Torna Set Up a Venezia, finalmente
La due giorni di performance a Punta della Dogana ci ha ricordato di quanto sia importante per la città l’evento di Palazzo Grassi. Ne abbiamo parlato con Nkisi
«È sempre bello tornare in Italia, specialmente a Venezia» dice sorridente Nkisi fuori dal suo albergo. È mezzogiorno, c’è una luce stupenda sui canali e l’artista nata in Congo ma cresciuta a Bruxelles è semplicemente felice di aver chiuso tra gli applausi la prima delle due giornate di Set Up. Il suo live con le macchinette è stato il giusto apice di un crescendo rossiniano iniziato con i movimenti corporei di Leïla Ka, e proseguito con diverse altre performance studiate apposta per adattarsi al meglio negli spazi di Punta della Dogana. Per non parlare del suggestivo loop di videomixtape proiettato da Riccardo Benassi nell’immenso schermo del cubo, oppure il reggimento di fanteria afro avant pop portato dall’Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp sul palco della navata 2 (qualcosa come 13 elementi).
È forse questo elemento fortemente site specific a rendere unico Set Up, che di solito si fa ogni due anni tra un’esposizione e l’altra alla Dogana. Ma che per forza di cose nel 2020 non si è fatto. Cosa che ce l’ha fatto mancare ancora di più. Merito di un gusto estremo di Palazzo Grassi ed Enrico Bettinello nello scegliere e disporre nello spazio e nel tempo i giusti act, che fossero performativi, musicali o di qualsiasi altro genere. Quest’anno a Set Up c’era anche la mano di Terraforma tra i curatori, che si è sentita soprattutto al momento di coprire la quota più elettronica e danzereccia. Come appunto la nostra Nkisi.
Ci hai suonato spesso in Italia, o sbaglio?
Credo sia una delle nazioni dove ho suonato di più in vita mia, anche prima della pandemia. Di recente poi ho trascorso tre mesi di residenza artistica a Palermo. È stato bellissimo. E poi, come primo show dell’anno, Venezia è ancora più speciale.
È stata una data isolata o fa parte di un tour?
Se devo essere sincera, prima della pandemia è uscito il mio album e mi sono focalizzata molto su sonorizzare le performance. Quindi ero molto in teatro. E durante il periodo della pandemia ero a Berlino, dove per fortuna c’erano molti fondi per il teatro e la danza. Tutto ciò ha dato a me, così come a molti altri artisti, la possibilità di fermarsi e ragionare meglio su cosa faccio e come lo voglio fare. È stato come riconnettersi con il mio lato spirituale, che come spesso succede viene messo un po’ da parte quando vieni sballottato qua e là in tour.
L’album è del 2019, giusto?
Sì, 2019. E nel 2020 ho anche lanciato la mia etichetta, che è pur sempre un’esperienza spaventosa. Nel senso che ti mostra quanto può essere complicata l’industria, tra contratti e scartoffie e clausole. Parlavo giusto ieri sera con altri artisti dei diritti di riproduzione meccanica e altre cose molto specifiche. Comunque quest’anno voglio rilanciarla. Per prima cosa farò una release con l’unico artista che ho al momento, ma non posso parlarne ancora. Sono semplicemente affascinata da usare la label come modo di pubblicare direttamente musica, senza fare troppo affidamento su campagne marketing, eccetera. In più penso che un modo per cambiare certe dinamiche, per risolvere certi problemi dell’industria sia proprio trattare i tuoi artisti come vorresti essere trattato tu.
Quindi per ora la tua label ha un solo artista?
Per ora sì, dopodiché inizierò anche io a pubblicare materiale. Per me la connessione personale con un artista è fondamentale. Quindi preferisco che per ora sia soltanto un artista con cui ho realmente un rapporto di fiducia e stima, amicizia. In più voglio circondarmi di artisti che in qualche modo riescano ad andare oltre al dancefloor, che possano spingermi su un altro livello.
E che ne è del collettivo NON?
Ha fatto parte del mio percorso musicale, ma penso che quello che abbiamo fatto sia stata una splendida scintilla. A volte è nella natura umana tendere a tirare avanti oltre il dovuto certe cose, ma credo che nel caso di NON il progetto sia giunto a una naturale conclusione. Sicuramente mi è servito tantissimo per tutto ciò che sto facendo oggi. È stato un ottimo esperimento che ha mostrato prima di tutto a noi stessi che è possibile avere una connessione diretta col pubblico. Dopodiché, non si sa mai. Sono un Sagittario, quindi non si può mai sapere cosa farò in futuro!
Davvero?
No, dai. In generale credo che la musica sia l’unica cosa con cui posso invecchiare insieme. Magari collegandola sempre di più con immagini e performance. Negli ultimi due anni per me è stata come una rinascita spirituale, con molta più improvvisazione dal vivo, molta più riscoperta. In più, dal vivo ho testato letteralmente moltissime tracce ancora non uscite. Alcune di queste sono vecchie anche più di un anno. Ho iniziato la mia carriera cantando in alcune band, tipo band funk, e con l’elettronica questa cosa delle macchine ha preso il sopravvento sulla voce. Ma ora la mia voce sta tornando.
Percepisci grandi differenze tra i tuoi set del 2019 e quello, per esempio, di ieri a Set Up?
Tantissime differenze. Sento di essere molto più interessata alla rhythmic trance e anche il pubblico a volte vorrebbe semplicemente muoversi un po’. È molto divertente. L’energia del pubblico è tutto. Un tempo suonavo roba più dark techno, più noise: funzionava bene e magari nell’ultima mezz’ora di set mi scioglievo e mettevo roba più spigliata. Ora invece posso fare anche due ore di cassa dritta. Sono tornata molto alla rave music e ieri sera sono stata così contenta di mettere della sana techno. Roba molto più funky e tribale della minimal. E molta gente che mi ha sentito l’ultima volta anni fa rimane stupita da questa cosa. Mi diverte molto.
C’è sempre quel brividino del “piacerà mai alla gente”?
Esatto! A volte penso “OK; questa roba è davvero molto underground: gli piacerà?” E allora la metto lì e controllo la folla [ride], ma alla fine funziona. E allora penso “OK, dai, bene, siamo dello stesso team!”