Laura Pausini, voce del mondo
Fresca vincitrice del premio Icon ai Billboard Latin Awards, l'artista romagnola ci ha parlato di "Io canto 2", di sogni, sofferenze e del suo rapporto con l'America
 
													Esistono persone per le quali il destino delinea un sentiero chiaro fin da subito. Per qualcuno quella strada può essere una condanna, per alcuni una responsabilità, per altri un privilegio. Per Laura Pausini la musica è vita e un motivo per guardare avanti. «Continuerò a cantare finché potrò. Voglio morire sul palco» dice a un tratto durante la nostra chiacchierata. È collegata via Zoom dall’America e mancano poco più di 24 ore ai Billboard Latin Awards di Miami dove riceverà il prestigioso Icon Award. Un altro traguardo e l’ennesimo riconoscimento internazionale e a pochi mesi dall’inizio della sua undicesima tournée mondiale che inizia a marzo 2026 e ha date già annunciate in tutto il mondo fino a fine 2027. Da Solarolo e dai piano bar della riviera romagnola, dopo trentadue anni di carriera, Laura è diventata artista e cittadina del mondo o, come ama dire lei, «paesana del mondo».

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Dal 1994, con i suoi primi album in spagnolo, si è guadagnata l’affetto dei latini, che considera una vera e propria famiglia. «Non vorrei mai tradirli per tutto quello che mi hanno donato e continuano a regalarmi» racconta. Non è un caso che il secondo capitolo di Io canto sarà un doppio album, di cui uno dedicato interamente a canzoni spagnole. Io canto 2 e Yo canto 2 usciranno nel 2026 e per il momento conosciamo i due artwork in cui la cantante tiene in mano una spada con tre microfoni: «Racchiudono il concetto di tutto il disco e del live. Ho sempre immaginato Io canto come una saga, tipo Harry Potter. Le copertine, infatti, se messe di fianco, sono una la continuazione dell’altra. La prima era legata all’acqua, queste nuove alla terra. Io invece rimango nella stessa posizione con la linea di orizzonte nel medesimo punto».
Un’attenzione ai dettagli figlia dei suoi studi al liceo artistico. «Se non ci fosse stata la musica, avrei fatto la grafico-pubblicitaria» rivela. Un’altra vita e altri tempi che rivivono in parte nel museo aperto qualche mese fa nella casa di Solarolo dove ha vissuto fino ai diciotto anni, voluto fortemente da suo padre. «Avevo paura mi portasse sfiga. I musei di solito si aprono quando gli artisti sono morti» racconta Laura che, all’inizio, non era convinta anche per la possibile reazione degli italiani, spesso pronti a puntare il dito nei confronti degli artisti che hanno fortuna all’estero. Un tema che tuttora la fa soffrire e che torna spesso durante l’intervista.
Ci hanno pensato i fan a farle cambiare idea, partecipando attivamente all’allestimento: «Molte cose le avevamo perse durante l’alluvione, soprattutto i primi dischi d’oro. Diversa gente ci ha mandato i cartonati degli anni ‘90 che rubavano dai negozi. Sono molto carini perché diversi per ogni Nazione».
La sua stanza preferita però non si può visitare, è rimasta in parte così com’era e Laura giura che non la toccherà mai: è la mansarda al secondo piano dove ogni giorno, tornata da scuola, cantava immaginando di essere una corista dei Wham!. Proprio lì, dove c’è ancora la sua prima asta per microfono, è iniziato il viaggio. Quel viaggio che l’ha portata ovunque, incoronandola come l’artista italiana più ascoltata nel mondo. Laura ci ha raccontato della sua crisi durante il Covid, del perché un disco di cover e non di inediti. Se ha qualche rimpianto e soprattutto qualche sogno ancora non realizzato.

L’intervista a Laura Pausini
Che significato ha per te ricevere il Billboard Latin Icon Award?
Questo premio è una cosa over the top. L’hanno ricevuto nomi atomici come Janet Jackson. La cosa bella del ricevere i premi qui è che mi trattano come una di loro. Il modo in cui mi hanno aperto le braccia da subito e, negli anni, hanno instaurato con me un rapporto, mi fa sentire parte della loro famiglia. Non mi sento più solo italiana da tempo ormai. Sono orgogliosa di dire che sono anche latina, americana, spagnola, brasiliana, perché sono nata in Italia ma cresciuta nel resto del mondo. Nonostante dentro mi senta ancora campagnola, penso che nascere in un paesino sia una grande ricchezza, mi piace sentirmi una “paesana” cittadina del mondo. Questo equilibrio che ho trovato tra la vita di ragazza semplice e quella di una quotidianità molto caotica, stressante, ma meravigliosa, è forse la cosa la cosa più iconica che ho.
Dopo il premio Icon ai nostri Billboard Women in Music questa è una consacrazione ulteriore.
Sì, ma devo ammettere che ogni cosa che arriva dal mio Paese ha un valore emozionale un po’ diverso. Questo premio non è più importante di quello dello scorso anno perché l’Italia è la mia casa, è dove sono nata ed è grazie all’Italia, alla mia regione in particolare, alle persone che ho conosciuto nei miei diciotto anni di vita lì, che ho trovato il coraggio di buttarmi. Oggi mi ritrovo in una situazione che è oltre il privilegio a livello di carriera.
Il tuo primo album in spagnolo risale al 1994 ed era l’unione dei tuoi primi due dischi. Ricordi quale è stata la scintilla che ha fatto scattare il tuo amore per la musica latina?
Le prime volte che ho cantato in spagnolo erano al piano bar con mio padre. Lo pronunciavo male perché copiavo il suono e non avevo bene idea di che cosa significassero tutte le frasi. Se oggi esiste una mia discografia latin è merito di Charlie Sanchez di Warner Spagna che mi chiamò proponendomi di cantare La solitudine in spagnolo. Non so dove trovai il coraggio di rilanciare dicendo che l’avrei fatto solo se avessi potuto registrare tutto il disco in spagnolo. Lui ha accettato, mi ha aiutato con la pronuncia e pochi mesi dopo mi sono esibita per la prima volta a Madrid. Ricordo che la gente, anche se non sapeva che faccia avessi fino a quel momento, conosceva già tutte le parole.
Secondo te, quale è il motivo dietro questa esplosione del latin negli ultimi anni?
Negli anni Novanta mi chiedevo come mai non arrivasse questa ondata latina in Italia. Mi viene da pensare che da noi in quel periodo andassero di più le ballad e quindi tutto quello che era ritmato in un certo modo era lontano da noi.Poi sì, ci sono stati fenomeni come Shakira, Ricky Martin, ma tutto quello che era legato più alla tradizione non arrivava.Credo che una grande spinta l’abbia data il mix con i suoni urban. Non solo Bad Bunny, ma anche J Balvin.
A tal proposito, hai pubblicato di recente la cover di TURISTA di Bad Bunny, uno dei simboli dell’esplosione del genere a livello mondiale.
Il suo ultimo disco (Debí tirar más fotos, n.d.r.) è qualcosa di unico perché è riuscito in una cosa che hanno provato tanti in passato: unire la modernità con la tradizione. È stato molto coraggioso nel buttarsi in un’opera del genere, molto diversa dai suoi lavori precedenti più legati all’urban. Poteva essere un rischio, soprattutto pensando al suo pubblico in Nord America. Invece la sua autenticità ha pagato. Un’operazione molto simile a quella compiuta da Rosalía qualche anno fa, unendo il flamenco con la contemporaneità. Sono molto contenta di questa esplosione perché è assurdo che ci sia sempre l’inglese come punto di riferimento. Apprezzo che molti di loro, nonostante il successo, continuino a cantare in lingua spagnola. È una forma di patriottismo che noi abbiamo un po’ perso, soprattutto nei confronti degli artisti italiani che sfondano all’estero.

Credi che non ci sia abbastanza supporto da parte degli italiani nei confronti dei loro artisti?
La differenza principale è che i latini, quando vedono che hanno un talento che funziona e piace anche fuori, lo glorificano e lo aiutano a tal punto che non ha paura di andare all’estero. In Italia, facciamo l’opposto. Abbiamo i Måneskin, Bocelli, i Meduza, il Volo, Anyma e molti altri, eppure nella maggior parte dei casi si tende sempre a cercare il pelo nell’uovo. Si fanno meme e vengono presi in giro. Siamo arrivati a criticare Damiano per il fatto che parla in inglese nelle interviste… È una cosa che a volte ha fatto soffrire molto anche me. Spesso sono andata in trend per delle stupidaggini e quando ho ricevuto dei premi internazionali è capitato che quasi nessuno ne parlasse.
Questo ti ha condizionato nel corso della tua carriera?
Fino a qualche tempo fa sì. Ogni volta che vincevo un premio, per far sentire all’Italia che non era stato un caso, mi imponevo di fare un gradino in più. Il riconoscimento successivo doveva essere più importante, l’arena dove cantavo doveva essere più grande e così via. Invece non è così. Quando sono andata in down durante il Covid e ho pensato di smettere, grazie all’aiuto della famiglia e di chi mi è stato vicino, ho capito che il mio posto è sul palco. A prescindere da tutto il mio destino è cantare e, finché avrò la possibilità di farlo, continuerò. Voglio morire sul palco.
Quando è nata l’idea di pubblicare Io canto 2?
Verso la metà del 2024, mentre ero in tour. Me ne sono resa conto perché durante i soundcheck mi annoiavo a cantare le mie canzoni e chiedevo alla band di fare delle cover. Ho iniziato con Phil Collins, che è uno dei miei preferiti, poi George Michael, Grignani e via dicendo. Così, appena tornata dal tour ho iniziato subito con i provini.
Come mai un disco di cover e non di inediti?
Mi voglio divertire. Se vedo che non ho niente di speciale da raccontare e mi ritrovo con la mia band o in casa a cantare canzoni di altri, vuol dire che devo fare quello. Avevo in ballo cinque possibili progetti, tra cui un disco di inediti e una roba teatrale, ma ho capito che avevo bisogno di registrare Io Canto 2.Chi è attorno a me mi dà della pazza e mi dice: «Canti tu, ma guadagnano loro dai diritti. Sono privilegiata, non voglio dire una bugia, perché ho la fortuna di non dover più fare dischi per “portare a casa la pagnotta”. 
Fin da subito avevi in mente un doppio disco in italiano e spagnolo?
No, sono partita dalle canzoni italiane. Ce n’erano molte che non avevo potuto inserire per ragioni di tracklist nel primo progetto. Poi, a un certo punto, ho cominciato a ripescare dei pezzi in spagnolo, da Ricky Martin ad Alejandro Sanz.La ricerca della parte latina è iniziata di cuore cantando le canzoni che mi ricordavano delle esperienze vissute viaggiando in questi trentadue anni. Da lì ho scoperto anche dei cantanti del passato che non conoscevo. Per questo, rispetto al disco italiano, quello spagnolo è più vario a livello di stili e copre dagli anni ’60 fino al 2024. Non aveva senso che le traducessi in italiano, anche perché nel 2006 in America Latina non capivano perché definissi Io canto un album di cover.
Cioè?
Ho pubblicato il primo Io Canto perché volevo che quei Paesi che mi avevano dato il Grammy capissero da dove venivo. Perché, tornando al concetto di famiglia che dicevo prima, alcuni sanno che sono italiana, ma in molti pensano che io sia proprio latina. Quindi volevo far ascoltare loro le canzoni con le quali sono cresciuta e i miei punti di riferimento. Il punto è che per il pubblico latino molte di quelle canzoni erano come nuove. Lì mi sono detta che se un giorno avessi rifatto un Io canto, avrei dovuto dedicarmi alla ricerca di un repertorio internazionale che conoscessero anche loro.
Dopo tutti questi anni di carriera, hai qualche rimpianto?
Nel 1996 rifiutai di fare un tour in Asia, in Giappone. È l’unica parte del mondo dove non sono mai stata come artista. Però non è proprio un rimpianto. Non era il momento giusto e soprattutto, avevo come l’impressione di tradire la mia famiglia latina andandomene per mesi subito dopo che mi avevano accolto.
E invece uno dei tuoi sogni?
Ci sono ancora tante cose che vorrei fare. Per esempio, ho tanti duetti che si stanno concretizzando e mi piacerebbe un giorno cantare con Lewis Capaldi. Sono innamoratissima della sua voce e della sua scrittura. Il mio sogno però è molto più piccolo di quanto tu possa pensare. Vorrei tornare dove tutto è cominciato e fare un tour nei piano bar.
 
								 
				 
				 
				