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Jazz, Parigi, live music: il mix perfetto della serie Netflix “The Eddy”

Con una trama tutta incentrata sul legame fra la capitale francese e il jazz, in The Eddy tutti i brani sono stati realmente registrati dal vivo sul set. Ci racconta tutto Glen Ballard, che ha ideato il progetto e scritto i brani originali

Autore Federico Durante
  • Il5 Luglio 2020
Jazz, Parigi, live music: il mix perfetto della serie Netflix “The Eddy”

Da maggio è disponibile su Netflix The Eddy, mini-serie di otto episodi in cui l’ex star americana del jazz Elliot Udo (André Holland) si reinventa una vita a Parigi gestendo un locale di musica dal vivo (The Eddy, appunto) e cercando di assicurare un contratto discografico alla band da lui messa in piedi. Fra imprevisti, drammi e difficoltà personali, la trama narrativa è tutta incentrata sul forte legame fra la capitale francese e la musica jazz, alla quale è dato ampio spazio con un approccio molto particolare: i musicisti sono davvero tali e tutti i brani sono stati realmente registrati dal vivo sul set.

Mente del progetto (oltre che autore di tutti i brani originali) è Glen Ballard, produttore e songwriter celebre – fra gli altri lavori – per aver firmato un album iconico degli anni ’90: Jagged Little Pill di Alanis Morissette (sul numero di luglio-agosto del magazine troverete la parte di intervista dedicata a quella pietra miliare del pop rock che ha appena compiuto 25 anni). Lo abbiamo virtualmente raggiunto a casa sua a Hollywood, da dove ci ha raccontato il lavoro svolto per The Eddy con il visibile orgoglio di chi ha realizzato un piccolo sogno.

Raccontami le origini di un progetto così affascinante: so che l’ideazione risale a diversi anni fa e che tu ne sei anche il produttore esecutivo, oltre che il songwriter.

È stato un progetto guidato dal songwriting, una cosa abbastanza inusuale. Volevo scrivere una serie di brani jazz, con una band da me diretta che li eseguisse, con un live club a Parigi. Per cui ho solo fatto in modo che tutto ciò accadesse. Cominciò tutto più di dieci anni fa. È difficile presentare al pubblico – specialmente quello giovane – nuova musica jazz senza fornire un qualche contesto. Negli anni ho vissuto per diversi periodi a Parigi, sempre frequentando i jazz club della città, quindi pensai che la cosa migliore fosse fare tutto lì. Il jazz trova sempre spazio a Parigi.

Scrissi una sessantina di pezzi con questa idea in mente. Mi ci vollero cinque anni per trovare i giusti partner per il progetto, a partire da Alan Poul (regista e produttore esecutivo, ndr). Nel 2013 gli presentai i brani e gli spiegai il concept. Gli piacque. Poi si unirono Damien Chazelle (regista, ndr), Jack Thorne (sceneggiatore e produttore esecutivo, ndr). Ma è partito tutto dalla musica.

Era la prima volta che ti cimentavi con un songwriting di tipo jazz? È un processo più complesso della scrittura di brani pop o i principi fondamentali sono gli stessi?

Richiede un certo livello di conoscenza musicale. Ma l’unica grande sfida è stata trovare il giusto approccio. Io sono cresciuto non lontano da New Orleans: da sempre sono a contatto col jazz. Per me la musica era quello, e comunque i primi brani che feci come songwriter furono per George Benson, grande jazzista, con produzione di Quincy Jones. Così iniziai la mia carriera con questa sorta di crossover fra jazz e pop.

Negli ultimi quarant’anni avrei voluto continuare col jazz ma sono stato “distratto” da altri tipi di musica. Il vocabolario musicale è certamente diverso, e anche a livello di testi raggiungi una ricchezza che non è così scontata nella musica prettamente diatonica (ovvero basata sugli intervalli della scala maggiore e minore, ndr). Per cui mi è piaciuto moltissimo. Puoi usare tutte le note e tutte le parole, e questo è il jazz.

Prima descrivevi le atmosfere del jazz a Parigi. Mi racconti com’è la scena dei jazz club di quella città?

Parigi è una città che ha sempre accolto la controcultura, gli outsider, gli spiriti ribelli. Quando il jazz arrivò a Parigi un secolo fa era una forma musicale piuttosto radicale. E i parigini se ne innamorarono subito! Da allora non se ne sono più distaccati. Avevo un appartamento a Parigi negli anni ’90, c’era una dozzina di jazz club dove potevi andare in qualsiasi sera della settimana e trovarci gente intenta ad ascoltare la musica dal vivo.

È quel tipo di intimità che ho cercato di suggerire soprattutto al pubblico più giovane, proprio perché oggi la musica è un po’ meno intima. L’idea di un gruppo di musicisti che suonano insieme in un ambiente intimo davanti a un pubblico ristretto è davvero affascinante e anche molto difficile da trovare al giorno d’oggi! Per me si è trattato di comunicare a chi non ne sa nulla cosa vuol dire andare in un club come quello e stare vicini a grandi musicisti come quelli, sentendo l’energia che sprigiona quel contesto. La musica di cui stiamo parlando non va sui grandi palchi: appartiene alla dimensione del club. Frank Sinatra diceva: “I’m the greatest saloon singer who ever lived”.

Tutte le canzoni sono davvero suonate live sul set, una cosa davvero inusuale. Mi spieghi le ragioni di un approccio così particolare?

Sì, è un approccio davvero particolare. Non penso che nessuno l’abbia fatto – perlomeno in tempi recenti – per cinema o serie TV, perché è molto complicato ottenere un sound fedele. Io e tutti i miei partner eravamo d’accordo sul fatto che la magia di un gruppo jazz sta nella dimensione live, per cui abbiamo cercato di avvicinarci ad essa quanto più possibile. Ho visto così tante serie TV e film in cui la musica è così finta, dove si canta in playback e dove si finge di suonare… Netflix ha supportato l’idea che tutta la musica fosse suonata davvero. D’altra parte non c’è altro modo per catturare quel tipo di energia.

E come hai messo insieme la band? È stato difficile trovare persone che fossero sia buoni musicisti che buoni attori?

Sì, probabilmente la cosa più difficile. C’erano diverse persone che volevano far parte del progetto ma non sapevano suonare. Ma è impossibile far finta di suonare un contrabbasso, per esempio, se non lo conosci davvero. Per cui ciò ha fatto un po’ di “selezione naturale”. Ma è stato difficile anche perché Jack Thorne aveva idee molto specifiche sui personaggi: per esempio voleva che alla batteria ci fosse una ragazza dell’est Europa. E l’abbiamo trovata! Così come poi abbiamo trovato tutti gli altri. Sono davvero fiero dei musicisti, perché nessuno di loro era attore e si sono trovati a recitare parti importanti. I registi e gli altri attori li hanno supportati molto sul set. Da buoni jazzisti hanno improvvisato!

La colonna sonora ufficiale comprende cover dei brani fatte da due grandi artiste contemporanee: Jorja Smith e St. Vincent. Come le hai coinvolte? E come pensi che abbiano reinterpretato le tue canzoni?

Adoro quello che hanno fatto, sono un grande fan di entrambe. Non sono io che le ho coinvolte ma la casa discografica (Arista / Sony Music, ndr) che ha suggerito i loro nomi. Loro due hanno ascoltato il materiale e ne sono state entusiaste. È stato un po’ un regalo per l’intero progetto. Speravamo che questi nuovi brani jazz piacessero agli artisti e da un momento all’altro ci ritrovavamo con queste due grandi che li reinterpretavano. E c’è anche Julia Harriman, che ha fatto parte dell’originale band The Eddy, con cui abbiamo fatto un po’ di concerti a Los Angeles. Sono felice che sia anche lei nella colonna sonora, visto che anche lei ne ha fatto parte.

Ascolta la colonna sonora di The Eddy in streaming

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