Luchè, si vince alla fine
Nel nostro speciale dedicato a Napoli e il suo panorama musicale, non poteva mancare la voce di chi, della scena hip hop partenopea, ha gettato le fondamenta su cui si sono erte le generazioni successive. Dagli anni dei Co’Sang ad oggi, Luchè ha cambiato pelle tante volte senza mai perdere se stesso e la sua sincerità, nel bene e nel male. Lo abbiamo incontrato a distanza di un anno da Dove volano le aquile, il disco della svolta a cui si aggiungono oggi sei nuovi brani, e nella nostra intervista si è lasciato andare a cuore aperto a riflessioni sul passato, sul presente e sul perché la fine non è mai la fine
«Io sono uno che i traguardi non li festeggia nemmeno. Forse dall’esterno si percepisce un’immagine diversa, ma sono anche una persona che fa del grande auto-sabotaggio. Non ci ho mai pensato a questa cosa…», mi confida Luchè (che pubblica oggi il secondo volume del suo ultimo album) agli sgoccioli della nostra lunga chiacchierata avvenuta tramite una linea telefonica che collega Milano e Napoli, dove lui si trova in questo momento, quando gli chiedo quale sia ad oggi la sua vittoria più grande. Una risposta che potrebbe spiazzare, considerato che stiamo parlando di – e con – uno dei nomi che senza dubbio svettano nel pantheon del rap italiano. Ma che, a voler ben vedere, è la più onesta che un artista come Luca Imprudente potesse darmi. Sempre in evoluzione, mai scontato, accompagnato dalla voglia costante di volare dove nessuno ha volato, anche a costo di bruciarsi come Icaro.
«Questa cosa sicuramente mi porta a rischiare, ma almeno so di star facendo qualcosa di importante». Ed è proprio questo il leitmotiv che ha accompagnato Dove volano le aquile. L’ultimo album di Luchè uscito lo scorso anno che proprio oggi si arricchisce di sei nuovi brani – a Che stai dicenn, La notte di San Lorenzo e Purosangue si aggiungono Niente, Non siamo uguali con CoCo e Rispetta il re -, che rispecchiano questi dodici mesi di successi e che ne chiuderanno il ciclo vitale che ha registrato alti (moltissimi, tra i quali un tour incredibile nei palazzetti) e bassi (pochi). Ma questo è ciò che succede quando ciò che ti alimenta sono le emozioni forti. Quelle vissute sottopelle e che fanno ribollire il sangue nelle vene.
E se un cerchio si chiude, un altro è già pronto ad aprirsi, e succederà prima di quanto pensassimo. Per questo motivo per Luchè la fine è ancora lontana. E anche la vittoria, ma la strada è decisamente quella giusta.
L’intervista a Luchè è disponibile anche sul numero di maggio/giugno di Billboard Italia. Puoi prenotare qui la tua copia.
L’intervista a Luchè
All’indomani dell’uscita di Dove volano le aquile avevi detto che quel disco rappresentava per te un punto di svolta. A distanza di un anno, qual è il bilancio? C’è stata questa svolta?
Ho ragionato parecchio quest’anno su questa cosa e sono arrivato a varie conclusioni. Quella più pratica e che mi fa sentire in pace con me stesso è vedere ogni disco come un progetto a sé che ha un proprio ciclo e che non definisce la mia persona o il mio valore artistico. Che resta invariato a prescindere dal risultato. Poi ci sono progetti che hanno vita più facile e altri meno perché vengono fatte determinate scelte di mercato. Se io avessi fatto un disco con tutti i featuring più richiesti del momento, avrei dato un boost ai miei streaming e oggi staremmo parlando di qualche vendita in più. Ma io ho fatto un album molto personale e riflessivo perché in quel momento quello era il mio stato d’animo, e il progetto rispecchia a pieno i due anni in cui ci ho lavorato. Per questo artisticamente non ho alcun rimorso.
Anche le mie sonorità sono cambiate. Per me la rilevanza di un artista sta nella voglia di aggiungere sempre un tassello in più e dimostrare di avere personalità. E poi, Dove volano le aquile è un disco che mi ha portato a fare un tour incredibile nei palazzetti. Questa cosa mi ha dato moltissima grinta che sto mettendo nelle mie nuove canzoni. Guardando il quadro finale, dunque, non cambierei niente di questo progetto perché credo che a lungo andare questo disco avrà un ruolo molto importante. Il mio lavoro non è fare numeri, ma musica bella che resti nel tempo.
Luchè, questa voglia di superarsi ogni volta, di voler spostare l’asticella ancora un po’ più in là di disco in disco si percepisce sempre molto nella tua musica.
È una cosa sia positiva che negativa perché il fatto di dover dimostrare mi crea molta pressione. Però se non avessi più niente da dimostrare sarei finito. Andrei a ripetere cose già dette, a rifare canzoni già fatte. Questa mia voglia costante mi porta a sperimentare e a rischiare. Poi può dirti bene o male, però almeno stai facendo qualcosa di importante. Il pubblico italiano poi è un po’ particolare, magari è molto focalizzato sulla musica del nostro Paese senza ascoltare tante cose che escono all’estero. E questa cosa forse è un po’ penalizzante per gli artisti che come me traggono molta ispirazione da ciò che succede fuori dai nostri confini. Però se non facessi musica come piace a me diventerei uno schiavo di chi mi sta intorno, e a quel punto non avrei più l’entusiasmo di andare in studio e creare.
E infatti anche Dove volano le aquile non è un disco che arriva dritto al primo ascolto, ma che al contrario ha bisogno di tempo per essere capito, in particolare dal punto di vista sonoro.
Sono molto contento che tu lo dica perché mi sarebbe piaciuto che questa cosa fosse stata notata di più, soprattutto dai media. Dire che un disco ha bisogno di tempo è una cosa giustissima che dovrebbe essere la normalità, e invece ormai sembra quasi un’eccezione. Del resto, gli artisti che sono entrati nella storia sono quelli che hanno fatto album di un certo spessore, e trovo che sia arrivato il momento di mettere più in luce le canzoni che hanno davvero un valore aggiunto. Ecco, questo è un po’ il mio rammarico, che a volte i dischi vengono commentati con troppa leggerezza senza capire la profondità che c’è in certi brani.
Se io avessi fatto un prodotto commerciale, avrei accettato le critiche, ma il mio disco si rivolge a persone che hanno un certo vissuto e che hanno voglia di rivivere determinati momenti, sognare o evadere dalla realtà ascoltando la mia musica. Dal mio punto di vista ci vorrebbero più preparazione e sensibilità quando si parla di un album. La musica va sentita sulla pelle, non deve essere giudicata in maniera matematica in base ai numeri che un artista fa.
C’è anche da dire che, soprattutto la televisione, negli anni ha veicolato il rap in modo sicuramente fuorviante. Questo forse ha contribuito non poco alla scarsa comprensione del genere e degli artisti.
Assolutamente sì. Ti dico anche che il mio disco è stato criticato pesantemente e nessuno l’ha difeso, però lo ha fatto da solo. Alcune testate si sono espresse con un grande punto interrogativo su un album che secondo me può fare scuola da tanti punti di vista. Hanno detto anche che i miei testi erano semplici, ma come si fa a dire che una frase come “Chiedo a Dio solo una cosa in cambio della fede, che se muoio mi faccia vedere che succede” sia semplice?
Non lo è, e comunque a volte meglio essere semplici ma colpire nel segno che fare voli pindarici che non portano da nessuna parte.
Ma poi, a parte le eccezioni virtuose, tutta questa complessità testuale nella musica italiana oggi onestamente non la vedo. In Dove volano le aquile ho scritto dei testi che parlassero di me cercando – come dici tu – una chiave sempre molto diretta ma che allo stesso tempo fosse particolare. La metafora de Le pietre non volano, ad esempio. Tuttora molte persone non l’hanno capita, e sono quelle che nella musica non cercano l’emozione. Quel brano poi ha vinto anche il Premio Dalla come canzone dell’anno. Mi fa piacere e allo stesso tempo mi fa riflettere che gli apprezzamenti siano arrivati da un mondo musicale che non è il mio.
C’è in generale poca attenzione nell’approfondire la musica?
Sì, ma credo che questo sia un problema globale, e tocca alle testate autorevoli fare la differenza. Posso farti io una domanda?
Certo.
Secondo te, cos’è che più di tutto, dagli anni ’80 ad oggi, ha influenzato la percezione della gente su qualsiasi argomento?
I media e la televisione.
Esattamente. Chi ha una voce più istituzionale ha davvero un ruolo importante nel percepito delle persone, perché può andare a scavare in modo più approfondito e cogliere davvero i dettagli della musica. E questa cosa non giova solo al pubblico, ma anche agli artisti stessi, che a quel punto sono spronati a dare sempre di più nei dischi perché la gente è predisposta alla comprensione
E invece il feedback dei tuoi ascoltatori qual è stato?
È stato positivo ma non da subito. Voglio essere completamente sincero: a volte ho la sensazione che una certa parte del mio pubblico sia un po’ come quello del Napoli. Quando si vince si è tutti contenti, quando si perde, invece, volano offese gratuite. Forse se avessi fatto un disco completamente in dialetto sarebbe stato immediatamente accettato dai miei concittadini, invece inizialmente erano un po’ straniti. Anche per quanto riguarda le sonorità, in Italia forse siamo un po’ poco abituati al fatto che un artista voglia sperimentare cose nuove da quel punto di vista. Poi mano a mano le cose sono cambiate: le persone si sono abituate al sound, ho iniziato a portare il disco live e quindi posso dire che il bilancio finale è ottimo.
Ecco, a proposito di live. Luchè, in Denim Giappo dicevi “Primo napoletano a fare il Forum”. Anche in quell’occasione si vedeva la voglia di salire un gradino in più. Hai fatto uno show serratissimo di quasi tre ore…
Esatto, e mi fa molto piacere che tu l’abbia notato. Prima parlavamo del mio pubblico, aggiungo che le persone che mi ascoltano e mi seguono hanno un’età media per cui stanno poco online ma fortunatamente vengono tanto ai concerti. Il concerto al Forum per me è stato bellissimo, un grandissimo successo personale. A volte i ragazzini più giovani si stupiscono che io faccia dei grandi numeri ai live perché faticano a percepirmi come un artista grosso, e questa cosa mi fa un po’ strano.
Perché secondo te non hanno questa percezione?
Perché gli manca l’esperienza. Non sanno che molte delle cose che ascoltano oggi sono state ispirate da Napoli e da quello che abbiamo fatto. Pensano che i trend nascano tutti a Milano, invece Napoli è sempre stata un grande punto di riferimento per tutta la scena italiana.
Luchè e la sua eredità
Luchè, qual è la legacy più importante che senti di aver lasciato alle nuove generazioni di rapper?
Al momento sicuramente il periodo dei Co’Sang. Quella è stata la cosa che secondo me ha dato l’imprinting a chiunque volesse far rap di strada, molti brani sono rilevanti ancora oggi. Era uno stile ben preciso, senza sfumature. Gangsta rap puro, hard, vero, ma pur sempre con una vena poetica. Quello che sono diventato dopo è molto diverso, perché ho tirato fuori altri lati della mia personalità. Forse l’eredità maggiore che sto lasciando ora riguarda il modo di intendere i pezzi d’amore. Dopo i Sottotono, sono stato il primo ad investire davvero su brani che parlavano di donne e di relazioni. Tutti mi chiedevano «Luchè, ma perché scrivi pezzi d’amore?».
Lo dicevi anche in Potere / Il Sorpasso.
Sì, in quel caso mi riferivo a un fatto in particolare successo nel 2012, quando feci il mio primo disco. Senza fare nomi, però qualcuno mi fece quella domanda perché effettivamente fu uno shock per chi era abituato ai testi dei Co’Sang. Io però mi ero messo in testa di voler raggiungere anche un pubblico diverso, ad esempio quello femminile, che era sempre stato un po’ escluso dal rap. Io volevo fortemente parlare alle donne perché nella mia vita hanno un ruolo molto importante. E comunque anche le canzoni d’amore vanno scritte in un certo modo, non è un compitino e se la prendi così la differenza si sente. È come ostentare la street credibility. Si capisce quando parli di cose che non hai mai vissuto. Poi non possiamo fare sempre i ragazzacci di strada, scrivere d’amore è la cosa più cool che ci sia!
Per altro spesso e volentieri anche le produzioni dei tuoi brani migliori sono curate da te in prima persona o comunque da un team molto ristretto di tuoi producer storici. Fai fatica a delegare il lavoro sulla tua musica, o sbaglio?
È vero. Non mi va di fare un disco che sia una compilation di trend americani e italiani messi insieme. Mi piace avere un mio suono identitario che si noti soprattutto nelle sfumature. A parte le volte in cui mi affido ai producer con cui lavoro da tanto tempo e di cui ho piena fiducia, spesso e volentieri l’idea parte da me. I sample me li trovo io, le drums le faccio io. Io poi nasco come producer, l’80 percento dei beat dei Co’Sang erano miei.
Senti Luchè, siamo partiti da un bilancio dell’anno passato. Se invece ti chiedessi quello del presente?
Sono in un periodo assolutamente positivo. Sono up, quest’anno è stato bellissimo e mi ha fatto ricordare di quanto è bello condividere la musica con chi ti ascolta. Infatti non vedo l’ora di fare uscire questi nuovi pezzi, mi sto vivendo la chiusura in modo molto entusiasta e sereno. Questi tre brani hanno quella caratteristica che era stata un po’ messa in secondo piano in Dove volano le aquile perché vengo da un periodo molto più grintoso e da un tour che mi ha dato un’energia enorme. Mi sento proprio forte in questo momento.
I brani di “Dove volano le aquile vol. 2”
Tra i tre brani che completano il ciclo di Dove volano le aquile c’è Non siamo uguali, una canzone che tu e CoCo avevate pubblicato su SoundCloud già nel 2020. Come mai hai deciso di inserirla solo ora nel disco?
Io e CoCo avevamo scritto quel brano durante il Covid per rimanere attivi e dare qualcosa ai fan. Non c’era ancora su Spotify perché era una sorta di bootleg fatto su una strumentale americana, ma visto che era andato particolarmente bene abbiamo deciso di lavorarlo, di fare un’altra produzione e di inserirlo. Secondo me il pezzo era valido ed era piaciuto molto, aveva avuto veramente un sacco di ascolti su SoundCloud e su YouTube, dove la gente l’aveva caricato.
Rispetta il re è invece una traccia con cui ricordi e ribadisci il tuo status nel rap game ma allo stesso tempo sembra che tu abbia voluto toglierti qualche sassolino dalla scarpa. È così?
Rispetta il re è un pezzo rap con sonorità classiche però lussuose, che rappresenta un po’ il mio lifestyle: anche se mantengo sempre la mia attitudine street voglio che la mia musica sia sempre attuale rispetto alla mia vita e non rispetto ai trend che vanno. Quindi quel beat là è un po’ la colonna sonora di quella che è la mia vita oggi. Qualche sassolino dalle scarpe me lo levo sempre, ma è una cosa che fanno un po’ tutti i rapper, la competizione con gli altri c’è sempre. Io essendo forse l’unico che si espone veramente in Italia quando pensa qualcosa, senza paraculaggine alcuna, ho ovviamente più nemici e più scontri, ma di conseguenza più rime. Io parlo della mia vita, non do addosso alle persone gratuitamente. Se le persone mi fanno del male, io indirizzo il loro male nelle mie rime.
Nell’outro del pezzo per altro sganci una bomba inaspettata: “Strofe dell’anno, il disco dell’anno sta arrivando”. Arriverà nuova musica di Luchè entro la fine del 2023?
Sto lavorando ad un nuovo disco, sì, e sono già a buon punto! Abbiamo anche già annunciato quello con Geolier, che uscirà sicuramente prima. Per il mio progetto non so dire una data perché è ancora tutto work in progress, diciamo che se non è la fine di quest’anno, all’inizio del prossimo vorrei già uscire con un album nuovo.
“Se sei amico di tutti sei nemico di te stesso” mi sembra esprima perfettamente il tuo non essere mai sceso a compromessi per mantenere la tua integrità artistica e personale. Sei uno dei pochissimi a non averlo mai fatto.
Assolutamente, e per me è molto importante che al pubblico arrivi questa mia caratteristica e questa mia voglia di essere vero fino alla fine. A volte le persone che scrivono cattiverie su di me sono persone che non mi conoscono davvero, e magari conoscono solo il 10% di quello che sono e di quello che faccio. Chi mi conosce davvero sa bene che non ho mai giocato a questo gioco bruciando tappe o cercando la via facile per arrivare al successo, per poi magari con paraculaggine tornare indietro e rifarlo di nuovo.
Io sono sempre stato me stesso e ho sempre cercato di sviluppare la mia carriera artistica in maniera integra e organica, mettendo al primo posto la musica e la mia evoluzione creativa. Sono una persona evoluta ma con la stessa mentalità e attitudine, a me interessa veramente tanto andare avanti e aggiungere sempre qualcosa di nuovo, qualcosa di forte, qualcosa di interessante. E poi le amicizie finte e la paraculaggine non fanno parte del mio mondo.
Parlando invece di un altro tuo grande amore, il Napoli, volevo sapere come ci si sente da napoletano dopo un trionfo del genere.
Io sto ancora metabolizzando la cosa! Stavamo girando alcune scene di un video a casa, mentre guardavamo la partita c’erano un po’ di persone ed ero preso da tante cose. È stata un’emozione incredibile, mi sono svegliato il giorno dopo con ancora tutta l’adrenalina, sto ancora realizzando che questa squadra ce l’ha fatta finalmente. Sono molto felice per i giocatori, si è visto proprio l’impegno e questa è una cosa che cambierà non solo la loro carriera, ma anche qualcosa nella nostra storia e nella nostra città. È veramente molto importante perché non si tratta solo di aver vinto uno scudetto, ma di un messaggio che si manda ai ragazzi giovani riguardo l’impegno, la lotta, il crederci fino alla fine, il sapersi rialzare dopo una sconfitta.
C’è tanta storia, ci sono tanti insegnamenti dietro questa vittoria. Il calcio, soprattutto per noi napoletani che veniamo da quella che forse è la città più difficile d’Italia, è sicuramente molto di più. È una vittoria che ci fa stare bene, è una cosa assurda. Se lo meritava la gente, se lo meritavano i calciatori, la squadra, la società, e finalmente vedo un po’ di positività per la mia città.
A proposito di vittorie, una delle migliori tracce di Dove volano le aquile è Si vince alla fine: ad oggi, Luchè, qual è la tua vittoria più grande?
Mamma mia! Io sono uno che i traguardi non li festeggia nemmeno. Forse dall’esterno si percepisce un’immagine diversa, ma sono anche una persona che fa del grande auto-sabotaggio. Non ci ho mai pensato a questa cosa… Il significato di Si vince alla fine è che noi siamo ancora nel viaggio, non siamo ancora arrivati alla destinazione. Forse la mia vittoria più grande ad oggi è essere qua ed essere ancora circondato da una grande curiosità ogni volta che faccio uscire un progetto. E ci sono riuscito venendo da una città che non aveva i riflettori puntati come oggi e rischiando sempre tanto. La giocata facile non mi è mai piaciuta. Io voglio sempre spiazzare gli altri.
Di sicuro nel prossimo disco avrò un approccio ancora diverso, ma la scommessa con me stesso è sempre essere più potente e intenso di prima. Mi piacerebbe però anche dare un messaggio di serenità a chi ha paura di fallire: c’è sempre una possibilità di rinascita. Il bello del pubblico italiano è che ti dà sempre una seconda chance, e quando entri nel cuore delle persone puoi star certo di avere vita lunga.