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Vent’anni di applausi: il racconto di Club To Club

Dalla perfezione di Kode9 all’eleganza di Arca, il festival torinese ha finalmente spento 20 candeline avant-pop

Autore Claudio Biazzetti
  • Il7 Novembre 2022
Vent’anni di applausi: il racconto di Club To Club

Jamie xx (foto di Loris Brunello)

Se quella dei decreti ministeriali fatti a caso è ormai la prassi, perché non approvarne uno che possa aiutare la classificazione dei DJ set? La scala andrebbe da 1 a Kode9, e potrebbe esprimersi direttamente in gradi, come quella Mercalli per i terremoti. Il sistema tornerebbe utile per tirare (almeno in parte) le somme di questa tanto anelata ventesima edizione di Club To Club, che, spoiler, è stata un successo.

In cima alla scala kode9iana avremmo lui, il DJ più completo sulla faccia della terra, imprevedibile nei break, impeccabile nella selezione, mostruoso nella tecnica. In fondo alla scala, invece, per esempio troveremmo una cosa che onestamente non ho capito, come My Analog Journal. Suonava sabato all’interno del Bar Mediterraneo curato dai Nu Genea allo Stone Island Stage. Prima Conga di Gloria Estefan, poi Freed From Desire di Gala, poi ho fatto che cambiare sala: forse andava data meno libertà ai Nu Genea?

Poco male, perché tutto il resto (e il bello) stava nel mezzo. Sette gradi della scala a Jamie xx. Alla fine il tipo è un preso bene e i suoi set, per quanto tutti molto simili e standardizzati, alla fine te li balli col sistema nervoso centrale in uno stato di totale comfort. Nove punti su dieci ad Arca, ospite della prima serata giovedì alle OGR: il suo è stato un DJ set ibrido, con momenti di live al microfono, consueta extravaganza mutante dalle tinte latine. Pare che a una certa si sia inavvertitamente tagliata la mano con una bottiglia di sangue finto che si era portata sul palco. Non ti annoia davvero mai.

Arca (foto di Kimberley Ross)

Molto alto anche il punteggio di Spiritual Sauna, in chiusura alle OGR giovedì: selecta fresca, tanto digging di bootleg su Soundlcoud e un occhio ben attento sull’umore del pubblico. Inspiegabile invece Bill Kouligas, che è la mente dietro a una delle etichette più avant pop al mondo (termine molto caro a Club To Club). Eppure, oh, quando suona è un tamarro senza senso. Big room, cassone dritto, addirittura la trap che manco Diplo.

Ma per l’edizione del grande ritorno al Lingotto, il festival torinese ha puntato tanto sui live. Lyra Pramuk come sempre eterea e celestiale, Blackhaine forse un po’ penalizzati da una performance molto spoken word e un Caribou che suonava in contemporanea nel main stage. Forse l’Unsound di Cracovia, qualche settimana fa, era stato un habitat più consono alla performance. Più piccolo, intimo, buio, nebbioso.

Autechre spaziali: terza volta che li vedo quest’anno e in assoluto migliore set finora. Saggio metterli a inizio serata anziché alle 4 di mattina come l’ultima volta al Lingotto qualche anno fa, bellissimo per Rob e Sean optare per un set molto più ritmico, per quanto sempre impossibile da incasellare, infine davvero epico che si siano rifiutati di suonare in un palco sponsorizzato. Per cui, dal nulla, solo per il loro set, lo Stone Island Stage è diventato per magia “Room 2”. Madonna quanto amore. Non ne fanno più di musicisti così. Sigh.

Meravigliosamente sorprendenti i Jockstrap. Tanto insipidi sull’ultimo I Love You Jennifer B quanto affascinanti sul palco del main stage. Ed è forse solo dal vivo che capisci il senso del progetto. Passare da una ballad che sembra uscita dagli anni Sessanta a un pezzo jungle non è altro che la proiezione delle abitudini medie d’ascolto in questo secolo: un bipolarismo da playlist di cui soffriamo ormai un po’ tutti. Di Jeff Mills invece dirò sempre e solo la stessa cosa che un giorno ho letto su un muro in zona Parco Dora: Jeff Mills Sindaco di Torino.

Piccola parentesi: se moltissimi festival dopo la pandemia sono tornati mezzi acciaccati, costellate di piccole falle logistiche che poi alla fine ti rovinavano la fruizione, i raga di Torino si sono presentati all’appello ancora più impeccabili. Questo dal punto di vista di uno spettatore significa tantissimi bagni, tantissime postazioni bar, quindi meno code e più tempo per goderti quello per cui hai pagato. Non bastasse: incantevoli le installazioni laser di Anonima Luci, che tra il lungo corridoio e la Red Room hanno aggiunto valore all’esperienza, anche grazie al supporto di BDC.

Tornando ai live. Nel cuore rimangono soprattutto Pa Salieu, che è ancora acerbo ma già è devastante con una semplice formazione di basso e batteria. Lo perdono per non aver suonato Mista Freestyle. Bicep nel loro esordio live italiano davvero carini, soprattutto nei visual e nella narrazione naturale dello spettacolo, nella coesione spontanea tra i pezzi. Irraggiungibile come gusto, eleganza la fruttuosa collaborazione tra Caterina Barbieri e Ruben Spini. In assoluto uno dei migliori live audiovisivi in tour quest’anno. Musica che ti riconcilia con te stesso.

Caterina Barbieri (foto di Kimberley Ross)

Unico elemento tragico che ha un pochino ottenebrato i giochi è stata la morte di Mimi Parker dei Low domenica. Bookati inizialmente dal festival per la serata di sabato e poi mai di fatto annunciati. È proprio una di quelle notizie che non vorresti mai leggere. Musicista incredibile, persona di rara luminosità, a detta di tutti. Sigh.

L’identità di questa ventesima edizione di Club To Club era fortemente antologica: grandi classici, abbinati a piccole scoperte e rivalutazioni inizialmente frettolose. È sempre stato questo il senso di un festival che continua a mettere malinconia da quanto è bello. Specie se dopo tante tribolazioni pandemiche è potuto tornare nel suo nido prediletto del Lingotto. Quattro giorni intensissimi per renderti conto per l’ennesima volta che, alla fine, Torino non ha davvero nulla da invidiare ai grandi centri dell’attenzione europei.

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