Beirut plays loud: il Libano come avanguardia del mercato musicale mediorientale
Nonostante le molte crisi che attraversa da tre anni, il paese rimane per molti aspetti il motore culturale del Medio Oriente, con un humus ideale per la musica. Con il contributo di artisti, promoter, dirigenti di club e di piattaforme di streaming, analizziamo gli scenari del sistema-musica libanese in quanto prima linea di un mercato di centinaia di milioni di consumatori ma dalle potenzialità ancora tutte da esplorare
Autunno 2019: da Hong Kong a Santiago del Cile, un’ondata spontanea di proteste di piazza divampate quasi simultaneamente scuote mezzo mondo. Il vento della rabbia popolare investe anche il Libano. Dalla capitale Beirut a tutte le città principali fino a centri minori e villaggi di montagna, nel piccolo stato mediorientale proliferano manifestazioni non violente che – circostanza più unica che rara – vedono le varie comunità religiose del paese (cristiani, musulmani sunniti e sciiti, drusi) schierate compattamente nella protesta.
È la scia dell’onda lunga delle primavere arabe. Dopo decenni di malgoverno, corruzione endemica e ultra-corporativismo dell’élite politica, l’introduzione di nuove tasse e l’incipiente iperinflazione fanno saltare la diga di una frustrazione diffusa ma fino ad allora ammansita con i piccoli vantaggi di un clientelismo politico generalizzato. La gente reclama non solo le dimissioni del governo (cosa che accadrà) ma anche l’impossibile. Ovvero la rimozione dell’intera classe politica (killon yaane killon, “tutti significa tutti”, è uno degli slogan più frequenti) e il superamento del rigido sistema su base confessionale con cui per costituzione in Libano vengono spartite le cariche istituzionali. La chiamano frettolosamente thawra, “rivoluzione”.
Tre anni dopo, il Libano affronta gli stessi problemi di sempre. Anzi, molti più di prima. La “rivoluzione” non aveva messo in conto il maledetto 2020. L’emergenza Covid prima e l’esplosione del 4 agosto poi (oltre 200 morti, 7000 feriti, danni per miliardi di dollari) hanno accelerato quella che la Banca Mondiale considera una delle peggiori crisi economiche degli ultimi 150 anni. Tuttavia in parlamento siedono ancora gli stessi personaggi che hanno portato il Libano alla rovina.
La premessa sulla situazione socioeconomica è indispensabile per comprendere una circostanza che ha dell’eccezionale. Nonostante tutto, fedele al proprio tradizionale cosmopolitismo il Libano rimane tuttora il paese arabo con il migliore humus per lo sviluppo di progetti culturali. Soprattutto musicali, e anche in senso imprenditoriale.
Nella memoria collettiva resta leggendaria la “nightlife” di Beirut durante quel periodo d’oro (anche se per molti versi idealizzato) che furono gli anni ’60 libanesi. Anni di boom economico, di abbondanza e dolce vita. Ma portavano già i semi della cieca conflittualità che sarebbe esplosa a metà del decennio successivo e si sarebbe trascinata per quindici anni.
All’indomani della fine della guerra, la vita notturna della capitale rinacque con la stessa vivacità di prima. Questa volta si specializzò nella musica elettronica. «Cominciò tutto nel 1994, con l’apertura del B018, iconico club tuttora esistente», racconta Moe Choucair, DJ e co-fondatore di The Ballroom Blitz, nato nel 2018 e rapidamente diventato uno dei club più in vista di Beirut. «Ma già negli anni ’70 e ’80 c’erano house party in tutta Beirut. La gente faceva festa persino nei bunker, mentre fuori piovevano le bombe». Il successo del B018 spianò la strada a una fioritura di club capaci di competere per qualità con gli omologhi europei. Soprattutto durante gli anni ’10, avrebbero messo Beirut sulle mappe della scena clubbing internazionale.
Adiacente al porto, il quartiere di Karantina (dove si trovano tutti i principali club della città) è stato fra i più colpiti dall’esplosione del 2020. Ma per fortuna il Ballroom Blitz non ha riportato gravi danni strutturali. «Abbiamo subito aperto le porte agli artisti affinché potessero produrre e fare prove, anche raccogliendo fondi per quelli in difficoltà. Dopodiché abbiamo riaperto al pubblico optando per un basso profilo, ingaggiando artisti locali. Il club si è subito riempito». Anche con prezzi di ingresso lievitati per via dell’inflazione, la gente aveva semplicemente voglia di ritrovare un senso di libera espressione di sé. Una funzione sociale che, del resto, ha sempre caratterizzato storicamente i club, «luoghi sicuri dove – se i gestori sono intelligenti – non c’è discriminazione in base a orientamento sessuale, etnia, classe sociale, religione… tutto ciò viene cancellato».
Quella dei club di Beirut non è l’unica eccellenza musicale “made in Lebanon”. Fondata nella capitale libanese nel 2012, la piattaforma di streaming Anghami è da sempre leader di mercato nel MENA (Middle East and North Africa). Ha un ampio vantaggio competitivo persino su Spotify, che è arrivata nella regione soltanto nel 2018. Qualche dato: 73 milioni di utenti, una quota di mercato del 58%, un catalogo di 57 milioni di brani, uffici in quattro paesi (Libano, Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti).
Sin dall’inizio, la mission dichiarata della piattaforma è stata quella di valorizzare il repertorio della musica araba, parallelamente alla disponibilità del catalogo internazionale. Una strategia “glocal” che ha certamente contribuito al suo posizionamento. «Quella di Anghami è una storia di successo globale costruita sulla localizzazione», conferma Eddy Maroun, co-fondatore e CEO dell’azienda. «Il nostro focus principale sarà sempre la cultura araba. Anche perché riscontriamo un ampio gap fra la domanda di tali contenuti e la loro creazione: se la musica araba rappresenta l’1% del nostro catalogo, la sua fruizione si aggira intorno al 60%».
Come tante realtà analoghe, oggi anche Anghami attraversa una fase di trasformazione. Non più una semplice app di streaming musicale ma «una piattaforma pienamente integrata comprendente podcast, radio, audiolibri, live e video». Non solo. Con la recente acquisizione del promoter Spotlight e il lancio a Riyad del progetto itinerante Anghami Lab (con «un’area lounge, un palco, uno studio di registrazione dove gli artisti locali possono riunirsi per creare musica insieme»), l’azienda mette un piede nel mondo degli eventi a tutto tondo e crea nuove opportunità per gli artisti locali.
L’ultimo anno ha visto importanti evoluzioni per Anghami: prima il trasferimento della sede principale da Beirut ad Abu Dhabi e poi la quotazione al NASDAQ. È la prima volta che una tech company araba raggiunge questo traguardo. «Il motivo per cui abbiamo intrapreso questa sfida è avere un focus mirato sulla crescita», spiega Maroun sul debutto in borsa. Tocca poi un punto cruciale: «Il mondo arabo è un mercato di 450 milioni di persone di cui solo il 5% viene intercettato».
Se il mercato dello streaming nel MENA ha ampie possibilità di crescita, non si può dire altrettanto delle opportunità di internazionalizzazione degli artisti locali. Per esibirsi in Europa o altrove devono ancora affrontare enormi ostacoli organizzativi.
«Per gli artisti libanesi la sfida più grande è come finanziare questi tour e ottenere i visti necessari», spiega Anthony Semaan, co-fondatore di Beirut Jam Sessions. L’organizzazione dal 2012 mette a disposizione dei musicisti locali una rete di eventi in cui esibirsi, talvolta facilitandoli nella pianificazione di tour in Europa e nella collaborazione con artisti internazionali. «L’aspetto economico è quasi secondario. Con un minimo di accortezza gestionale, infatti, è possibile mettere da parte i soldi che servono per organizzare qualche concerto». Gli fa eco Choucair: «Il grosso problema è il visto, che richiede una vasta documentazione, anche finanziaria. Per cui è davvero scoraggiante per un artista: anche se lo ottiene, difficilmente avrà voglia di tornare un’altra volta».
Un modo per superare questi scogli è la collaborazione con istituzioni internazionali: «I visti per paesi europei possono essere facilitati da enti culturali come il Goethe-Institut o l’Institut Français. Una lettera firmata da loro ha più peso di una firmata da un club», spiega Choucair. Una realtà come il Beirut & Beyond International Music Festival (BBIMF), nata nel 2013 in partnership con il festival Oslo World e con il supporto del ministero degli esteri norvegese, punta proprio su tali sinergie: «Abbiamo sempre aiutato gli artisti mediorientali a espandere le loro carriere al di là della regione. È l’idea alla base del programma BBIMF Tours che cominciò nel 2013», racconta la program manager Yara Mrad. «Recentemente abbiamo avviato una partnership col centro culturale Prozess di Berna. Mandiamo artisti mediorientali in Svizzera per residenze artistiche di un mese in cui sviluppare i propri progetti e lavorare sulla propria musica».
Per il momento, comunque, la strada più percorribile resta quella del consolidamento di un sistema musicale a livello regionale. Mrad: «Negli ultimi mesi abbiamo intensificato i rapporti con gli addetti ai lavori nel MENA. In questo modo si condividono risorse e si può operare come unità regionale piuttosto che come realtà individuali, rendendo il processo di sviluppo più duraturo». Lo ribadisce anche Semaan: «Occorre vedere il Medio Oriente come se fosse un unico grande paese, sfruttandone le opportunità. È possibile avere base a Beirut ma lavorare al Cairo, a Dubai e così via. I voli non sono molto lunghi né molto costosi. Se un artista riesce a fare un concerto da 5mila spettatori in Egitto, è più di ciò che otterrebbe con dieci concerti piccoli in Libano».
La migliore esemplificazione di un simile approccio regionale è quella messa in pratica dalla popstar “panaraba” Myriam Fares: «Non ho mai avuto specifici mercati di riferimento. Anche perché mi piace diversificare», spiega. «Canto in tutti i dialetti e stili musicali della regione: libanese, egiziano, iracheno, arabo del Golfo, marocchino, berbero, curdo… Il mio obiettivo è avvicinare i diversi popoli mediorientali fra loro, e costoro agli altri popoli del mondo».
L’artista libanese è protagonista di una storia di successo che non ha paragoni nella musica araba all’epoca dei social network. La sua Goumi ha registrato oltre 6.4 milioni di utilizzi e 8.4 miliardi di visualizzazioni solo su TikTok. Pubblicato originariamente nel 2018, il singolo ha conosciuto una seconda vita quando lei quest’anno ha deciso di riproporlo in una dance challenge lanciata su Instagram diventata presto, con sua stessa sorpresa, un fenomeno virale capace di travalicare i confini dei paesi arabofoni.
Ma attenzione a considerarla una meteora da condivisione social. Con vent’anni di carriera alle spalle e persino un documentario biografico disponibile su Netflix, Fares è già una delle grandi star del Medio Oriente. E adesso, forte del successo di Goumi, si appresta a fare il grande salto su scala globale. Dopo l’ondata Latin e coreana, il pop arabo è la “next big thing” del panorama mainstream? «Alla musica Latin ci è voluto parecchio tempo per conquistare il mondo. Penso che le canzoni arabe seguiranno la stessa dinamica», dice. «Ho sempre visto la musica come un linguaggio internazionale che non ha limiti. Non dobbiamo per forza capire la lingua di una canzone per amarla. Più che altro la questione è l’apertura degli occidentali verso la cultura mediorientale. Ma oggi grazie ai social media possono avere uno sguardo sulla nostra musica, e questo può aiutare le canzoni arabe a diffondersi globalmente».
Insomma, il futuro presenta molte opportunità per l’industria musicale mediorientale, ma il presente del Libano mette duramente alla prova tutte le realtà qui interpellate. «Il fatto che io non viva più lì parla da sé. Sia io che il mio socio abbiamo lasciato il Libano negli ultimi dodici mesi», dice con una punta di amarezza Semaan, che oggi risiede a Londra. Aggiunge Fares: «Ovviamente ciò che sta accadendo al mio splendido paese ha condizionato il mio lavoro. In fin dei conti sono un’artista e per essere creativa ho bisogno di trovarmi in un contesto positivo. Gli eventi degli ultimi anni hanno causato spesso il rinvio delle mie release».
Volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, possiamo rifarci all’idea per cui ogni crisi porta con sé opportunità di innovazione. Cambiare pelle diventa allora una strategia di sopravvivenza: «Ci siamo evoluti da semplice festival a realtà che supporta la scena musicale locale con una serie di programmi di sviluppo come workshop, webinar, residenze artistiche e così via», racconta Yara Mrad di BBIMF. Eddy Maroun di Anghami, con diplomatica prudenza, spiega: «Il Libano sta affrontando grosse sfide economiche. Noi siamo in una fase in cui abbiamo bisogno di un più ampio e più solido ecosistema per i nostri piani futuri. Da qui la decisione di spostare i nostri headquarter ad Abu Dhabi. I nostri bellissimi uffici in Libano rimangono un importante hub: ci impegniamo più che mai a sostenere la talentuosa community di artisti libanesi».
Di certo c’è molto da fare per ricostruire (anche letteralmente) ciò che gli ultimi tre anni hanno distrutto. Magari, stavolta, con obiettivi politici più realistici. La thawra dell’autunno caldo libanese del 2019 è uno sbiadito ricordo. «Ciò che è rimasto è la frustrazione», afferma Choucair. «Ma c’è un barlume di speranza. Con le ultime elezioni, più indipendenti hanno ottenuto seggi in parlamento. Ciò non avrà conseguenze pratiche nell’immediato, ma è un inizio. E se la gente avrà abbastanza pazienza, non sarà impossibile cambiare le cose».
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