Interviste

Rondodasosa, Il fu Mattia Barbieri

Prima di iniziare la sua nuova vita in America il king della drill italiana ha raccontato tutta la sua verità

Rondodasosa, Il fu Mattia Barbieri
Autore Greta Valicenti
  • IlSettembre 25, 2025

È il 1904 quando Luigi Pirandello pubblica il suo primo successo editoriale nonché quello che diventerà il romanzo sull’identità per eccellenza. Il titolo è Il fu Mattia Pascal ed è il racconto di un uomo che, oppresso da una vita infelice e da un io che non sente più suo, approfitta di un “fatale” malinteso per cambiare tutto: nome, città, vita. C’è chi fugge per dimenticare il passato, chi per inventarsi un futuro, e chi fugge per scoprire chi è davvero, anche a costo di rendersi conto che una volta abbandonata un’identità, non è detto che se ne trovi un’altra. A differenza di Mattia Pascal, però, Rondodasosa la sua identità l’ha ben chiara sin dagli inizi, anche se a volte – come mi racconta quando lo incontro per questa intervista in una piovosa serata milanese – non è mai riuscito a mostrare chi è veramente.

Sarà che il pubblico italiano forse non lo ha mai capito davvero, che «la gente qui segue la massa, nessuno ha una propria linea di pensiero, e se ce l’hai, o ti tagliano fuori o dicono che sei un pazzo», che quando entri a 16 anni nell’industria senti il peso di mostrarti come il più duro per sopravvivere e non hai tempo di guardarti attorno, che affrontare il periodo più buio della sua vita gli ha fatto riordinare le priorità o, semplicemente, che doveva arrivare il momento giusto perché Rondo si mettesse faccia a faccia con Mattia, il suo io più profondo che dà il titolo al suo nuovo album in uscita domani.

Un disco che è un saluto, una transizione, un testamento di ciò che ha lasciato prima di voltare l’ultima pagina e provare a riscrivere il suo libro altrove, in quel nuovo continente che non è mai stato così vicino come negli ultimi anni.

Mattia, però, non è solo il racconto di un rapper italiano che sogna di conquistare gli States. È il ritratto di un ragazzo che ha capito troppo in fretta tante cose: cosa vuol dire indossare una corazza, il prezzo del successo che fa perdere l’ingenuità troppo presto e che ti rende ricco ma solo. Un prezzo che, tornando indietro, forse non sarebbe più disposto a pagare. Nel mezzo, una Milano che “ama solo se corri, che ti spezza se ti fermi”, una scena che mette ai margini chi non si adegua, e un mercato saturo dove «i big non vogliono aiutare gli emergenti perché hanno paura di perdere il loro posto».

Rondodasosa però a tutto questo non ci sta e non ci è mai stato: nella musica e in questa intervista rivendica il suo spazio, anche da solo, forse con un pizzico di amarezza ma con la lucidità di chi ha capito come funziona il mondo e per cui la verità, alla fine dei conti, è l’unica via possibile.

Rondodasosa, foto di Jean St Hilaire

L’intervista a Rondodasosa

Come ti stai vivendo le ultime ore prima dell’uscita di questo disco?
Bene. Si lavora tanto, siamo a mille, facciamo un sacco di cose, ma sono tranquillo.

Trovo che questo sia un disco che si divide in due parti. La prima più Rondo, più trap, e poi una seconda parte più emotiva, che è effettivamente Mattia. Senti tanto in te questa distinzione?
Sì. Diciamo che Rondo è un po’ una corazza, mentre Mattia è la persona che mostro solo a pochi. Il disco è una sorta di transizione, come se stessi dicendo “vi do entrambe le parti di me, vi mostro il lato più energico, aggressivo, ma anche quello più melodico, più emotivo”.

Nel disco dici: “This is the last Italian album of Rondodasosa”. Cosa c’è nel tuo futuro?
Questo sarà l’ultimo album in italiano per un bel po’. Mi sposterò verso l’America e inizierò a rappare in inglese. Non riesco a concentrarmi su entrambe le cose, è impossibile. Questo disco è la chiusura di un capitolo. Sento di avercela fatta, ma non ho mai dimostrato a tutti chi sono veramente. È un modo per chiudere tutta la mia storia qui e iniziare un nuovo capitolo della mia vita.

Rondodasosa, foto di Jean St Hilaire

C’è stato qualcosa che ti ha limitato nel mostrare chi sei davvero?
No, arrivare a farlo è stato un processo. Rappo da quando ho 15-16 anni, ho iniziato ufficialmente a 18. Ho vissuto questi cinque anni come se fossero venti. Adesso mi sento in una versione più matura di me stesso.

Mattia è anche un saluto all’Italia, a modo tuo?
Più che un saluto, è uno spostamento. È come dire: è il momento di salire al next level. Nessuno lo fa, perché molti hanno paura di rischiare o non se la sentono. Fare un passo del genere non è per tutti: non è semplice lasciare un mercato dove guadagni bene, dove sei già avviato, per entrare in uno dove non sei nessuno e ci sono artisti che lo fanno da anni.

Da quanto tempo ci pensavi? Immagino fosse una cosa della tua testa da molto, anche perché negli ultimi anni sei stato il nome che più di tutti ha teso verso gli States.
È nato tutto quando ero a Miami. La prima volta che sono andato lì per un mese a lavorare, ho capito subito che quella che stavo facendo non era la vita che volevo, almeno non per adesso. L’Italia è bella, ma fuori c’è un mondo da scoprire. Non posso restare qui a sprecarmi per dimostrare qualcosa che magari non viene capito. Non voglio consumare me stesso: voglio chiudere questo capitolo e uscire un po’. A Miami ho capito che voglio stare lì per almeno cinque-dieci anni. Poi, magari, tornerò.

Nel disco dici “Mi sento ancora giovane, ho dei sogni da esaudire”. È l’America il sogno di cui parli, o ce ne sono altri?
Ce ne sono altri, ma se te li dico poi non si avverano.

Cosa ti affascina di più dell’America? Del resto è un paese con tante contraddizioni e problematiche…
Lì è tutto più reale. Le persone sono schiette, non nascondono nulla. Purtroppo in Italia abbiamo questo brutto vizio di tenerci tutto dentro. In America invece è tutto spontaneo: se mi stai sul cazzo, te lo dico in faccia.

Ti senti più libero lì?
Sì, perché è tutto più genuino. Lì si respira libertà, cosa che in Italia non senti per niente: siamo tutti chiusi, oppressi. La gente segue la massa, nessuno ha una propria linea di pensiero. E se ce l’hai, o ti tagliano fuori o dicono che sei un pazzo. Trovano sempre una soluzione per farti passare come quello sbagliato. In America, se sei quello “sbagliato”, puoi farne un punto di forza, puoi costruirci un impero. È un mondo libero… finché non sbagli. Perché se lo fai, paghi le conseguenze.

Mi pare che tu però non ti sia mai fatto condizionare da questa linea.
Mai. Con BLUE TAPE sono stato il primo della mia generazione a uscire con un disco senza featuring. Non ho mai seguito le pressioni del mercato, non mi interessa proprio. Faccio di testa mia, nel bene e nel male. Mi sento come quando a scuola ti spiegavano i problemi di matematica con le mele: io mi sento nel mio cestello da solo.

Il concetto dell’essere solo torna più volte anche nell’album, in cui parli sia della solitudine nell’industria, sia di quella nel privato. Il successo, oltre ad averti dato tanto, ti ha tolto altrettanto?
Sì, ovvio.

Tornando indietro è un prezzo che pagheresti di nuovo?
Forse no.

Quando hai iniziato a lavorare a Mattia? Cosa ti ha influenzato in particolare?
L’unica influenza che ho avuto sono io. Per fare questo disco mi sono proprio chiuso fuori dalla società, sono sparito. Non pensavo ad altro se non a finire l’album. Ho trascurato tutto: relazioni personali, lavoro, il mio corpo, tutto. Nella parte più emotiva ero completamente chiuso in me stesso. Poi, nella parte più energica, ero comunque isolato, ma cercavo di fare delle cose che mi facessero stare meglio. Le tracce più conscious le ho scritte in un periodo buio della mia vita. Poi mi sono ripreso, sono rinato, e da lì sono nate le altre sette tracce, più energiche.

In che modo ti senti rinato?
Prima ero molto materialista, mettevo i soldi davanti alle persone. In parte è ancora così, sono molto geloso delle mie cose. Però ho capito la legge dell’attaccamento: non puoi affezionarti troppo a qualcosa, perché quando la perdi, ti rendi conto che forse non era ciò di cui avevi davvero bisogno.
Ora i beni materiali, i soldi, non hanno più lo stesso valore per me, e questo pensiero ha influito non solo sul disco, ma anche su di me come persona.

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Rondodasosa, foto di Jean St Hilaire

Hai capito quali sono le priorità?
Ho capito più che altro come gira il mondo. È come quando ti svegli dal Truman Show e capisci che tutto ciò in cui vivi è un’illusione. Io non ho più fiducia in niente e nessuno.

Ti dispiace aver sviluppato questo pensiero a un’età ancora così giovane?
Non lo so, penso che prima o poi sia una cosa che succede a tutti. Da piccolo ti chiedi perché le persone siano così di merda. Poi cresci e capisci. Capisci che nessuno si fida di nessuno perché ha vissuto cose pesanti. Perdi l’ingenuità, che da una parte è la cosa che ti porta lontano perché non ti fa fare i conti con determinate situazioni, dall’altra è quella che ti fa arrivare le porte in faccia.

È una visione molto realista, ma allo stesso tempo profondamente disillusa.
Per me è l’unica possibile e questo è il mio modo di vivere: senza illusioni, senza bugie. È come in Matrix: l’unico modo per dimenticare che sei nel Matrix è far finta di non essere nel Matrix.

E tu ci riesci?
Rondo si prende una pausa per riflettere.

Pensando al successo ottenuto così giovane, ti sei mai detto: “Avrei voluto che le cose andassero con più calma”?
Sì, spesso mi do la colpa di aver avuto troppa fretta a 18-19 anni. Ma ero ingenuo, non capivo ancora bene le cose, e mi mettevo troppa pressione. Ero entrato in un’industria dove tutti vanno a mille, dove gente lo faceva già da anni. Non avevo tempo per guardarmi intorno. Ho iniziato a capirlo solo recentemente. Alla fine però penso faccia tutto parte del processo, dell’evoluzione umana. Finché non sbagli, non capisci dove sta l’errore. Solo quando sbagli puoi diventare una nuova versione di te stesso.

Senti che sei vicino alla versione migliore di Mattia?
Forse sì, o forse non la troverò mai. Magari continuerò questo processo per sempre. Ora voglio seguire questo percorso e vedere dove mi porta.

Parlami un po’ del rapporto con gli artisti che hai scelto per questo disco.
Guè lo rispetto tantissimo, ha fatto tanto per la cultura rap italiana. È l’unico a cui non importa se hai problemi con qualcuno, lo supporto perché è reale con la sua causa. Non gli importa chi sei, che colore di pelle hai, o con chi hai problemi. Lui è diretto. In Ally credo tantissimo. Penso che sarà il prossimo volto femminile forte della scena italiana. Non vedo l’ora che dimostri quello che penso di lei. Stiamo lavorando perché succeda. Hartman invece ha un talento unico. ed è troppo sottovalutato in Italia, forse perché anche lui non ha mai scelto di stare ai comodi di nessuno. È un fenomeno, ma in Italia non può ancora essere capito. È una cosa troppo nuova.

Duomo inizia dicendo che “Milano è una città che ti ama solo se corri, che ti spezza se ti fermi”, che mi sembra una definizione molto calzante di una città che oggi tende sempre di più a lasciare indietro chi non sta al passo con lei. Che rapporto hai con Milano oggi? Ti ha più dato o più tolto?
Sì, è proprio questo, l’hai detto tu. Milano, per quanto mi ha portato a essere quello che sono, dall’altra parte mi ha anche distrutto. Mi ha fatto passare bei momenti, ma anche brutti. Solo chi è nato a Milano, nei posti peggiori, può capire davvero le energie che ci sono qui. Sono energie diverse da qualsiasi altra città che ho visto nel mondo. Solo chi è di Milano può capire cosa viviamo.

Hai fatto anche delle cose importanti per San Siro. Che rapporto hai oggi con il quartiere? Lo senti ancora vicino o vuoi prenderne le distanze?
Io sono il re di quel quartiere, che piaccia o no. Questi sono i fatti, e i fatti non si possono negare. Continuerò ad avere amore per la mia zona, e farò di tutto per cercare di riqualificarla e di mandare via le mele marce che rovinano quel posto.

Anche a distanza?
Vicino o lontano non fa differenza.

Ti mancherà Milano quando andrai via?
Per il cibo… e per le donne.

Una delle tracce che mi ha colpito di più è Amico, in cui dici “Il mio amico non sa se scegliere tra Rondo e Mattia”. Questo fa riflettere, perché si pensa sempre che il successo porti più persone intorno a te, però a a volte incrina i rapporti che avevi prima perché non è detto che tutti si sentano a proprio agio con questa cosa.
È vero. Il problema è che non sai mai le vere intenzioni delle persone. Possono stare lì mesi a fare la bella faccia, a dirti certe cose… ma tu non sai se sono lì per te o per altri motivi. Ho imparato a non fidarmi più. Non mi aspetto più nulla da nessuno. Sto nel mio.

Isolarti è un modo per proteggerti?
Sì. Meglio vivere così che espormi e farmi male avvicinandomi a qualcuno.

Mi parli un po’ più a fondo del pezzo? Mi sembra abbia un ruolo importante nel disco.
L’ho messo alla fine proprio per chiudere un capitolo. Non è una cosa che è successa solo a me, succede a milioni di persone: ricevi tradimenti o delusioni da chi pensavi fosse dalla tua parte. Tu dai tutto, credi in una persona, e poi ti rendi conto che era tutto finto. L’essere umano non si accontenta mai, è per natura egoista.

Nel pezzo dici anche: “Quante persone ho aiutato, mai senza un ritorno”. È qualcosa che oggi vivi con rimorso o la rifaresti?
Non lo so. Forse lo faccio anche perché seguo un po’ il modello americano, dove i rapper si sostengono a vicenda. In Italia è diverso: ti usano per il pezzo, poi finisci in galera e nessuno ti manda soldi. Sul palco dicono “free”, ma dopo tre mesi si sono già dimenticati di te. È tutto un teatrino. In Italia i big hanno paura di aiutare gli emergenti, perché temono di perdere il posto. E in parte li capisco: il mercato è saturo, siamo troppi, e ognuno pensa per sé. In America invece è tutto reale. Se un rapper ha problemi con un altro, può finire davvero male. E se ti supportano, ti supportano davvero: anche mandandoti soldi se stai dentro.

Drake ad esempio…
Esatto. Drake non guarda quanti follower hai. Se gli piaci, fotte con te. Qui invece è tutto a convenienza. Ti supportano solo se sanno che gli tornerà qualcosa. Non c’è genuinità o il voler dire “lo faccio perché credo in questo ragazzo, perché rivedo me stesso e gli voglio bene”.

E tu, in chi ti rivedi?
In nessuno, perché io sono unico.

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