Marina Herlop: storia di una perfezionista già perfetta
In occasione della sua esibizione a Linecheck, abbiamo incontrato l’artista catalana, che dopo Pripyat sembra già essere pronta per un nuovo disco
Anziché fare il solito racconto del festival dove per metà dell’articolo parlo di quanto è brava Marina Herlop, stavolta ho chiesto direttamente a lei un’intervista. Ringraziando il Linecheck che comunque è stato un ottimo antidoto allo spleen milanese di novembre.
Sì, insomma, ormai l’ho detto in lungo in largo. Per me l’artista catalana è sicuramente la scoperta del 2022 e il suo Pripyat, a mani basse, il disco dell’anno. Sono anche sicuro di non essere il solo a pensarlo, visto che, dopo qualche minuto di live al Base, il brusio e il vociare di sottofondo sono diventati silenzio ossequioso o direttamente applauso scrosciante. Fa questo effetto: il motivo va ricercato nell’indole costantemente alla ricerca della perfezione, oltre a una preparazione musicale spaventosa e un innato fascino per cui ti ritrovi letteralmente imbambolato, vittima di un potentissimo incantesimo di ammaliamento.
Non bastasse, dietro a tutto questo c’è una persona sinceramente spassosa, che se la tira zero nonostante avrebbe tutti i meriti per farlo. Lei stessa si definisce una Hermione Granger, per dare l’idea della dedizione, dello stacanovismo più irriducibile, ma qui non c’è magia a rendere la vita più facile. C’è molto semplicemente un talento musicale di come ne nascono pochi in un secolo. Un tour gigantesco è quasi finito e il prossimo disco è praticamente pronto. E le vacanze? Seh, quelle le farà magari nell’aldilà.
Quindi non sei un’ottima turista?
Sono più interessata alle persone che ai luoghi. Se devo scegliere, meglio una gita nella natura. Se sono lì, in una città, da sola, non so. Mi piacciono i musei. Ero a New York questa estate, ho visto il Metropolitan ed è stato incredibile. In generale, quando sono in tour sono molto stretta coi tempi. E quando non lo sono, preferisco riposare per la data successiva o fare esercizio. Finora è sempre andata così: magari col tempo e l’esperienza avrò modo di esplorare di più i posti dove suono.
Hai suonato parecchio quest’anno, eh?
Sì, ho suonato tantissimo. Non saprei manco dirti quante date ho fatto. L’album ci ha messo tantissimo a uscire, e in più c’è stato un intervallo bello lungo tra l’uscita dei singoli e quella del disco vero e proprio, per cui il tour è iniziato molto prima dell’uscita di Pripyat. Molte date importanti sono state prima della release: Rewire, Mudec Barcelona. Quella al Sonár è stata lo scorso autunno, quindi un anno esatto fa.
E quindi lì hai suonato l’album prima che uscisse.
Non solo, ho suonato anche un po’ del prossimo. Lo sto facendo in tutto il tour. Mi aspettavo che l’album uscisse nel 2021, ma nel frattempo ho scritto un altro album. O EP o chiamalo come vuoi. Musica. Anche se un album non può uscire, la mia vita va avanti. Sono una musicista e faccio musica. Ora il calendario delle mie release e quello della mia vita personale e artistica è un po’ incasinato, come se si fosse sovrapposto un po’ tutto. C’è bisogno di azzerare tutto e ricominciare con un ciclo normale. Attualmente è tutto un casino confuso. Sono addirittura sorpresa di come stia riuscendo a farcela in questo macello.
Hai sicuramente un ottimo booking manager.
Siamo un team davvero eccellente. Hai presente Hermione Granger? Quello è il nostro stile: lavoratori instancabili, letto presto.
Crescere in una città così viva e piena di eventi musicali come Barcellona ha aiutato la tua carriera?
Ho sempre pensato che la mia carriera è nata nella mia stanza. Molto prima dei tour. Ho studiato musica da piccola, le classiche lezioni di piano. Poi da teenager ovviamente ho mollato, ma a vent’anni stavo studiando Lettere e giornalismo e mi sono svegliata un giorno pensando: “Ma che cazzo sto facendo?”
Sono perfettamente d’accordo.
Così mi sono aggrappata di nuovo alla musica tipo scialuppa del Titanic. Però sentivo di essere troppo vecchia per ricominciare a suonare il piano. Ero frustratissima. Allora mi sono chiusa nella mia camera e ho studiato molto. Non sono uscita spesso, per diversi anni, non mi sentivo vicina alla scena musicale di Barcellona. Ho ricominciato un po’ a uscire da più grande, attorno ai 26 anni. Ed è anche a quel punto che ho conosciuto i musicisti che sono con me nella band adesso. Per la maggior parte del tempo però sono stata per conto mio. Non volevo farmi distrarre. Per come la vedo io, bisogna studiare molto.
C’è stato un evento particolare che ti ha convinto a cambiare vita? A diventare musicista.
Sì, ce n’è almeno due, ma uno è più importante. Ero nell’appartamento in cui vivo ormai da 12 anni ma all’epoca ci vivevo con dei coinquilini. Erano tutti via e anche io sarei dovuta essere via, a Dublino, perché mi piaceva un ragazzo di lì. Ero giovane, ero un casino vivente. A un certo punto però mi sono sentita di restare a casa, di non partire. Hai presente quando entri in una fase contemplativa della tua vita? Quando hai bisogno di cose più profonde di correre dietro a un ragazzo. Quella settimana faceva freddissimo e non avevo Internet, né Facebook o WhatsApp. Quindi ero molto connessa con i miei pensieri. Niente mi poteva distrarre dai miei sentimenti.
Però è stata un’esperienza dura, no?
È stata una settimana illuminante ma anche stressante. Ero giovane ma non così tanto giovane. Sono sempre stata una persona metodica, diligente e con ottimi voti a scuola. E per me provare a mollare l’università era davvero destabilizzante, in più i miei si sono inizialmente opposti. Così ho ricominciato con la musica proseguendo anche con l’università. E questo è stato a circa 20-21 anni. Ma c’è stato un altro episodio dopo.
Quale?
Era l’estate 2014, avevo 22 anni. Sono andata in Australia e sono entrata in contatto con gli Hiatus Kaiyote, stavo nella casa del batterista e andavamo a concerti, suonavamo: mi sentivo così vicina a quel mondo, ma allo stesso tempo malinconica perché volevo farne parte anche io. Così sono tornata da quel viaggio in modalità guerriera. Ora sapevo perfettamente cosa volevo fare. Oggi ci penso e sorrido, perché tutti i miei amici all’epoca non mi sopportavano più. Anche dopo l’uni, di solito tutti si fermavano per prendere una birra. Invece io tornavo a casa a fare esercizio, a studiare.
Studiavi giornalismo e ora molto del linguaggio che usi nei testi è inventato: mi sembra giusto.
Mi piace scrivere molto. Sai, molte persone hanno questa capacità di avere il linguaggio come mezzo, così come un pesce nuota naturalmente nell’acqua. Il linguaggio per queste persone può essere un’arma, uno scudo, un attrezzo che ti può tornare utile a un esame, se tipo non conosci una risposta ma vuoi far credere di conoscerla. Mi sento molto connessa al linguaggio. Proprio per questo, quando ho iniziato a fare musica mi sembrava troppo mettere insieme musica e parole. Cosa dirò nelle mie canzoni? Come potrò far entrare la melodia in parole che troverò, sarà il loro suono tanto bello quanto il loro significato?
E nel prossimo disco?
Nel prossimo penso inserirò alcuni testi in catalano. Perché rischiavo sempre di passare per quella che non mette testi nelle canzoni, e non mi va neanche troppo di essere etichettata per quello. Semplicemente mi sembra strano che qualcosa di puro e che rispetto molto come la musica venga macchiato dalle mie storie personali, no? Di cosa dovrei parlare, del mio ex? Certo che certi sentimenti e pensieri cerchi di metterli da parte ma finiranno per influenzare quello che scrivi. Ma non è una questione di me. È ironico perché è una professione dove c’è molto Ego. Sei tu il protagonista sul palco. Ma quando sei a casa a fare musica in pigiama a nessuno frega nulla di te, sei da solo e quando lo fai bene è un momento di totale dedizione, quasi religioso.
I tuoi primi due album erano diversi da Pripyat. Erano molto piano e voce. Come mai?
Proprio per questo motivo. Perché non ero ancora capace di produrre musica con Ableton. In più volevo fare musica interessante, perché mi imbattevo sempre in musica pop molto smielata, con le stesse armonie. All’epoca ero al Conservatorio ed ero esposta a molta musica classica con variazioni armoniche molto frequenti. Le canzoni dei primi due album sono OK, mi riportano a tanti ricordi. Ma è come quando vedi una foto di te a 16 anni e c’è quel misto tra apprezzamento e imbarazzo. Oggi le farei diversamente, ma sono comunque canzoni speciali perché hanno quella freschezza che temo di non avere più. Se non altro, ora ho altri modi per sperimentare. Attraverso il timbro dello strumento, il mix, non dev’esserci per forza una progressione eccentrica di accordi o tempi pazzi. Qualcosa deve sempre essere stabile e fisso. Sono molto più consapevole di quello che faccio ora.
Come sei entrata in contatto con PAN Records?
Tramite un amico che conosco da molto. Gli ho mandato il disco nel 2019, era praticamente già pronto. E verso marzo 2020 siamo entrati in contatto con PAN. Anche se poi di fatto ho incontrato di persona per la prima volta Bill Kouligas [fondatore di PAN, ndr] soltanto un mese fa.
E adesso che farai?
Eh ora starò un po’ tranquilla. Sono stata in tour per tanto tempo. Il mio stile di vita è cambiato così tanto. L’anno scorso ero praticamente una casalinga che cercava su Zara Home delle tende che s’intonassero col divano. E ora la mia valigia è sempre per terra, aperta in soggiorno. Mi siedo lì in sala e mi chiedo: “Ora che faccio?” Di certo non suono il pianoforte. Quest’anno a parte il tour non ho fatto praticamente niente e non mi fa sentire benissimo questa cosa. A gennaio me ne andrò via per un mese, da sola.
In vacanza?
Macché vacanza. Vacanza la faccio quando muoio!
Come spieghi queste influenze etniche nella tua musica? Tipo il Konnakol indiano.
Quando stavo ancora studiando ho frequentato un corso di musica carnatica. Però, come dicevo, non inizio un album con un’influenza precisa o un concept. È tutto molto caotico. Se in quel momento avessi avuto un conquilino sassofonista, forse il disco sarebbe pieno di sax. In quel momento mi piacevano i ritmi del Konnakol e mi piacciono tuttora, anche se li ho abbandonati un po’. Mi piacerebbe continuare. All’inizio ero un po’ imbarazzata, avevo paura che gli indiani potessero risentirsi: nel Konnakol mica cantano, usano la voce per sentire il ritmo.
E quindi la cover della colonna sonora di Ghost In The Shell che fai dal vivo con la band è perché hai visto il film e ti è piaciuto?
Vuoi la verità? Io il film non l’ho mai visto!
COSA?
No! È che avevo questo ex che è praticamente un otaku, un appassionato di manga e anime. E mi aveva fatto sentire la colonna sonora e mi è piaciuta molto. Dovrei guardarlo, eh? Due anni fa ci ho provato a iniziarlo ma mi sono chiaramente addormentata subito. Quando mi sono svegliata ho chiesto: “Cos’è questo?” Avevo trovato una canzone bellissima e il mio giorno poteva tranquillamente finire in quel momento.
Quindi non si tratta di influenze.
No, quando faccio musica non si tratta di influenze, semmai è psicologia. Quando scrivo non penso a immagini o altra musica. Penso piuttosto a questo gioco di seduzione. Mettiamo che hai qualcosa da dire a qualcuno: come distribuirai le informazioni? Non posso dire tutto all’inizio, non posso mostrare subito le mie carte. Devo mostrare una bellissima carta, altrimenti la persona perderà d’interesse. E poi queste carte devono crescere d’intensità. Devi saper aggiungere livelli ma non puoi farlo in eterno: a una certa devi toglierne.
È prezioso quando un ascoltatore ti presta orecchio. È tutto un gioco di attenzione. Devi essere psicologicamente acuto. È come quando conosci una persona nuova che ti piace e non vuoi essere troppo scontata ma neanche troppo misteriosa. Vuoi apparire naturale ma anche ricercata. In una canzone è lo stesso, ci deve essere un equilibrio. Dev’essere impertinente, attraente, ma è un preciso calcolo di elementi. È più matematica che un tramonto.