Motta a Milano: il palco del Base si fa platea
Il cantautore toscano ha portato a Milano uno show intimo e raccolto, suonando in mezzo al pubblico con gli amici di una vita
Alla fine, Motta ha stravolto di nuovo tutto. Questo era il leitmotiv del suo ultimo album Suona! Vol.1, in cui, al grido di ‘Suona, Francesco ha riscoperto dei brani del suo repertorio. E li ha riproposti a una line-up d’eccezione per suonarli dal vivo in un minitour di 6 date, data 0 compresa, tra l’OGR di Torino, il Teatro Ariosto di Reggio Emilia, l’Hacienda di Roma e il Base di Milano. Piccole venues, per abbattere il muro tra spettatore e artista e per coinvolgere direttamente il pubblico che riceve lo stesso feedback dei musicisti, cosa rara, e viene pervaso nel muro di suono di un palco che è al centro. Una scelta simile è stata fatta da Francesco de Gregori che, con la sua residency di venti date al teatro Out-Off di Milano, ha dialogato con i duecento in platea di ogni serata come se fossero amici di vecchia data.
Se in quel caso il cantautore romano aveva proposto dei ‘Nevergreen’, ovvero dei pezzi sconosciuti del suo repertorio, Motta a Milano ricalca i suoi cavalli di battaglia in una nuova veste. In scaletta La fine dei vent’anni, che dà il nome all’album che consacrò Motta al grande pubblico con cui ha vinto la targa Tenco del 2016 nella categoria ‘Opera Prima’. Ma anche Quello che siamo diventati dall’album Vivere o Morire del 2019. L’apice della follia mottiana è raggiunto con la jam senza fine di Roma Stasera. Si ha l’impressione che Roma Stasera non sia un semplice titolo. Ogni sera per Motta Roma assume dei connotati diversi, quelli varati dal suo gusto che è in continua evoluzione.
Per l’artista la canzone è uno strumento per esprimere il qui ed ora. Da questo senso di continuo smarrimento deriva l’esigenza, mista a ossessione, di continuare a rivisitare i propri brani. Rivisitare perché l’operazione di Motta e della sua band è quella di una tac con liquido di contrasto. Una vera e propria vivisezione. La sua canzone è una creatura viva che è alla continua ricerca di se stessa. Nella dimensione live di questo album, l’opera prende vita nel corpo degli ascoltatori.
Il muro di suono di Motta al Base di Milano
Durante il bis di Motta al Base di Milano, la prima era stata il 27 Novembre, per un attimo c’è il rischio di perdere l’equilibrio. Il muro di suono porta lo spettatore in uno stato di trance. Il live è immersivo. Si ricrea la dimensione dello studio con quell’intimità difficile da riportare su un grande palco. Quindi qualche tappeto persiano a terra, strumenti messi a cerchio, ampli e pedali in vista. Il progetto è semplice: non c’è nessun frontman. È un continuo scambio tra la chitarra eclettica di Giorgio Maria Condemi, con virtuosismi che ricordano il portoricano Omar Rodriguez, la batteria di Cesare Petulicchio, solido e melodico, il basso di Roberta Sammarelli, che fa pensare per pulizia ed essenzialità quello di Tim Commerford, e Motta al piano, voce, synth e chitarra acustica.
Quando gli ho chiesto, nella nostra intervista di ottobre, se avesse mai suonato più strumenti contemporaneamente sul palco, la risposta era stata: “Boh è probabile.” Il fatto è che probabilmente non se ne rende neanche conto, Motta, di quante cose fa sul palco. Di una cosa però è certo, come ci ha detto a fine concerto. «Stasera mi so divertito un casino». Ama quello che fa, ciò è sintomo della libertà creativa che ha acquisito negli anni. «Non credete a chi dà la colpa alle discografiche se non fa ciò che si sente di fare. Ognuno è libero di fare ciò che vuole. E io sono stato accompagnato in questi anni da persone che mi hanno insegnato ad essere libero».
Un bel messaggio mandato a chi si ritrova spesso a puntare il dito contro le major se l’artista non rende come previsto. Motta sta giocando un altro tipo di campionato dato che ha anche da poco aperto la sua etichetta indipendente Suona. Lui stesso avvisa: «Se parlo troppo, gridatemi semplicemente ‘suona’ e ricomincio subito a suonare». Il clima è disteso e scherzoso ed è ciò che voleva creare Francesco con questo tipo di set-up. Non c’è palco, non c’è platea, non ci sono artisti e spettatori. L’unione di queste componenti non risulta artificiosa. Era un rischio, ma alla fine ha funzionato.
Il suo è un invito a cena in uno di quei ristoranti fighi, sia per la qualità delle materie prime utilizzate che per il modo in cui lo chef ha deciso di assemblarle, che alla fine non ti fanno pagare un salasso. Perché in fin dei conti ci si deve divertire tutti e ne deve valere la pena. C’erano tutti i presupposti perché finisse in caciara e così è andata. Ma la caciara di una festa in cui sono tutti emotivamente coinvolti.