale. Oggi si tende ad avere un distacco tra la produzione, il dj e il pubblico. Io però sono nato in mezzo alla pista e per me è fondamentale avere la gente intorno, sentire il calore delle persone mentre suono. Posso suonare nel miglior club del mondo, ma se sono solo in console in un ambiente asettico, freddo, lontano, non rendo al 100%.
Quindi preferisci i club ai grandi festival? O dipende tutto dalla vibe?
La vibe è sicuramente importante, ma il club si presta ad essere più intimo e per me è il luogo in cui un dj può esprimersi meglio. Nel festival hai il tuo slot e la proposta musicale è molto più variegata, quindi hai tante atmosfere diverse ciascuna con una piccola finestra.
Quali sono i tre club a cui sei particolarmente affezionato?
Sicuramente il Cocoricò perché sono cresciuto lì dentro e c’è una connessione particolare, mi emoziona sempre. Poi l’Amnesia di Ibiza e lo Space di Miami, uno di quei pochi posti dove veramente non senti il tempo che passa.
Sei stato anche il più giovane dj a suonare al Time Warp.
Mi ricordo che una volta ero al Time Warp da cliente – cosa che cerco sempre di fare quando è possibile -, c’era Richie Hawtin che suonava, mi sono girato e ho pensato: io un giorno voglio essere lì. Me lo ricordo come se fosse ieri: quella è stata la prima scintilla, la conferma con il marchio a fuoco che quella doveva essere la mia vita. La prima volta lì dietro la console la ricordo con estrema felicità. Molti spesso mi chiedono se avessi ansia, ma io ero sereno perché stavo andando a fare la cosa che mi piaceva di più. Forse proprio perché è iniziato tutto così presto l’ho vissuta con più istinto, cosa che mi è rimasta nel tempo.
Riesci ancora a goderti le serate come prima o l’orecchio clinico del dj prende il sopravvento?
(Ride, ndr) È inevitabile averlo dopo tantissimi anni che ne hai viste di cotte e di crude, sia a livello professionale che non. Però cerco di ritagliarmi il momento per ascoltare la musica anche da un’altra prospettiva. La mia passione alla fine è nata stando tra il pubblico, non in qualche backstage. Per me è fondamentale andare in pista e ascoltare ancora la musica da lì, perché è proprio un’altra sensazione.
Ci sono amicizie vere nel tuo ambiente?
Difficile questa domanda… Sicuramente in tutti questi anni ho costruito dei bei rapporti, ma l’amicizia vera è un’altra. Questo è un mondo in cui devi stare molto attento perchè tante persone si avvicinano solo con il fine di starti attorno e non è semplice capire di chi potersi fidare. Tutti quelli che considero amici sono arrivati prima dell’inizio della mia carriera. Il mio tour manager per esempio me lo porto dietro da 20 anni e per me è come un fratello: siamo nati nella stessa città e ci siamo trasferiti a Berlino praticamente insieme. Avere una persona che ti conosce al 100% è fondamentale.
E i tuoi maestri chi sono stati?
Senza dubbio Sven Väth, è stato un mentore in tutto e per tutto. Mi ricordo ancora quando mi chiamò al telefono invitandomi a Francoforte: avevo appena vent’anni, entrai in agenzia con lui e da lì mi ha insegnato tantissimo, sia a livello umano che professionale.
Il tuo è un lavoro bellissimo ma che allo stesso tempo ti sottopone a ritmi serratissimi e ti porta spesso lontano dai tuoi affetti: hai mai accusato questa cosa sul piano della salute mentale?
Questa è una continua lotta. Non mi sento di dire che ho il completo controllo di tutto, perché non sarebbe la verità. Molte persone da fuori dicono “vorrei fare la tua vita”, ma non è così semplice. Non mi lamenterò mai, ringrazio tutti i giorni per il fatto che la mia passione sia diventata un lavoro, però ci sono dei ritmi molto serrati, dati anche spesso anche dal contorno e dalla pressione di certi manager. Quella è una figura importantissima perché ha molta influenza sull’artista: se lo conosce bene sa come fargli dire sì e come dire no.
C’è stato un periodo in cui hai dato troppo?
Assolutamente sì: ci sono stati anni in cui ho accettato troppe date e ne ho risentito tanto. Non voglio nascondermi: ci sono stati dei momenti dove ero in hotel, dovevo andare a suonare e avrei preferito che qualcuno mi prendesse a schiaffi. È una cosa brutta da dire, me ne rendo conto, ma è la verità. E questa cosa non era dettata dal fatto che io non avessi voglia di suonare, ma dalla routine, dal fisico che a un certo punto mi aveva chiesto uno stop perché era tutto troppo. Fortunatamente non ho mai fatto uso di droghe, ma di alcol sì, e questa è stata anche un’altra componente che a un certo punto ha devastato la situazione.
Cioè?
Conta una media di 150 date all’anno, magari non ti ubriachi tutte le sere però uno ti passa uno shot, uno te ne passa un’altro e così via. Non dormi, fai doppia o tripla data, ti svegli in un altro Paese e ricominci da capo. Mangi quando puoi e dormi quando hai tempo, senza orari. Aggiungici poi la botta di dopamina che ti arriva dalla gratificazione del pubblico. Poi però chiudi la porta della stanza e non ti reggi in piedi e non hai né la forza di pianificare il futuro, né di andare in studio perché il giorno prima torni da 10 date in America col jet leg e il giorno dopo devi partire per l’Egitto.
Tu come fai a cercare di mantenere in equilibrio?
Imparando a ottimizzare al massimo la routine. Anche in questo Sven è stato un maestro. Un giorno mi ha detto “vuoi fare questo lavoro per due anni o per tutta la vita?” Se la risposta è la seconda, allora devi imparare che non puoi dire di sì a tutto e che devi ritagliarti dei momenti. Per esempio ora ogni anno faccio un mese e mezzo di stop dopo capodanno perché il corpo lo richiede e perché anche la musica lo richiede. Se non ti organizzi e non ritorni nei ranghi questa vita ti può portare veramente fuori strada e può essere veramente pesante perché i ritmi sono devastanti, sia fisicamente che psicologicamente.
Quanto è importante per te l’autogestione del tuo tempo e del tuo lavoro? Ti faccio un esempio: se fossi qui con un altro artista probabilmente ci sarebbero almeno altre due persone con noi…
Io ho il mio management, il mio team, però poi la parola finale sta sempre all’artista. Ho già avuto un manager che badava solo ai risultati e non alla mia integrità mentale e fisica, però alla fine ero anche io a dire sì a tutto. Non scarico il barile addosso al manager e basta. Sicuramente sono stato influenzato, ma ero anche io a voler fare tutte quelle cose, ero io a bere quando suonavo. In certe cose ci devi passare per capire come prendere le misure: c’è chi riesce a fermarsi in tempo, chi deve sbatterci la testa. Io, ripeto, non ho ancora il controllo al 100%, però sono arrivato a un equilibrio di cui sono abbastanza soddisfatto.
Anche perché la conseguenza altrimenti è il burnout…
Esattamente. Mettici anche una competizione spietata, continua ed estenuante. Apri i social e vedi quello che ha fatto la serata con 20mila persone, l’altro che ha fatto un disco. Devi riuscire a non farti mangiare da questa cosa deleteria.
Per te i social hanno influenzato il modo di vivere il clubbing?
Io non sono uno di quelli che vuole cadere nel cliché del “era meglio prima”. I ragazzini di oggi che mettono piede nel club lo fanno con il cellulare in mano, ma non per questo dobbiamo pensare che l’intensità con cui si vive l’emozione è minore. Il set del 30 comunque verrà registrato per intero, quindi il telefono può anche stare in tasca!
E giovani dj che ti piacciono particolarmente?
Mi piacciono molto i Prospa, che fanno musica da diversi anni, Joe Vanditti che suonerà con me qui il 30 e con cui ho collaborato anche in disco che uscirà con la mia etichetta con cui fino ad ora ho fatto uscire solo ragazzi giovani. Nessun nome establishment o big: quello che mi interessa è far crescere un movimento, dare ai ragazzi che lo meritano il giusto spazio.