Le nomination dei Grammy nell’epoca post-giuria: chi ne ha tratto vantaggio?
Per la prima volta in 27 anni non è stato un review committee ad avere l’ultima parola sui nominati nelle categorie principali. Una scelta che inevitabilmente altera le dinamiche della kermesse
Tony Bennett, Lady Gaga e gli ABBA avrebbero da ringraziare la Recording Academy per lo scioglimento delle giurie deputate alle nomination. Mentre Wikzid potrebbe vederla diversamente. Quest’anno, per la prima volta in 27 anni, le nomination finali delle categorie “big four” dei Grammy (Album of the Year, Song of the year, Record of the year, Best new artist) sono state determinate dai voti degli 11mila membri della Academy senza essere poi vagliate da un review committee.
Favoriti e sfavoriti ai Grammy 2022
Per la maggior parte, le nomination sono ciò che ci si può aspettare. Drivers license di Olivia Rodrigo, Leave the Door Open dei Silk Sonic e Montero (Call Me by Your Name) di Lil Nas X sono ben presenti. Si tratta di ottimi brani che hanno suscitato plausi unanimi – di fan, critica, radio, industria. Sarebbero arrivati alle fasi finali con o senza giuria.
La nomination di I Still Have Faith in You degli ABBA come Record of the year, invece, è una sorpresa. Innanzitutto, il Gruppo non era mai stato nominato ai Grammy – anche se Benny Andersson e Bjorn Ulvaeus erano stati nominati individualmente per il loro lavoro per la colonna sonora di Mamma Mia (Andersson) e per l’album del musical Chess (entrambi). Probabilmente la giuria avrebbe dato la preferenza a qualcos’altro.
Ma cos’altro? Magari Essence di Wizkid feat. Tems, brano introspettivo che corre come favorito nella nuova categoria Best global music performance. Il singolo ha raggiunto la nona posizione della Billboard Hot 100 due settimane prima della chiusura del primo turno di votazioni il 5 novembre, una tempistica ideale. Non lo sapremo mai per certo, ma Essence probabilmente era nella top 20 dei voti dei membri della Academy. Se ci fosse ancora il committee, l’avrebbe spinto forse nella top 10.
Anche la nomination come Album of the yar per Love for Sale di Lady Gaga e Tony Bennett (e come Record of the year per la loro versione di I Get a Kick Out of You di Cole Porter) probabilmente non ci sarebbe stata se ci fosse ancora il committee. Bennett non veniva nominato in una delle “big four” dal 1994, quando il suo MTV Unplugged vinse come Album of the year. Quella vittoria (e la nomination in quella categoria lo stesso anno per The Three Tenors in Concert 1994) diede a molti l’idea che i Grammy non fossero al passo coi tempi.
I timori della Academy
Non si trattava di una critica a Bennett o ai tre tenori (José Carreras, Plácido Domingo e Luciano Pavarotti, con direttore d’orchestra Zubin Mehta). Era una riflessione sul fatto che benché l’hip hop e la musica alternativa fossero i generi più vivaci all’epoca, non erano rappresentati in quella categoria (le altre tre nomination per Album of the year erano Eric Clapton e Bonnie Raitt, entrambi i quali avevano già vinto precedentemente, e Seal). La polemica spinse Mike Greene, presidente e CEO della Academy all’epoca, a costituire una giuria di revisione delle nomination l’anno seguente.
Bennett ha poi vinto dodici Grammy dal suo Album of the year nel 1994, ma mai più in una delle “big four”. Il primo album collaborativo di Tony Bennett e Lady Gaga, Cheek to Cheek del 2014, non fu nominato come Album of the year, e non lo furono neanche i suoi fortunati album di duetti (Duets: An American Classic del 2006 e Duets 2 del 2011). È come se il committee temesse che lui avrebbe vinto di nuovo se nominato in una categoria “big four”, cosa che avrebbe causato una nuova ondata di polemiche sullo scarso spirito di innovazione dei Grammy.
Una vecchia abitudine dei Grammy
Preferire i grandi artisti del passato alle star contemporanee è un’abitudine di vecchia data dei Grammy. I big indiscussi sono difficili da battere. Hanno decenni di rapporti con amici, collaboratori e ammiratori nella Academy.
Ai Grammy del 1990, Quincy Jones vinse l’Album of the year con Back on the Block, furbescamente pubblicizzato come il suo viaggio “dal be-bop all’hip hop”. Batté l’album d’esordio di Mariah Carey e Please Hammer Don’t Hurt ‘Em di M.C. Hammer, il primo album hip hop mai nominato in quella categoria.
L’anno seguente, Unforgettable with Love di Natalie Cole, un sentito tributo al padre Nat “King” Cole, vinse come Album of the year. La loro soffice versione di Unforgettable (che fu già una hit nel 1951 per il vecchio Cole), si prese il Record of the year, battendo la classica Losing My Religion dei R.E.M. e la hit di Bryan Adams (Everything I Do) I Do It for You.
Nessuno mette in dubbio la levatura artistica di Jones o dei Cole. Ma a volte sembrava che ogni volta che i votanti potevano omaggiare un grande del passato, lo facevano. È sempre successo così nella storia dei Grammy.
Nel 1965 e nel 1966, Frank Sinatra batté i Beatles come Album of the year. Nel ’66, A Man and His Music di Sinatra (un doppio album di rivisitazioni di brani della sua carriera) ebbe la meglio su Revolver, uno dei dischi più celebrati dei Beatles.
Il crooner e la band – due dei nomi più grandi nella storia della musica registrata – furono di nuovo in competizione nel 1967, per il terzo anno consecutivo. Quella volta i Beatles finalmente vinsero con Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, che batté la collaborazione di Sinatra con il gigante della bossa nova Antonio Carlos Jobim. È lecito supporre che se i Beatles non avessero vinto con Sgt. Pepper’s, uno degli album più influenti di tutti i tempi, la credibilità della Recording Academy ne avrebbe risentito fortemente.
Il rinnovamento della Academy
Anche dopo l’istituzione del review committee, se c’era un big del passato in una delle categorie principali, i votanti spesso lo favorivano. Ray Charles vinse post mortem come Album of the year con Genius Loves Company, battendo “caldi” artisti contemporanei come Black Stars, Usher, Kanye West, Alicia Keys e Green Day. Tre anni dopo, River: The Joni Letters di Herbie Hancock vinse come Album of the year, battendo – fra gli altri – gli album di Kanye West (di nuovo) e Amy Winehouse.
I votanti della Academy oggi sono diversi dal 1994, dal 2004 o dal 2007, sia per ricambio generazionale che per lo sforzo dell’associazione di espandere e diversificare la sua membership.
Harvey Mason jr., CEO della Academy, ne ha parlato in un’intervista a Billboard questa settimana. Quando gli si chiedeva se fosse stato nervoso sugli esiti delle votazioni, ha risposto: «No, penso che abbiamo fatto molto lavoro importante sulla nostra membership. Abbiamo integrato varie community che prima erano forse sottorappresentate fra i votanti. Per cui penso che fosse il momento giusto per lasciar decidere loro direttamente le nomination».
Sulla questione di Wizkid non nominato come Record of the year, Mason ha detto: «È un ottimo pezzo. Lui è un artista di grande talento. Non sono in grado di dire perché non ce l’abbia fatta, ma amo davvero il brano».
Mason si è dichiarato complessivamente soddisfatto delle nomination. Pur esprimendo qualche dubbio (come i nominati nelle categorie rock: più artisti “veterani” a discapito delle nuove star), si sente più tranquillo che nel 2020, quando ebbe il compito poco invidiabile di commentare nomination che non includevano neanche un riferimento a The Weeknd.