Culture

Guido Harari, 50 anni di grande fotografia: «Nel ’77 ero sul palco di Santana quando lo incendiarono…»

Fra artisti e personaggi celebri, i suoi ritratti hanno raccontato i grandi del nostro tempo. Pioniere della fotografia musicale in Italia, Harari celebra ora mezzo secolo di carriera con un libro e una mostra

Autore Federico Durante
  • Il29 Luglio 2022
Guido Harari, 50 anni di grande fotografia: «Nel ’77 ero sul palco di Santana quando lo incendiarono…»

Lucio Dalla in Piazza Maggiore a Bologna, 1996. Fu di Lucio l'idea di pestare i piedi per terra per far alzare in volo i piccioni e lasciar così cogliere un'immagine dinamica (© Guido Harari)

Con un tono ora serio ora giocoso (ma mai retoricamente celebrativo), l’obiettivo e lo sguardo di Guido Harari hanno raccontato per immagini cantanti, attori, scrittori, filosofi, scienziati, imprenditori: in poche parole, i grandi personaggi che hanno segnato il nostro tempo.

Il cuore della sua produzione, nonché lo stimolo iniziale della sua carriera, rimangono i ritratti di artisti musicali: da Lou Reed a Vasco Rossi, da Luciano Pavarotti a Kate Bush. Mestiere – quello della fotografia musicale – che senza dubbio Harari ha contribuito a sviluppare nel nostro paese.


In occasione dei cinquant’anni di carriera è in esposizione alla Mole Vanvitelliana di Ancona fino al 9 ottobre la mostra Guido Harari. Remain in Light (le fa compendio il libro omonimo edito da Rizzoli): oltre 300 fotografie, installazioni, filmati originali e proiezioni che raccontano tutte le fasi della sua produzione, dagli esordi negli anni ’70 alle ultime sperimentazioni. Perché, nonostante il mezzo secolo trascorso, Harari non ha certo perso la curiosità e la voglia di espandere i propri orizzonti.

Ecco un estratto dell’intervista che trovate integralmente sul numero di luglio/agosto di Billboard Italia.


Luciano Pavarotti
Luciano Pavarotti (Pesaro, 1998) colto durante un poderoso sbadiglio. Foto inedita per anni (© Guido Harari)
Cosa ti spinse a intraprendere il mestiere di fotografo musicale? E com’era questa professione in Italia negli anni ’70, visto che sostanzialmente nasceva allora?

Sì, era tutto da inventare. La passione iniziale era quella per la musica. Poi ero molto incuriosito dalla fotografia, che da ragazzino consumavo sulle copertine dei dischi e sui giornali. C’era la voglia di combinare due passioni per poter incontrare gli artisti che amavo, per andare al di là del consumo da fan. Molti di loro hanno capito che non ero solamente un professionista ma un uomo con una missione, cioè avere un accesso privilegiato per scovare qualcosa di inedito, insolito, rivelatorio, da condividere poi con gli altri.

Quello era un periodo piuttosto turbolento per l’Italia, anche per quanto riguardava i concerti. Hai qualche ricordo di situazioni estreme di allora?

Sì, è un periodo che ho vissuto in pieno. Mi ritrovai al concerto di Lou Reed nel ’75 (al Palalido di Milano, ndr), che fu interrotto dopo una canzone e mezza da una raffica di bulloni e getti d’acqua. Nel ’77 ero al Vigorelli con Santana quando gli incendiarono il palco (con una molotov, ndr). Io stavo proprio lì, dietro gli amplificatori… Erano anni di grande strumentalizzazione. La stessa tournée di De André con la PFM fu strumentalizzata da gruppi sedicenti politici che avevano trovato una vetrina ideale per avere visibilità.

In quel periodo c’erano anche ben altre tensioni, ovviamente la musica ne risentì come tutti gli altri ambiti. I gruppi internazionali non riuscivano a capire perché succedesse questo, anche se avevano sperimentato altri tipi di tensione (incidenti nelle università, studenti ammazzati dalla polizia…). Negli anni ’80 si superò questa turbolenza e tutto si normalizzò.

Gaber, Jannacci, Fo
Da sinistra a destra, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci e Dario Fo (Milano, 1996). Una gigantografia di questa foto ha campeggiato a lungo nell’atrio della Stazione Centrale di Milano (© Guido Harari)
Quali sono i concerti che secondo te hanno fatto la storia della musica dal vivo nel nostro paese?

Credo di averli visti tutti, o quasi. Anche perché all’epoca non c’erano tutti i concerti che ci sono adesso! C’erano i concerti “rito” – Bob Marley nell’80, Springsteen nell’85 – che non erano rivolti solo ai fan dell’artista ma a tutti gli appassionati di musica in generale.


Poi cominciarono ad arrivare anche concerti di artisti di nicchia molto interessanti. C’era un’attenzione per tutta la musica, non solo quella di consumo: in quegli anni siamo stati esposti a musiche molto diverse. Poi aggiungerei il tour di Dylan dell’84, Banana Republic di Dalla e De Gregori, concerti di gruppi come Area e PFM… Ricordo concerti degli Weather Report e di Frank Zappa fantastici.

Hai ritratto molte volte Lou Reed, che infatti compare sulla copertina del libro e sulla locandina della mostra. Che rapporto avevi con un artista così notoriamente difficile di carattere?

Nacque tutto nel ’75 con quel concerto martoriato dalle contestazioni. Quando ci rivedevamo negli anni successivi mi guardava e diceva: “Italy, the riots…”. Questo ci accomunò. Nel 1983 la RCA mi fece realizzare la copertina di un suo disco live all’Arena di Verona: passammo tre giorni insieme, ci conoscemmo un po’ meglio. Quello che ci univa era sicuramente il fatto che non lo vedevo come la leggenda vivente: a me interessava l’uomo che conoscevo.

Quando si unì a Laurie Anderson, artista che apprezzavo molto, si ammorbidì un po’. Soprattutto capì che doveva essere un artista libero, che non doveva sottostare ai rituali della discografia, della promozione, dei concerti, ma che poteva fare quello che voleva, o anche non fare niente. Comunque parlavamo molto di fotografia. Era molto appassionato di dettagli tecnici, aggiornamenti… un nerd, sotto questo punto di vista.

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