La Promessa dell’anno
Il rapper di Milano classe 2003 è uno degli artisti scelti per il programma Amazon Music Breakthrough 2025. Nella sua prima intervista Pietro ci ha raccontato la sua storia, partendo

GEN B è il nuovo format editoriale di Billboard Italia che vuole dare agli emergenti più interessanti in circolazione lo spazio che meritano. Una serie di cover digitali che approfondiscono a tutto tondo le next big thing della scena scelti direttamente dalla redazione, che ogni mese punterà su due artisti che hanno dimostrato di avere quel quid per fare il grande salto. Il nuovo protagonista è Promessa, tra gli artisti scelti per Breakthrough, il programma di Amazon Music giunto al suo quinto anno che supporta gli emergenti con una curatela editoriale strategica, campagne di marketing e progetti speciali, tra cui la possibilità di registrare un Amazon Music Original.

Foto: Simone Biavati
Creative director: Piefrancesco Gallo
Styling: Federica Belalba
Props: Thala Belloni
La scorsa estate, scrollando TikTok, mi sono imbattuta in un video in bianco e nero, girato in quartiere. A farla da padrone, cani di grossa taglia al guinzaglio, motorini e panchine nei parchetti. Ciò che mi colpì, però, oltre a quel beat profondo e old school, fu il testo, scritto alla maniera di quella scena milanese che ha fatto scuola ma con una vena estremamente personale. Il brano si chiamava Chicchi di mais, e il nome del suo autore – Promessa – suonava come una speranza e allo stesso tempo una predestinazione. Di lui non conoscevo ancora nulla di certo – tranne che fosse di Milano – ma tutto ciò che c’era da sapere della sua “vita sgrammata” era in Danza del grano, il suo album uscito solo qualche mese prima.
Nel disco c’era infatti il racconto della città vista da un giovane che ne vive le sfumature più oscure, quelle “a pezzi come birre negli angoli” e delle “sere spericolate”, ma anche quelle più malinconiche. Del resto, come mi racconta, «la musica che mi piace davvero è quella che mi ascolto da solo di notte», ed è quella che Promessa cerca di restituire con quella scrittura che vede come il suo momento più intimo in assoluto che non può essere soggetto a compromessi.
Ovviamente era solo questione di tempo perché Promessa avesse su di sé l’attenzione che merita, e da quell’agosto di cose ne sono successe: un brano prodotto da Don Joe, un EP – VITE SGRAMMATE, appunto – con cui conferma il suo essere il liricista più forte della sua generazione e un posto in Players Club ‘25, la freshman class di Night Skinny presentata sul palco del Forum di Assago. Nella sua prima intervista in assoluto, Pietro ci ha raccontato la sua storia, da quando era un “bimbo con i Dogo in cuffia” ad ora che è ufficialmente la Promessa dell’anno.
L’intervista a Promessa
Visto che è la tua prima intervista vorrei partire dall’inizio. Ad esempio raccontandomi che bambino sei stato.
Un bambino a cui non è mai mancato nulla. Ho giocato tanto a calcio, frequentavo l’oratorio, il campetto di zona. Ho due fratelli, uno più grande e uno più piccolo, e essendo quello di mezzo ho preso un po’ da entrambi. Sono sempre stato in Bicocca, una zona che ti fa crescere velocemente.
E da adolescente?
Ho fatto qualche marachella, ma niente di rilevante. Non mi sono mai sentito un irrequieto, non davo problemi in famiglia o fuori casa. Piuttosto direi che ero normale.
Una parola che fino a poco tempo fa sembrava quasi negativa, mentre oggi molti artisti rivendicano di esserlo.
Per normalità io intendo non essere fuori dagli schemi, anche se poi quando sei un artista un po’ devi esserlo.
Al rap ti ha avvicinato tuo fratello maggiore?
Sì. Mi ricordo che gli regalarono l’iPod, quello piccolino, oro, quadrato e senza schermo che ha perso però quasi subito. Scaricavamo la musica dal computer e la mettevamo dentro. Club Dogo, Marracash, Clementino. Poi, quando avevo 13 anni, c’è stata l’esplosione della trap. Mi ricordo che cantavo Panette di Sfera davanti ai miei, e mio padre scherzando mi prendeva in giro perché mi diceva “ma lo sai cosa sono le panette?”.
La prima volta che ti ho sentito per caso ho subito pensato fossi un figlio putativo dei Dogo.
Quella è stata proprio la roba che mi ha formato. Io ho sempre ascoltato rap italiano, solo nell’ultimo periodo mi sono approcciato all’hip hop americano. La mia sensazione è che negli ultimi anni ci stiamo riaccorgendo di un qualcosa che c’è sempre stato.
E com’è stato poi per un “bimbo con i Dogo in cuffia” lavorare con Don Joe?
Bellissimo. Lui è un grande, aveva ascoltato i miei pezzi grazie a conoscenze in comune e aveva iniziato a seguirmi e così è nata Paradiso. Ci tiene molto ai giovani, è molto attento, e secondo me si è affezionato perché sente che vengo da quella cosa. Per me che sono di Milano Don Joe è tipo il papa.
Che rapporto hai con Milano e la tua zona?
Io Bicocca la amo, se compro una casa la prendo lì di sicuro. Per me è la zona più bella di Milano, non sei in centro ma non sei neanche così lontano: è uno di quei posti in cui ancora si può fare comunità.
E le vite sgrammate di cui parli quali sono?
Quelle delle persone che sono attorno a me. Vite sgrammate è un gioco di parole che viene dalla sgrammata che ricevi in strada, ossia pagare il prezzo per qualcosa che poi quando ti torna indietro non corrisponde a quanto avevi dato. Spesso vedo che la gente in quartiere vive una vita pagando, faticando per un risultato che non è mai quello sperato e che lascia scontento. Per dirla in breve: è l’inculata della busta che pesa meno.
Per te il rap è stata una fuga da questa cosa?
Sì, e lo è ancora. Non mi sento ancora di esserne uscito. Il rap per me è una fuga da una vita sgrammata ma non è un allontanarsene completamente.
Quando hai iniziato a scrivere?
Non troppo tardi, perché la scrittura è una cosa che ho sentito subito mia, anche a detta degli altri. Nessuno mi ha mai detto che stessi facendo una cazzata, poi oh, magari mentivano. Secondo me è stato un percorso: non ho pensato di avere subito in mano la chiave per svoltare, ma nemmeno di non farcela mai.
Ti ricordi la prima canzone che hai scritto?
Canzone no, mi ricordo delle barre che scrivevo inventando storie su mio nonno che non c’era più. Era il periodo in cui era venuto a mancare, e volevo rievocare un ricordo, sfogarmi. Mi ricordo che le avevo scritte su una strumentale di Gemitaiz e Ensi mentre ero su un pullmino che non mi ricordo nemmeno dove stesse andando.
In Fuori dici “il primo arresto ti giuro che ha fatto male”: è autobiografico?
Sì, ho avuto problemi con la legge. Ci tengo però a specificare che non si è mai trattato di nulla di pericoloso o violento.
In che modo questa esperienza ti ha segnato?
Mi ha fatto capire che spesso e volentieri certe cose è meglio non farle con persone che a cui si vuole bene. Quando ti trovi nella merda e rischi di perdere certi rapporti e di passare sopra dei legami importanti, capisci che certe cose possono essere evitate.
La tua musica sa estremamente di strada ma c’è sempre qualcosa di notturno, di molto malinconico.
Perché resta sempre molto intima, e spesso sfocia nel conscious e nella mia sensibilità, a volte forse anche troppo. Però non posso farne a meno: io vengo da quello, la musica che mi piace davvero è quella che mi ascolto di notte a casa da solo, quella in cui mi potrò rivedere anche tra 10 anni, come mi succede con alcuni pezzi di Marra, Luchè o Guè. La musica che comunica è quella che resta.
Qual è la cosa che ti fa più piacere sentirti dire?
Il fatto che tutti mi facciano i complimenti per come scrivo. Quella è la cosa a cui io presto più attenzione in assoluto, e per me è importantissimo che questa cosa venga capita e rispettata. I numeri poi sono relativi, per me la cosa fondamentale è che le persone si affezionino alla mia verità, perché è quella la cosa che rimane. La prova è il live: se una persona spende il suo tempo e i suoi soldi per venirti a vedere anche dopo tanti anni, allora vuol dire che stai facendo bene.
C’è stato un momento in questi mesi in cui hai capito che le cose stavano andando per il verso giusto?
Questo è un pensiero che cerco di avere in modo costante, perché altrimenti non apprezzi più quello che ti succede. L’importante è ricordarsi sempre da dove si è partiti.
Un sogno che vuoi realizzare?
Prendere un casa col terrazzo a mia mamma.
In Bicocca?
Ovvio. Ma anche vicino al Parco Nord finché ancora c’è un po’ di verde.
Qual è il messaggio che vorresti far arrivare?
Vorrei che chi si approccia alla nostra musica lo faccia pensando che chi la fa spesso racconta qualcosa di molto personale. ll rap è una cena con te stesso, non un banchetto con dodici persone al tavolo. Io scrivo soltanto da solo, e mi incazzo quasi se qualcuno si mette in mezzo perché non troverei la mia verità: quello con la scrittura è il mio momento più intimo.