Anfisa Letyago, Techno Partenope
Lei è un altro di quegli orgogli italiani che stanno facendo ballare il mondo. L’abbiamo incontrata a pochi giorni dalla sua data a Fiera Milano Live, dove aprirà per Paul Kalkbrenner
Ha scalato i vertici della scena dance internazionale superando molti pregiudizi con i suoi DJ set coinvolgenti e le produzioni mai banali. Anfisa Letyago sta girando il mondo dopo aver piantato le radici a Napoli, città in cui ha trovato la dimensione ideale. E la felicità.
Per la nostra intervista, Anfisa Letyago si mostra in collegamento dal suo studio di Villa Pavoncelli, sul mare di Posillipo, in tenuta casual con maglietta e cappellino, come quando sale in console. Ci parla in modo semplice e chiaro, sfoggiando una curiosa cadenza anglo-napoletana e un volto sempre sorridente. A lanciare Anfisa Letyago fu nientemeno che Carl Cox, complice una chiavetta USB (accessorio principe per lo storage degli edit per i DJ). Subito dopo, per la label del superstar DJ, realizzò un paio di EP.
La DJ partenopea ha firmato remix per artisti popolarissimi come Swedish House Mafia, Empire of the Sun e PNAU e l’abbiamo vista mixare per i più importanti festival (tanto per citarne alcuni, Sónar, Tomorrowland, Awakenings, Timewarp), facendo ballare migliaia di persone con i suoi ritmi serrati e quegli intriganti sussurri eterei, tra techno e psytrance.
A pochi giorni dal suo set (22 giugno) a Fiera Milano Live di Rho, quando aprirà per Paul Kalkbrenner, Anfisa Letyago ci racconta il suo amore per Maradona, Aphex Twin e la musica elettronica degli anni ‘90. Da Moby – presente nel brano You & Me – ai nuovi singoli Feelin’ e Origami (in uscita il 5 luglio), in attesa di ascoltare l’intero album. Per Anfisa Letyago è sempre questione di stile ma, soprattutto, di emozioni.
Lo show immersivo Partenope
A proposito di show imminenti di Anfisa Letyago, come quello del 22 giugno, a lavorare con lei per la realizzazione di visual in 3D è Giusy Amoroso, nota anche come Marigoldff, artista e regista digitale italiana pluripremiata che vive a Berlino, capace di creare installazioni immersive traendo ispirazione dalla natura, dai videogiochi e dall’anatomia umana.
L’intervista ad Anfisa Letyago
Cosa ci fa una siberiana a Napoli?
Sono nata in Siberia ma sono italiana. Mia mamma è siberiana e mia nonna vive ancora lì, mentre mio papà è italo-canadese, di origini calabresi, e io sono cresciuta nel Sud Italia. Quando mi sono diplomata ho deciso di fare l’università a Napoli. La prima volta che l’ho visitata mi sono subito innamorata per il suo carisma, il movimento. Potevo scegliere Berlino, Londra, New York, ma per me l’acqua è fondamentale, sono legata al mare. Vivo in spiaggia.
Cos’hai imparato vivendoci?
A cucinare molto bene! La cucina tradizionale è importante per me e la mia famiglia. Inoltre è una città che ti insegna ad affrontare le difficoltà con disinvoltura, senza stress. E anche questo ha aiutato a far emergere le mie capacità artistiche. Basta guardare solo il panorama, fare una passeggiata nel centro storico, sul lungomare, ti carica. Ho dedicato la mia label a Nisida (N:S:DA), di grande ispirazione con i suoi tramonti.
A livello musicale c’è qualche DJ o produttore napoletano a cui sei legata?
Un amico e riferimento assoluto è Gaetano Parisio, un’istituzione. Amo le sue produzioni e il modo in cui si propone, perché suona ancora in vinile.
Nel tuo studio spiccano due ritratti: uno è Maradona.
Maradona per noi napoletani è come San Gennaro. Io sono nata nel 1990, anno in cui ha portato il secondo scudetto alla squadra. Maradona ha dato forza e lustro alla città, quel riscatto che ogni napoletano porta nel cuore.
Quando sono andata in Argentina nel 2020 ho provato a incontrarlo. Dovevamo vederci durante il mio tour in Sud America, ma purtroppo in quelle settimane si è aggravato e poi è morto. Incontrarlo era il mio sogno. Era un artista del calcio, con una passione e un talento smisurato pur non avendo, per dire, il fisico di Cristiano Ronaldo.
L’altro è Aphex Twin.
Negli anni ‘90 nessuno poteva dare un’identità al tipo di performance di Aphex Twin, era un alieno. Se non fosse stato per lui, la nostra scena non sarebbe esistita. È un artista polivalente, fa colonne sonore, produce musica sperimentale ma anche cose più facili, ambient, techno. È uno che non si chiude nel proprio cerchio, anzi ha allargato il suo raggio d’azione.
Gli anni ‘90 si sentono molto nelle tue produzioni…
I dischi più iconici per me sono degli anni ‘80, ’90 e inizio Duemila. All’epoca, quando si faceva un disco, questo aveva un tempo di respiro più ampio rispetto a oggi, poi con i social media non ne parliamo. Un disco dura uno o due mesi. Prima passavano anni e intere generazioni: tutti riuscivano a sentire e ballare quel disco, che rimaneva impresso nella memoria. Anche per questo mia mamma, mia nonna e mio papà ascoltavano musica, e io ascoltavo quello che ascoltavano loro.
E cosa ascoltavano?
Mio papà suonava la chitarra, grande fan di Beatles, rock inglese e americano, country. Mia mamma ascoltava eurodance, trance e pop da radio. Mia nonna siberiana aveva i vinili di Ricchi e Poveri, Toto Cutugno, musica italiana.
Ho assorbito un po’ tutto e, dagli anni ‘90, i Daft Punk, Underworld, tutti gli artisti della Strictly Rhythm, i Masters at Work, Sasha, John Digweed, Paul Van Dyk. L’influenza è quella, tra UK, rave, trance, house. A livello di produzione, si lavorava per creare un sample, una melodia o un’armonia che restava in testa. Voglio dire, Moby ha fatto dischi irripetibili…
E come è nata la collaborazione con Moby?
Un giorno ho condiviso sui social un video in cui ascoltavo il suo brano Go del ‘91, mostrando il vinile. Qualche mese dopo il suo manager mi ha chiesto di remixare quel brano. Non me l’aspettavo. Ho scelto la seconda versione del pezzo, non l’originale. Ero talmente emozionata che mi si bloccava lo stomaco mentre lavoravo, però alla fine ci sono riuscita. Da lì è nato un rapporto di amicizia con Richard. Un paio d’anni più tardi mi è arrivata la proposta di realizzare un brano insieme, il che mi ha caricata, mi ha fatto credere di più in me stessa. Dopo aver creato You&Me sono andata a trovarlo a Los Angeles.
Il tuo nuovo singolo Feelin’ anticipa l’album. Cosa ti aspetti?
Quest’estate uscirà il progetto su noted., sotto-etichetta di Sony Music. Feelin’ ha melodie, armonie un po’ più trance, dreamy, ma il beat e il groove derivano dalla mia esperienza nei club. Questa proposta è arrivata tempo fa, in un momento in cui ero alla ricerca di ispirazione, di rinnovamento. Volevo mettermi alla prova e ho deciso anche di cantare. Sono riuscita a sviluppare a livello artistico altre capacità che pensavo di non avere.
Quali per esempio?
Nel fare qualcosa di più crossover avevo paura del pregiudizio. Invece il mio pubblico ha apprezzato. Ho sempre utilizzato la mia voce nelle produzioni, ma è la prima volta che canto in modo così aperto, per tutta la canzone, anche nel ritornello. Mi piace il parlato in inglese e in italiano, sulle basi techno, perché il sound più identificativo è la nostra voce.
Non bisogna per forza saper cantare, ma saper trattare la voce soprattutto per chi fa il produttore. Saperla impostare e dare intensità alle parole, trovare un testo giusto e fare tagli che si abbinano al groove del brano e al concept. La voce è lo strumento più distintivo che abbiamo: gli altri suoni possono essere riprodotti dai software.
A livello di produzione lavori da sola o con qualcuno?
I pezzi li produco nel mio studio o al computer portatile se viaggio. Uso Ableton Live per facilità e velocità. Ci sono diverse drum machine per creare le basi, le parti ritmiche. Quando sono a casa tranquilla, parto da melodie semplici, registro la voce, creo le basi con un pad. Poi, se sento l’esigenza di un suono più identificativo, se voglio aggiungere un tocco berlinese o inglese, mi rivolgo ad altri produttori per finalizzarlo.
Essere una produttrice e DJ donna attira critiche gratuite?
Purtroppo sui pregiudizi c’è ancora molta strada da fare. Per me la capacità e la bravura di ogni artista non dipende dal sesso. Tre anni fa ho tenuto una masterclass a Barcellona con Chris Liebing e Hannes Bieger, due mostri sacri della produzione e del DJing. Era un corso anche online dove ho raccontato il mio percorso, dall’ispirazione alla produzione, ho mostrato come creo il beat, il suono, registro la voce, faccio i cut. Ho messo a disposizione la mia esperienza e non era facile perché non sono un’insegnante.
Svelare i propri segreti non è scontato. Eppure sono stata criticata e offesa. Certi commenti misogini sono stati cancellati dalla stessa azienda che ha prodotto la masterclass. Gli hater ci sono e con i social il fenomeno è amplificato.
Come vivi i social?
Mi piace raccontare le mie serate, i live, alcuni momenti in studio, ma quando faccio musica cerco di non utilizzare il telefono. Condivido anche situazioni quotidiane, quando mangio un piatto di pasta, vado al mare, mi sveglio la mattina, perché crea comunità. Però le vivo in maniera tranquilla, spontanea.
Avere un bell’aspetto è un vantaggio o uno svantaggio?
Il fisico femminile viene ancora visto come provocatorio, rispetto a un uomo. In passato ho dovuto lavorare il doppio per dimostrare che sono capace. Oggi mi sento più tranquilla, non vado nemmeno a leggere chi mi giudica dall’aspetto. Ognuno fa il suo percorso e viene riconosciuto per quello: se metti in mostra il fisico più di altre qualità dipende da te. Ognuno deve coltivare il proprio orto e può farlo sia attraverso il corpo sia attraverso la musica. I meccanismi sono diversi ma, alla fine, a parlare è la musica.
Cos’è il progetto Partenope che accompagnerà il tuo nuovo album?
Volevo creare qualcosa di impatto. Napoli ha una grande storia, è una città esoterica, così mi sono ispirata alla mitologia greca, alla vicenda tra Partenope e Ulisse. Per trasformare questa visione in un visual ho pensato a Giusy Amoroso, artista napoletana che vive a Berlino. Ha fatto lo scan in 3D del mio volto per trasportarlo in video.
Per ora si vede solo un dettaglio nella copertina di Feelin’, svelerò Partenope ad agosto al festival Red Valley in Sardegna. Sarà un’opportunità per immergersi nella mia musica anche attraverso lo schermo. Le immagini non distraggono, ma completano. Certi film sono diventati iconici associati alla musica, come Trainspotting con Born Slippy degli Underworld.
Lo sai che c’è una coincidenza o quasi con il titolo dell’ultimo film di Paolo Sorrentino…
Sì! Quando ho visto il video di Paolo Sorrentino che presentava a Cannes il suo film Parthenope, mi sono emozionata perché il titolo è quasi lo stesso del mio progetto elettronico visual. Con Paolo ho collaborato agli eventi di Seconda Pelle e per la presentazione di The New Pope al festival di Venezia. Lo stimo moltissimo, amo il suo stile.
Cosa provi a suonare nei più grandi festival?
I festival che fanno migliaia di presenze hanno un impatto molto forte su qualsiasi artista. L’anno scorso ho suonato sul main stage del Tomorrowland e il palco è veramente immenso, per arrivarci dal backstage devi camminare per venti minuti attraverso le scenografie. L’EDC di Las Vegas addirittura non è un festival, ma una città! Quando arrivi trovi diversi palchi grossissimi, luci, giostre, area food, area chill, area artisti, e vedi tutto dall’alto. I camerini degli artisti sono su una collina che si affaccia sul festival, da lì puoi solo immaginare quante persone ci lavorino, quanto tempo ci voglia per progettare e costruire un progetto del genere.
E tutto questo è cominciato da un endorsement di Carl Cox.
Ha dato un grande contributo al mio percorso professionale. Nel 2017 sono andata a sentirlo all’Afrobar di Catania sperando di conoscerlo di persona e magari farmi una foto con lui. Sono riuscita a incontrarlo e, dopo la foto, gli ho consegnato una chiavetta con la mia musica. La sera sono andata a sentirlo e, all’improvviso, durante il suo set è partita tutta la musica del mio drive. Ero davvero emozionata e incredula.
È stata la mia prima e unica investitura da parte di un DJ, una popstar, alla fine. Ho iniziato a seguirlo sui social, vedevo che suonava ovunque i miei brani. Un giorno mi ha scritto su Facebook facendomi i complimenti per le mie tracce, chiedendomi se volevo uscire su Intec Digital, la sua etichetta. Ho pensato a uno scherzo, a qualche profilo fake. Poi però ho verificato ed era tutto vero. Ho pubblicato due EP su Intec Digital, ma soprattutto è nato un rapporto di amicizia.
Invece tra i remix, oltre a Go di Moby, hai fatto It’s a Fine Day di Opus III.
Di recente ho remixato Swedish House Mafia, Empire of the Sun e PNAU. It’s a Fine Day l’ho remixata perché amo quel disco, che ho su vinile. Ho anche la versione di Miss Jane e il remix di ATB. Adoro quella voce, quella melodia, infatti è un pezzo che suono spesso, sempre per la mia passione anni ’90…
Qualcuno ti rimprovera di non aver citato Opus III, ma in realtà la stessa Kirsty Hawkshaw nel ’92 aveva ripreso il pezzo originale del 1983, cantato da Jane Lancaster.
È un edit, si sa, cioè non lo vendo, lo suono per il mio piacere personale, come tanti edit che i DJ inseriscono nei propri set. Ci sta.
Abbiamo iniziato la conversazione parlando di Napoli, della tua passione per la cucina. Vorrei concludere chiedendoti quale piatto preferisci.
La parmigiana di melanzane, la mozzarella di bufala, lo spaghetto con il pomodoro fresco, la frittata di maccheroni e poi… la pizza! Almeno una volta alla settimana devo andare in pizzeria, anche se mi trovo a Los Angeles, Miami, New York. Scelgo la margherita, ma dev’essere ben cotta, “abbruscatella” come si dice qua, col pomodoro dolce e la provola.
Intervista di Gaetano Scippa