Interviste

Little Simz, Year of the Lotus

Ogni suo disco è una rinascita, ma "Lotus", in uscita domani, più degli altri perché quello appena trascorso, come ci ha raccontato l'artista, per lei è stato l'anno del loto

Little Simz, Year of the Lotus
Autore Samuele Valori
  • IlGiugno 5, 2025

Anche se ci sono uno schermo e migliaia di chilometri di distanza dal divano da cui Little Simz risponde alle domande, è impossibile non percepire un certo alone di grandezza. Il termine perfetto, per stare al passo coi tempi, è “aura”. Quando l’artista classe 1994 ha conquistato l’attenzione di tutti con GREY Area, nel flow e nello storytelling diretto di Wounds emergevano la voce e il carisma di un’artista forte delle sue fragilità. Oggi, all’alba del suo sesto album Lotus, abbiamo davanti la curatrice del Meltdown Festival. Lo chiuderà con un concerto speciale accompagnata dalla Chineke! Orchestra. Il percorso, tra rime, cinema, un Mercury Prize per Sometimes I Might Be Introvert e un tour negli Stati Uniti annullato per difficoltà economiche, è stato accompagnato da una pioggia battente.

Una delle poche metafore che l’artista sfrutta mentre parla, citando il suo passato da adolescente al St. Mary Youth Club di North London, quando per registrare in studio doveva macinare miglia a piedi e prendersi l’acqua.

Cresciuta vicino ad Highbury, tra la passione per l’Arsenal, la recitazione, il mito di Lauryn Hill e un interesse crescente per la moda e per determinati valori a essa legati – che l’ha portata a essere un volto di Vans dal 2023 – Little Simz è dovuta rinascere più volte. Quanto colpisce nel segno il verso di Lonely «I was longing to make an album til I realize that all I need was to get through». Ogni suo disco, in realtà, è stata una guarigione, ma quello Lotus più degli altri perché quello appena trascorso per lei è stato l’anno del loto.

Come quel fiore sboccia nel fango, anche i tredici brani del nuovo album rappresentano una fioritura che parte dalla rabbia di Thief, dove si parla della vicenda legale e personale con Inflo, alla tribale lotta tra bene e male di Flood, per giungere alla conquista della pace che prende corpo attraverso l’amore universale e il suono delle campane che accompagnano la sua voce e quella di Michael Kiwanuka.

Lotus è anche una scommessa e Little Simz ha dovuto scommettere prima di tutto su di sé e riconquistare la fiducia tradita. «Ho iniziato a lavorare al disco lo scorso settembre ed è stata davvero una sfida, soprattutto all’inizio. In quel periodo stavano cambiando un sacco di cose nella mia vita». Ad aiutarla l’aver registrato con Miles Clinton James che l’ha assecondata in tutte le sue scelte, anche quelle più ardite come la bossa nova di Only e le sonorità orientali di Enough con Yukimi. Il basso detta il ritmo, insieme ai dialoghi interiori e con Dio, presenza costante e invisibile. I legami sono l’altra grande linfa vitale. Quelli familiari sullo sfondo e nello storytelling telefonico di Blood con Wretch 32 e Cashh, quelli con gli artisti presenti nel disco, tra cui Sampha, Moses Sumney e Obonjayar, ma soprattutto quelli con la sua zona.

Sento di dover tornare ancora a Wounds, di certo non il suo brano più conosciuto, ma una sofferta narrativa della periferia giovanile londinese, dove le pistole sovrastano tutto e si spera che l’amore sia il destino. Perché la vicinanza e il supporto alle nuove generazioni, l’essere un esempio “imperfetto” è ciò che rende l’aura di Simbiatu umana. Ed è ciò di cui abbiamo più bisogno in un periodo dove l’umanità sta combattendo alcune tra le sue battaglie più feroci di sempre.

L’intervista a Little Simz

Uno dei versi simbolo che ripeti nella prima parte del disco è: «There’s a war (outside)». Mi ha fatto pensare all’inizio di Introvert dove invece parlavi di una guerra interiore. Quindi la crisi personale da cui è nato il disco è più rivolta verso qualcosa di esteriore questa volta?
Sì, in parte. Il primo singolo è stato Flood anche perché è un grido di guerra. Le parole e le sonorità sono lo specchio del significato del brano. Riflettono i tempi che corrono. Prendono tutto ciò che sta accadendo là fuori e lo combina e mette in relazione con quello che stavo e sto attraversando tuttora. Da un lato c’è il testo in cui parlo delle mie battaglie personali, dall’altro c’è la musica, con queste percussioni epiche che ti danno l’impressione che possa accadere qualsiasi cosa da un momento all’altro. Il contributo di Obongjayar e Moonchild di sicuro ha fatto sì che il brano raggiungesse un altro livello.  

Ogni tuo album, specialmente gli ultimi tre, ha sempre rappresentato in maniera diversa una rinascita dopo un momento complicato. Hai mai avuto la sensazione e la paura di dover star male per scrivere?
Non so, spero di no. Davvero spero di non dover sempre passare attraverso qualcosa di traumatico per essere in grado di fare buona musica, è piuttosto estenuante. Però voglio anche rimanere legata a ciò che sento quando scrivo. Ed è quello che ho sempre fatto: provare a scrivere canzoni che rispecchiassero e documentassero un periodo specifico della mia vita. Per me il modo più autentico di fare arte è rimanere concentrata su ciò di cui voglio realmente parlare, senza lasciarmi influenzare da quello che attrae il resto del mondo in quel momento. Forse per questo non so come potrebbe suonare un album happy di Little Simz, anche se non credo che Lotus sia un disco triste. Ci sono momenti in cui si balla e si canta.

Sono d’accordo. Ci sono vari momenti, alcuni più introspettivi, altri più leggeri. Mi ha colpito l’inizio rabbioso con Thief, dove parli della vicenda che coinvolge Inflo. Perché aprire il disco così? Era un modo per affrontare subito l’elefante nella stanza?
Sì, ho voluto toccare la questione senza girarci troppo intorno: “Vuoi sentire cosa ho da dire? Bene, tanto vale farlo subito allora”.  Non volevo allontanarmi dalle sensazioni che stavo provando. Mi sentivo ferita, arrabbiata e volevo trasmettere quella voglia di urlare, lanciare cose e distruggere tutto. Affrontando, come hai detto, l’elefante nella stanza subito, mi piaceva anche disorientare l’ascoltatore che si trova difronte questa donna furiosa e magari non immagina che da quel brano inizi poi un percorso di liberazione e conquista della pace.

C’è un concetto che ritorna sia in Thief che in Hollow: «You don’t have to forgive to heal (Non devi per forza perdonare per guarire)». Hai imparato ad accettare la rabbia?
Sì perché credo che alcune cose siano semplicemente imperdonabili. Non sento di dover perdonare nessuno per andare avanti. Per tanto tempo mi è stata venduta questa bugia, mi dicevano: “Forgive and forget” (perdona e dimentica, n.d.r.). Oggi sento semmai il bisogno di perdonare me stessa. Tra dieci anni magari potrei anche cambiare idea, ma al momento non sento la necessità di accettare quello che mi è stato fatto per guardare oltre.

Gran parte della liberazione di cui parli è racchiusa in Free. L’amore è «l’unica arma contro la paura» e «la migliore valuta», eppure guardando il mondo presente, sembra insufficiente. In che modo l’hip hop, o l’arte in generale, possono diventare uno strumento?
Non lo so, mi piacerebbe davvero avere una risposta. Vorrei una soluzione. Io cerco di offrire ciò che sono in grado di fare meglio: arte e musica che supportano la creatività e l’amore, perché sono convinta che possano guarire. È difficile da dire in questo periodo storico, ma io credo che il genere umano nel profondo sia buono. Sono le circostanze che ci mettono gli uni contro gli altri. Ed è molto triste vedere gente che vive nella paura. Sarebbe bello che gli artisti lavorassero di più insieme, restituendosi a vicenda qualcosa. Anche solo per mostrare l’un l’altro che siamo più simili che diversi. Spesso si tende ad abbracciare e riconoscere la diversità, ma fare il procedimento opposto e mostrare attraverso la cultura gli aspetti in cui siamo uguali porterebbe ancora più unità. Probabilmente è un’utopia questa, ma voglio essere ottimista. C’è troppa negatività oggi. 

È bello il fatto che sei rimasta legata a certi contesti e che, come testimonia un brano come Blue, hai a cuore le nuove generazioni. Penso allo studio di registrazione che hai inaugurato al Lift, lo youth club di North London dove hai iniziato il tuo percorso.
Il merito è soprattutto delle persone che lavorano lì da tempo. Quando parlo del buono che c’è nell’essere umano, ecco Judith, (la responsabile del Lift, n.d.r.) è un esempio. È li da quando ero piccola e per lei quel club è come un figlio che ha nutrito e cresciuto per anni, per il quale dona tutta se stessa per offrire ai bambini l’opportunità di cambiare la propria vita e di avere uno spazio in cui si sentono motivati a coltivare il loro talento. Che si tratti di danza, musica, rap, recitazione, scrittura, qualunque cosa sia. Per me le persone come lei sono i veri eroi, per questo non voglio prendermi troppo credito. Ho tagliato il nastro, è vero, e quando riesco passo e do supporto e consigli ai ragazzi. Ma sono loro che passano giorno e notte lì.

Penso che la crescita di questi centri sia fondamentale per aiutare le nuove generazioni a sviluppare un determinato modo di vedere l’arte e il mondo.
La cosa ancora più importante è dare l’esempio. Nei confronti di quei ragazzi so di avere un ruolo e una responsabilità. Soprattutto per coloro che vengono dal mio stesso quartiere che vedono in me un punto di riferimento. Però, come dico sempre, non voglio essere un role model, ma un real model, il che significa che le persone devono sapere e accettare che sono prima di tutto un essere umano. Pertanto, forse non sempre riuscirò a essere un buon esempio. Ma va bene così. Anche attraverso i miei errori posso aprire delle porte per loro. Ciò che intendo dire è che non voglio vendere la perfezione, perché non sarei me stessa. Faccio del mio meglio e attraverso la musica che sento che mi rappresenta in modo autentico spero di ispirarli.

Non solo con la musica in realtà. In Lonely dici: «Maybe I’ll do more acting and less rapping, cos I don’t even know who I’m meant to be anymore (Forse farò più recitazione e meno rap, perché non so nemmeno più chi sono destinata a essere)». Avere più strade artistiche da perseguire ti mette più pressione piuttosto che farti sentire più libera?
Quel verso l’ho scritto in un momento di incertezza in cui avevo perso un po’ la fiducia in me stessa. Peròcredo di intraprendere tutte queste strade artistiche perché sento sinceramente di avere la capacità di farlo. Per esempio, da anni mi alleno alla boxe thailandese, ma non salirò mai su un ring. Non è il mio territorio. Con questo non voglio dire che le nuove sfide non mi mettano paura, ma comunque conosco il sentiero che sto percorrendo. Prendi, la recitazione. Da quando sono piccola ho amato il cinema e lo storytelling, ho anche recitato, e quindi, è come se facesse parte del mio DNA. In questo momento ho molta energia e punto a sbloccare sempre più nuovi lati di me stessa.  Ho solo una vita e voglio viverla al massimo. Abbondante, piena e possibilmente felice.

Tra le nuove sfide che ti attendono c’è quella di direttrice artistica del Meltdown Festival.
Ecco, anche quella è una cosa che sento che rientra nel mio terreno. La curatela, per certi versi, è qualcosa che faccio sempre nel tempo libero. Sono una persona a cui piace ospitare gente. Organizzo spesso cene e barbecue a casa mia, mi piace cucinare per gli altri e creare un’atmosfera tale in cui le persone si possano sentire al sicuro nell’essere se stesse e lasciarsi andare. È questa la filosofia con cui sto organizzando il Meltdown. Anche se è uno spazio molto più grande, ci sono artisti ed è un festival, per me l’essenza è la stessa: assicurarsi che la gente stia bene e si diverta.

Questo senso di comunità lo si percepisce anche nelle collaborazioni che attraversano il disco e con cui hai sperimentato molto, persino con la bossa nova in Only. Quale è stata la cosa più complicata e quella più eccitante nel cambiare spesso genere?
Devo ammettere che non c’è stato nulla di realmente difficile perché sentivo di non avere limitazioni o confini. Collaborare con Miles è stato liberatorio. Non è solo un produttore incredibile, è in grado di suonare qualsiasi tipo di strumento e non ha paura di buttarsi ed esplorare nuovi territori musicali. Potevo entrare in studio e dire: “Voglio fare un pezzo più edgy e punk, o una linea di basso che fa dum dum (canticchia il ritmo di Young, n.d.r.)”. E lui andava dritto e mi capiva al volo.

Una cosa non scontata, no?
Sì, mi ha fatto sentire forte e al sicuro perché percepivo che stavo lavorando con qualcuno che non solo difendeva le mie idee, ma che si fidava di me e del mio gusto. Anche se ci rendevamo conto che quella canzone forse non sarebbe finita nell’album, non ci fermavamo, perché, in fondo, non si sa mai cosa può venirne fuori. Era da molto tempo che volevo fare un album in questo modo.

Nel disco si alternano simbolismi religiosi quando parli della lotta tra bene e male e, nella seconda parte dialoghi e ti rivolgi spesso a Dio. Che rapporto hai con la religione?
Penso di avere un rapporto straordinario con Dio anche se non seguo nessuna pratica religiosa nello specifico. Sono cresciuta musulmana e ho ancora credenze islamiche, ma non sono come mia madre che prega cinque volte al giorno ed è molto credente. Crescendo credo di aver sviluppato una mia personale relazione con Dio, molto diretta e aperta, a tal punto che potrebbe sembrare poco seria. Un certo tipo di spiritualità diversa da come la si intende di solito. Ognuno ha il suo modo di comunicare con Dio e io lo faccio in modo fluido. Parlo di tutto, anche di cose divertenti. Per me Dio apprezza le battute.  

Hai citato tua madre e devo dire che, anche se in Flood dichiari di voler tenere la famiglia «fuori dagli affari», la sua presenza ispirativa c’è sempre come in Blood. Chiedi mai il suo parere?
Non proprio, a lei piace sentire la mia musica quando esce, insieme al resto del mondo. Per esempio, quando qualche volta le faccio ascoltare qualcosa in auto, la vedo che è un po’ destabilizzata. Quando siamo sole per lei sono sua figlia prima di tutto. Quando esce il disco e tutti lo ascoltano invece è felice, orgogliosa, viene ai miei concerti con le sue amiche e mi supporta. Mia madre mi ha insegnato molto.

C’è un brano, il mio preferito, Peace, in cui ti rivolgi alla te stessa sedicenne. È come se volessi fare il punto e chiudere un cerchio.
Immagino di sì, mi emoziona molto quel pezzo. Mi piace ripercorrere e guardare il viaggio che ho fatto. Quando a sedici anni facevo chilometri e chilometri a piedi sotto la pioggia solo per poter registrare. Volevo farlo a tutti i costi farlo e non avrei mai permesso a nessuno di ostacolarmi. Sento che questa sia anche la metafora della mia carriera. C’è molta pioggia battente, ma quando arrivo in studio trovo la pace. Sono in un momento della mia vita in cui, tra il caos e le difficoltà, cerco di proteggere proprio quella pace che ho conquistato.

Mi viene in mente la tua esibizione di 101 FM sul Pyramid Stage di Glastonbury. Dev’essere stato incredibile eseguire quel pezzo su quel palco.
La cosa pazzesca è stata vedere la gente di uno dei festival più importanti al mondo cantare a memoria quel testo in cui parlo di quando ho iniziato a fare rap negli appartamenti dei miei amici nel Nord di Londra. È stata un’esperienza extracorporea, per un attimo era come se la me stessa più piccola fosse al lato del palco e mi osservasse. E in quel momento non riesco a non pensare al futuro in modo positivo.

Non hai alcuna paura quindi.
Se ripenso a quando ho iniziato a lavorare a Lotus, non sapevo neppure se l’avrei mai concluso, e adesso è pronto per uscire e ne sto parlando con te. Non lo so, non riesco a pensarci in questo momento. Cerco di concentrarmi su quanti traguardi eccitanti sto tagliando e so che focalizzarmi su ciò che mi spaventa mi renderebbe solo inutilmente più ansiosa. Ho un’estate magnifica davanti.

Little Simz sarà in concerto in Italia all’Alcatraz di Milano il prossimo 25 settembre.

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