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Il primo romanzo di Gino Castaldo è un sincero, fervido ricordo di un’epoca fantastica

“Il ragazzo del secolo, o della rivoluzione perduta” è il primo romanzo del grande critico musicale, che ci racconta le emozioni e i sogni di una generazione

Autore Tommaso Toma
  • Il25 Febbraio 2025
Il primo romanzo di Gino Castaldo è un sincero, fervido ricordo di un’epoca fantastica

Gino Castaldo (foto di Giacomo Maestri)

È uscito il primo romanzo del critico musicale di lungo corso Gino Castaldo: Il ragazzo del secolo, o della rivoluzione perduta (ed. HarperCollins). Attraverso gli occhi un una sorta di suo alias, di nome Mario, Castaldo ci racconta le emozioni e i sogni di una generazione, alimentati dalle incredibili evoluzioni del rock e del pop che dalla seconda metà degli anni ’60 travolgevano tutto il mondo occidentale.

Castaldo è uno dei nostri colleghi tra i più amati e rispettati, non solo dal pubblico ma anche dagli artisti stessi. Uno degli obiettivi che ognuno di noi vorrebbe ottenere, facendo questo mestiere. Non poteva che unire la sua passione, la musica, e lo spaccato di un’epoca, quella di fine ‘900, dove il rock e il pop sono stati assoluti protagonisti della storia occidentale.

Lo fa attraverso Mario, nato a Napoli nel 1950. In piena adolescenza di trova ad essere sopraffatto dalla musica straordinaria che viene prodotta in UK, negli USA ma anche qui in Italia. Segue l’onda creativa che stava montando, come anche quella legata alle proteste giovanili, pronte a una rivoluzione che rimarrà un sogno spezzato ma anche un ricordo indelebile nella coscienza collettiva di una parte di quella generazione di cui Gino ha fatto parte.

Attraverso la storia di Mario, nel romanzo di Gino Castaldo c’è spazio anche ai ricordi bui. Come la piaga dell’eroina e l’improvvisa ondata di violenza degli anni ’70 che oscurano un tempo che non tornerà. E la vicenda privata del protagonista si incrocia con quelle di uomini straordinari, da Andrea Pazienza a Freak Antoni, da Paolo Pietrangeli a Rino Gaetano.

Ecco qui di seguito un estratto del romanzo di Gino Castaldo, in esclusiva per Billboard Italia.

copertina romanzo Gino Castaldo - Il ragazzo del Secolo
La copertina del romanzo di Gino Castaldo

L’estratto dal libro di Gino Castaldo

Un giorno arrivò Gianni tutto eccitato. «Sta succedendo qualcosa qui dietro in via Tagliamento. Non so bene, credo un locale, c’è movimento, lavori…»

A sentire le voci che giravano veloci, capimmo che qualcosa di grosso stava per accadere.

Stava nascendo un luogo destinato a essere leggenda, non solo per il quartiere, come ingenuamente stimammo lì per lì, ma per l’intera nascente società dei consumi. Si trovava proprio di fronte alle case del Coppedè, un enorme garage sotterraneo con una scala che affacciava su via Tagliamento, l’insegna luminosa con la scritta Piper club e nient’altro. All’inizio non ne sapevamo granché, era per i più grandi. Poi il passaparola si fece insistente. Le voci si affollavano, stava diventando un polo di attrazione, qualcosa che a Roma, anzi in Italia, non s’era mai visto. Ogni tanto andavamo a spiare, vidi passare Mario Schifano, Vittorio Gassman, Monica Vitti, ma ci tenevano lontani, noi ragazzini, finché scocciati e impotenti ce ne tornavamo a casa. Tutti tranne Gianni, che non si riusciva a scollare, lui restava, i capelli già abbastanza lunghi per non sfigurare quando arrivava gente alla moda, artisti.

Al Piper si suonava dal vivo, vedevamo le foto sui giornali morendo di desiderio, apparvero le prime locandine con nomi stranieri mai sentiti. Poi, da un giorno all’altro, arrivò la grande occasione: il locale avrebbe aperto anche di pomeriggio, il mercoledì, per i più piccoli. Al primo mercoledì eravamo tutti in fila, un’intera brigata di sedicenni d’assalto, scendemmo le scale, ricordo la prima figura che incontrai, un buttafuori grosso e burbero, un Mangiafuoco; alla cassa ci accolse un tale più simpatico, un Lucignolo che parlava ai ragazzi, imboniva, si prendeva le monetine e staccava biglietti promettendo il paradiso. Ma la scala, invece di portare in alto, scendeva nelle viscere luminose del proibito. Ero eccitato, curioso, disposto a tutto, i sensi mobilitati al massimo.

Mi sembrò grande, modernissimo, con un lunghissimo bancone da bar che a quell’ora serviva solo aranciate e succhi di frutta, pedane ovunque, un palco arredato con arte contemporanea, di fatto un’installazione di pop art, un sentore di beat cosmopolita e di peccato, c’erano le nostre amiche e compagne di scuola che scendevano con una borsa piena di vestiti, caste come scolarette, andavano in bagno e ne uscivano truccate e con la minigonna, abilitate al peccato, e poi tutti sotto il palco, dove si suonava, gruppi beat che pestavano come matti e pompavano la nostra infantile adrenalina.

Uno di quei pomeriggi arrivò Patty col suo Ragazzo triste a illuminare le nostre fantasie di adolescenti. Lei di poco più grande, conturbante, una guerriera, indipendente, non aveva niente a che spartire con le donne del mondo che ci aveva appena preceduto. Soprattutto passavano gruppi. C’erano inglesi capitati a Roma così, tanto per vedere com’era, e poi a Roma, o in Italia, ci sono rimasti tutta la vita, i Senate, i Cyan Three, i Rokes, Prendi la chitarra e vai cantavano, canzoni ingenue, Che colpa abbiamo noi, poca roba in confronto alla potenza del rock che arrivava da fuori, ma almeno si cominciavano a balbettare le prime parole italiane di protesta, e noi dietro.

Un giorno Mario arrivò tutto fiero col 45 giri dei Nomadi che cantavano: come potete giudicarci per i nostri capelli, perché bastava essere capelloni per staccarsi e sentirsi parte del nuovo mondo, con quella bella voce di Augusto che pochi mesi dopo avrebbe osato cantare Dio è morto, parole e musica di Francesco Guccini.

Prendevamo coraggio. I capelli si allungavano, ed erano giù botte, i genitori su quello non perdonavano, i vestiti cercavamo di copiarli da quelli delle band, pantaloni larghi, gilet, magliette colorate, tutta roba che poi doveva passare al vaglio delle forche caudine casalinghe. Si osava sempre di più perché lo facevano tutti, e questo ti faceva sentire più forte.

Il 1967 fu l’anno in cui Mick Jagger entrò nelle nostre vite come un demonio. Era bello, tutti gli Stones lo erano, in quel loro modo deviato e traviato, i capelli lunghi erano un segno magnifico e pittorico di libertà.

Quella mattina, il 6 aprile, a scuola non si parlava d’altro. Avevo trovato, non so come, il biglietto per lo spettacolo pomeridiano, in accordo con la singolare usanza dell’epoca che prevedeva due spettacoli giornalieri, uno al pomeriggio e replica la sera. All’uscita raggiunsi Massimo e Mario, andammo a prendere l’autobus per l’Eur, il quartiere lontano da tutto, con largo anticipo. Fermata dopo fermata, vedemmo salire altri ragazzi e ragazze che andavano nella stessa direzione, l’autobus si riempì di un’eccitazione radiosa. Scendemmo vocianti e casinari, un tratto a piedi fino ai tornelli di controllo e finalmente si aprirono le porte del Palasport.

Era la prima volta che mi trovavo in uno spazio così grande con tanta gente a sentire musica. Era un rito d’iniziazione, come se un fratello poco più grande e smaliziato mi mostrasse il più perverso parco giochi immaginabile. “È qui, ragazzo” sembrava dire, “basta che entri anche tu. Please, have fun.”

Quando i Rolling Stones apparvero fu un pugno nello stomaco, una tempesta elettrica racchiusa in un istante, durò appena mezz’ora. Jagger era un fauno impertinente. Sapeva di avere ragione, sapeva che la Storia era dalla sua parte, e noi con lui, una presunzione inaccettabile per le istituzioni di allora, ma non per questo meno autentica.

Quella fu anche la prima volta che mi accorsi di Michela, la riconobbi lì, nel parterre, guardava gli Stones estasiata, l’avevo già incontrata davanti al Giulio Cesare, ma solo ora la vedevo davvero: era una ragazzina eppure mi sembrò che davanti ai miei occhi si stesse velocemente trasformando, provai quasi una fitta di gelosia per quel potere devastante di attrazione che aveva la band, che turbava anche me, quell’essere maschi e allo stesso tempo femminei, soprattutto Jagger, il grande tentatore, con quella faccia che diceva: “Uomo, donna, che importanza ha?”, e si portava a casa il desiderio di entrambi i sessi.

Una mattina, all’uscita di scuola, trovai il coraggio di fermarla. Lei mi guardò, perplessa. «Ti ho vista, l’altro giorno, eri al concerto degli Stones.» Sorrise. Avevamo qualcosa in comune, qualcosa che in mezz’ora ci aveva cambiato la vita.

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