Eventi

Se volete prendervi bene andate a un concerto dei Royel Otis

L’unica data italiana al Fabrique di Milano del duo australiano è stata uno show spensierato. Tra hit e brani che rendono molto di più live, è stata un’ora e mezza di divertimento e sing along

  • Il4 Dicembre 2025
Se volete prendervi bene andate a un concerto dei Royel Otis

Foto Jamieson Kerr

I Royel Otis sono la band ideale per sciogliere i nervi e la tensione, non importa dove sei: puoi anche trovarti al Fabrique di Milano in una serata fredda e umida, ma sentirai comunque il rumore delle onde e quella spensieratezza estiva che ti spinge a respirare a pieni polmoni l’odore di salsedine. Il duo australiano è nato a due passi dall’oceano, precisamente in un bar di Bondi Beach, ed è per questo che quelle sensazioni le ha nel sangue. Quando li intervistammo un anno fa erano in rampa di lancio con il loro primo sorprendente album PRATTS & PAIN e venivano da un tour interminabile. A 365 giorni di distanza, o poco più, ritroviamo i Royel Otis a Milano, in una venue più ampia, con un secondo disco e tanti nuovi brani.

Nonostante ciò, la durata di un loro concerto non è aumentata e si attesta ancora intorno all’ora e mezza. La costruzione del live, sempre minimale a livello di interazione e scenografia, però è un po’ più architettata. Dietro al duo, che dal vivo è accompagnato da batterista e tastierista, un grande schermo si colora di rosa e dialoga con il pubblico spiegando il senso delle canzoni o suggerendo di ballare o muovere a tempo le braccia. Il tono ironico, che nelle loro canzoni si mescola ad associazioni al limite del surreale, rimane il segno distintivo. Il fatto che Royel e Otis si rapportino con i fan in questo modo lo è di per sé.

Live è meglio

Il centro della scaletta è hickey e i hate this tune con cui si apre il concerto di Milano è uno dei pezzi più convincenti del secondo disco dei Royel Otis. Rispetto al debutto, è stato scritto nel pieno della loro esplosione definitiva, in itinere praticamente. La produzione di Chris Collins li mantiene più al sicuro in confronto all’estrosità di uno come Dan Carey. Se nella versione in studio, molti pezzi suonano come un tentativo spesso “solo” sufficiente di ripetere la formula vincente di P&P, dal vivo tutto acquista un tono diverso. moody – singolo che ha generato qualche polemica per via delle parole del testo, ma che testimonia il loro caratteristico modo di scrivere in modo colloquiale, come se parlassero al loro amico al pub – live subisce una trasformazione che lo rende ancora più catchy e rock, tanto da far scatenare il pubblico.

Se su car e who’s your boyfriend avevamo pochi dubbi, tra le canzoni che hanno davvero guadagnato spinta con la performance c’è she’s got a gun. Amore e cibo, sono queste le due principali fonti d’ispirazione della band, come ci avevano raccontato. E il loro sophomore è una raccolta di sensazioni e quadretti di amori e amicizie che nascono, muoiono e resistono. Say Something, uno dei singoli centrali,è lasciato per la chiusura, prima del gran finale riservato alla hit che li ha fatti conoscere a livello mondiale Oysters in My Pocket (a proposito di cibo).

Cover e sing along

C’è anche da dire che i Royel Otis hanno un’altra cosa che li contraddistingue: le cover. In programmi come X Factor li adorerebbero per il loro modo di trasformare e rendere pienamente nel loro stile dei pezzi apparentemente molto lontani. Non è un caso che, dopo la già citata canzone delle “ostriche”, il duo era andato in trend con la loro versione di Murder on the Dance Floor. E notate bene. Prima che la hit di Sophie Ellis-Bextor tornasse di moda grazie alla scena cult di Saltburn con protagonista l’attore irlandese Barry Keoghan che balla nudo. In scaletta c’è spazio anche per Linger dei Cranberries che fa cantare tutto il pubblico del Fabrique.

Lo stesso coinvolgimento si percepisce con i singoli dei loro primi EP, su tutti I Wanna Dance With You e Sofa King (che poi è stato incluso in PRATTS & PAIN). Quest’ultimo gioca molto sui versi del ritornello «You’re so fuc*ing gorgeous» che sullo schermo alle loro spalle viene abbinato a diversi nomi italiani stimolando le grida dei fortunati che vedono comparire il proprio. Un’altra delle loro trovate semplici, ma incredibilmente funzionali. Che è un po’ lo stile della loro musica: una semplicità che, specialmente nei pezzi del primo disco come Fried Rice o Adored, ha un effetto pari alla serotonina, pur con un tocco nostalgico. Semplicità che però non è prevedibilità ed è questa la cosa più essenziale e quella che speriamo rimanga tale.

Share: