Queen Giorgia, la consacrazione di un’icona
La rinascita sanremese, la conduzione di X Factor e il nuovo album "G" in uscita venerdì: Giorgia ci ha raccontato la sua rinascita
Agli inizi era Giorgia, poi è diventata Gio e oggi tutti quelli che la conoscono, amici, colleghi e collaboratori, la chiamano G. «Credo che sia per accorciare i tempi» scherza. In realtà, dietro quell’unica lettera maiuscola si nascondono tante cose, tra tutte il processo di rinascita iniziato a partire dal 2024 e portato a compimento completo con il nuovo album in uscita questo venerdì. «È bello avere la possibilità di ricominciare a cinquanta anni, perché sennò rischi di adagiarti su di te». Dopo la battuta d’arresto al Festival di Sanremo 2023, Giorgia si è rimboccata le maniche ed è ripartita dallo studio, dai musicisti e dalla conduzione di X Factor. Aveva bisogno di ascoltare cosa arrivasse dall’esterno e di abbracciare i sound e le metriche della contemporaneità per rinascere.
LA CURA PER ME è stata la canzone che le ha fatto capire che per questa volta poteva essere se stessa anche senza scrivere tutti i brani. «Mi sono dovuta rimettere a studiare per riuscire ad adattare quei brani al mio stile e per imparare a utilizzare la mia voce in modo diverso» rivela durante la nostra intervista. Ne è nato un album essenziale, nell’anima e nelle parole che canta. I testi, per esempio in brani come Carillon e Corpi celesti, sono cuciti alla perfezione su di lei.

La sua ripartenza è andata di pari passo con la nuova avventura a X Factor (lo show Sky Original prodotto da Fremantle è in onda tutti giovedì alle 21.15 su Sky e in streaming su NOW, sempre disponibile on demand). Se all’inizio, passare il tempo accanto ai giovani talenti le ha risvegliato l’istinto musicale, oggi l’ha resa ancora più consapevole e in grado di gestire le proprie ansie. Ormai al secondo anno di conduzione, non nega che il grande salto (il Festival di Sanremo?) sarebbe disposta a compierlo. In una lunga chiacchierata, Giorgia ha parlato di come è possibile riaprirsi al mondo dopo un insuccesso, della voglia di sperimentare, di come un brano uptempo può funzionare anche d’inverno e delle porte “celesti” che solo la musica riesce a renderti più accessibili per continuare a credere che ci sia qualcos’altro oltre questa vita.
L’intervista a Giorgia
Perché G?
Non era facile dare un titolo a questo disco perché arriva a 30 anni dal primo che si chiamava Giorgia. La G è un voler togliere tutto ciò che è in più e andare all’essenza. G non è solo Giorgia, ma anche altre cose. È il sol e il suo accordo che è quello che cerco sempre nelle canzoni e con cui mi sento a mio agio. A livello simbolico è la somma tra lo spirito e la materia perché è la settima lettera dell’alfabeto. Il sette, ci scherzavo sempre con Pippo Baudo perché la pensava come me, è il mio numero fortunato. E poi è anche la G di grazie perché se dopo tutti questi anni sono ancora qui lo devo al pubblico.
La genesi di questo disco è stata anomala ed è frutto di un processo iniziato prima di Sanremo 2025. Come mai tutto questo tempo?
È stato un progetto particolare, diverso da tutti gli altri, forse anche perché è arrivato in un momento unico rispetto agli anni passati. Nell’ultimo disco avevo fatto tutto da sola, registrandomi le voci e componendo, abituandomi al lavoro in solitaria. Stavolta ho sentito il bisogno di tornare a confrontarmi con fonici, produttori e musicisti. Non ci siamo messi a tavolino dicendo: «Facciamo l’album». Tutto è nato ascoltando canzoni e provinandole. Di solito io ho sempre scritto tanto nei dischi, ma in questa fase avevo proprio bisogno di ascoltare ciò che veniva da fuori, anche da autori molto giovani.
E l’impatto com’è stato?
Mi sono dovuta rimettere a studiare per riuscire ad adattare quei brani al mio stile e per imparare a utilizzare la mia voce in modo diverso. Tornare ad avere qualcuno dall’altra parte che ti consiglia come cantare è stato interessante. Un po’ come tornare a scuola. Quando pensi di aver imparato tutto, la vita ti insegna che invece devi mettere da parte ciò che sai e ricominciare da capo. Non è stato subito facile anche perché io sono molto esigente. Se non fosse per il mio team, probabilmente sarei ancora in studio a perfezionare le ultime cose.
Nel rimetterti in gioco con un disco con molti autori giovani, quale era la cosa che ti preoccupava maggiormente?
La musicista che c’è in me si preoccupava di avere un suono al passo con i tempi e una scrittura contemporanea che non risultasse forzata. L’altra cosa complicata era mantenere la mia impronta, il mio gusto e quello che ho seminato nel mio percorso senza tradire chi mi segue da sempre. Che poi, in realtà, sono molto più vicina di quanto uno possa pensare al mondo rap e urban perché il mio bagaglio musicale è sempre stato molto americano. Soul, R&B e hip hop li ascoltavo vent’anni fa, tant’è che quando cercavo di fare quel tipo di cose negli anni ‘90 mi veniva detto che non era il caso di farlo in Italia.
Come prima e ultima traccia del disco hai scelto LA CURA PER ME. È stata davvero così importante?
È stato il brano che mi ha rimesso in moto e mi ha ridato fiducia nel mio istinto musicale che credevo un po’ in bilico. In quel momento, anche grazie a X Factor, stavo prendendo gusto anche a fare altre cose. Quella canzone mi ha ridato la consapevolezza di poter ancora avere un posto nella musica. Perché poi il palco di Sanremo è sempre un po’ un appuntamento con la vita. Tornare non è così semplice perché devi essere all’altezza del tuo passato. È una responsabilità che hai con te, col pubblico e con quel palco.
La versione in duetto con Blanco ha rischiato di andare a Sanremo?
No, sul fatto che sarei andata da sola all’Ariston non c’erano dubbi. L’idea di registrarla insieme ce l’avevamo già prima del festival, ma si è concretizzata durante i lavori sul disco. All’inizio gli avevo proposto di utilizzare il suo provino, ma gli è piaciuta talmente tanto l’idea che ha voluto ricantarla. In questa versione abbiamo ripristinato il primo finale che avevo cambiato per la mia versione solista. Cantando da donna, volevo che il brano non finisse col fatto che la cura è solo l’altro, ma desideravo che ci fosse un’evoluzione. Non potevo dire a una ragazzina, dopo tutto quello che ho fatto in questi anni, di affidarsi a qualcuno. Possiamo curarci anche da sole.
Quando è che hai capito che la cura per Giorgia poteva essere Giorgia?
Da molto giovane perché sono stata educata da una madre molto indipendente, sebbene molto innamorata di mio padre. Sono stata abituata a seguire un esempio di forza e autonomia. Per esempio, a vent’anni, se andavo a cena con qualcuno, non volevo mai che me la offrissero. Sono un po’ come i gatti. Difficilmente chiedo aiuto e non mi piace chiedere in generale. Poi è anche vero che la vita ti insegna che si vive insieme e che ci sono momenti in cui devi condividere anche i momenti brutti e bui con gli altri. Anzi, è lì poi che ti accorgi chi ti vuole bene veramente.
E questo vale anche per il lavoro?
Ho sempre avuto qualcuno accanto. Nella prima parte di carriera questi qualcuno non erano poi così accanto e quindi ho imparato che devi anche cavartela da sola perché quando sbagli la faccia e il nome sono tuoi. Per cui, va bene ascoltare i consigli, ma le scelte devono essere tue, perché se sbagli seguendo qualcosa in cui credevi è un conto. Se fai un progetto nel quale non ti ritrovi e non funziona, poi provi vergogna. E quella è una cosa che se la provi una volta non la vuoi provare mai più.
Oggi come vivi la possibilità di un insuccesso?
Ho imparato a non averne più paura. Il bello di non avere venti anni è che sai com’è e, se sei a posto con la tua coscienza, lo sopporterai. Sono tranquilla anche perché, dopo tanto tempo, posso dire che ho un gruppo di lavoro con cui mi trovo veramente bene e sono quasi tutte donne. Lavorare con musicisti in questo disco mi ha aiutato molto perché il musicista poi ti vede da musicista e non c’è quel problema di dover affermare le proprie scelte. Quando ho iniziato ad andare in studio da giovanissima, era complicato far valere le mie idee. Il fatto poi di essere anche una donna voleva dire dover lottare ancora di più per farsi prendere sul serio.
Nel tuo volerti rimettere in gioco con metriche e stili contemporanei, che ruolo ha giocato X Factor e l’essere a contatto con tanti giovani talenti?
Mi ha aiutato molto. Ascoltare cosa scelgono i ragazzi quando vengono a presentarsi, soprattutto quando arrivano con i loro inediti e con una produzione che ha già un colore e un timbro definiti, mi ha ispirato e fatto reinnamorare del fare musica. Poi quando vedi l’entusiasmo di chi è all’inizio, inevitabilmente ti si risveglia. Ti viene voglia. Quella era la cosa di cui avevo probabilmente bisogno, proprio di risentire quello stimolo di rimettersi a fare.
Come gestisci le situazioni con i concorrenti? Penso all’eliminazione dei Copper Jitters.
In quella fase lì smetto anche di essere musicista, cantante e presentatrice. Li vorrei abbracciare e basta perché poi sento quell’ansia. In certi momenti sono proprio artisti sul palco, poi ci sono delle fasi in cui percepisci la loro fragilità. È giusto che ci sia. I Copper Jitters sono stati rimproverati molto e l’hanno un po’ subita, però mi è piaciuta molto la loro reazione. Sono stati a posto e non hanno detto cose sconvenienti. Sono stati bravi e sono usciti a testa alta.
Uno dei pezzi che mi ha colpito maggiormente del disco è Carillon in cui ti rivolgi alla te stessa da giovane.
È il mio brano preferito. La me piccola immaginava cose, aveva tutto questo mondo dentro che ha fatto anche fatica a far uscire. Quando mi è arrivata la canzone qualcuno mi ha chiesto di volgerla al maschile. Io ho detto un no categorico, perché si sarebbe rovinata. Se avessi avuto una figlia femmina, visto che è al femminile, avrei potuto dedicarla a mia figlia. Mio figlio invece mi avrebbe detto che era una cosa molto cringe dedicargli un pezzo del genere. E quindi mi è sembrato ovvio che quella bambina che “brucia dentro come pietra lavica” fossi io.
Nel testo viene usata la metafora del carillon anche per la “ricarica” emotiva ed artistica. La tua come avviene?
Rispetto al passato, oggi mi devo raccogliere. Ogni tanto sono molto distratta dall’esterno e ho sempre paura di cadere nell’ego che secondo me non mi aiuta. Mi ricarico andando dentro di me. Cercando di pulirmi, di ritrovare un attimo quella bambina che stava in cameretta. Quella piccola fiamma devi mantenerla sempre viva, altrimenti diventi un prodotto. In realtà, i momenti difficili sono quelli che ti aiutano di più a ritrovarti. Penso al mio Sanremo di due anni fa, del 2023, che non è andato bene e a cui è seguito un periodo dove mi sono dovuta mettere a testa bassa a rilavorare da capo. Però quel momento è stato fondamentale e mi ha insegnato tantissimo. Potevo andare in depressione e rimanere là, ma mi sono ricaricata.
A tal proposito, l’esperienza da presentatrice sta andando benissimo. Ci pensi mai al grande salto?
Allora ti dico la verità, mi piace condurre. Anche se pure giovedì scorso me ne sarei voluta andare cinque minuti prima della diretta presa dall’ansia. Diciamo che X Factor è comunque qualcosa che mi è familiare, poi non so se in un altro contesto riuscirei allo stesso modo. È una di quelle cose dove il salto nel vuoto un pochino mi attrae. Non mi sento di dire no, potrebbe essere interessante.
Il raccoglimento e l’intimità dominano tutto il disco, ma ci sono anche due pezzi più leggeri: L’UNICA e TRA LE LUNE E LE DUNE.
Sì, io quando sento le canzoni, la prima cosa che valuto è se sono divertenti da cantare. Se lo sono, le voglio provare. Come quando ho sentito L’UNICA: l’ho trovata proprio un incrocio fra tante cose che avevo già fatto. C’è un po’ Il mio giorno migliore e un po’ Io fra tanti. Era proprio una bella fusione, proprio melodicamente nella parte vocale. TRA LE LUNE E LE DUNE, invece, è stata difficile da cantare come canzone. Dopo averla registrata qualcuno ha detto che è un pezzo estivo, ma per me l’up-tempo ormai va bene anche d’inverno.
Anche le ballad del disco non sono classiche. Mi viene in mente Corpi celesti.
Sì, mi è piaciuta l’idea di avere dei brani che partissero come ballad, ma che poi evolvessero. Corpi celesti è stata scritta per me ed Emanuel, (il compagno, n.d.r.). Quando mi hanno detto così, l’ho cantata con un trasporto diverso.
In quel pezzo c’è questa dicotomia tra paura e consapevolezza che è un po’ la sintesi di tutto il disco.
Sì, anche della mia vita. L’hai descritta con due parole (ride, n.d.r.). Il fatto di dire “corpi celesti” è un avere una visione più alta, alzare lo sguardo al cielo. Vuol dire avere anche il coraggio e la capacità di andare oltre quello che si vede e affidarsi a qualcosa di invisibile.
Credi che ci sia qualcosa?
lo sento che c’è altro. Non so se ne sono convinta, però lo pretendo perché non può esserci solo questa vita che procede in avanti. La musica ti impone anche di vederla, questa dimensione, perché a volte ti aiuta proprio a elevarti con la coscienza. Mi piace pensare che c’è una dimensione più alta.