Interviste

Antonio Filippelli, il direttore musicale di X Factor: «A volte mi accorgo della forza di un giovane non appena varca la soglia»

Abbiamo incontrato il deus ex machina della musica del talent di Sky, la figura che per prima scova i concorrenti e affianca i giudici nelle scelte, per farci raccontare il dietro le quinte del suo lavoro

Autore Samuele Valori
  • Il14 Novembre 2024
Antonio Filippelli, il direttore musicale di X Factor: «A volte mi accorgo della forza di un giovane non appena varca la soglia»

X Factor è una grande macchina in cui ogni ingranaggio deve funzionare alla perfezione per far sì che il risultato finale sia uno spettacolo, o una festa, come recita il claim dell’edizione 2024. Lo si è ribadito già più volte, quello del giudice è uno dei ruoli più complicati, tra responsabilità, esposizione alle critiche e rapporto umano. Ma i quattro al tavolo non sono soli. Dietro le quinte c’è una figura che inizia a lavorare al programma a febbraio, prepara loro il terreno e poi li supporta dalle selezioni fino agli inediti e alla finale. Stiamo parlando del direttore musicale, il deus ex machina di tutto ciò che si ascolta ogni giovedì sera su Sky e Now. Alle redini della produzione musicale di X Factor da qualche anno c’è Antonio Filippelli, uno dei producer più rilevanti del panorama pop e urban del nostro Paese.

Poco prima del live l’abbiamo “rapito” dal suo studio al teatro Re-Power per farci raccontare i segreti del suo lavoro. «Si parte da febbraio e si finisce a dicembre» ci ha spiegato mentre dallo schermo controllava le ultime prove dei concorrenti in gara. Lui è il primo ad ascoltarli e vederli, per poi fare una scrematura prima che i giudici li selezionino. «È un lavoro stimolante che mi ha ridato un sacco di energia. Sai, facendo il producer da anni, capita di avere qualche periodo di stanca. Lavorare con i ragazzi giovani mi ha restituito molta carica».

L’intervista ad Antonio Filippelli

Partiamo con la domanda che si fanno un po’ tutti: cosa fa il direttore musicale di X Factor?
Tante cose. Il lavoro parte molto presto, da fine febbraio, quando con la mia squadra iniziamo lo scouting per cercare il nuovo cast. Prima si fanno le selezioni online, chiediamo di inviare dei video, e poi i casting one to one. Tutto questo dura fino alle audizioni: lì sono i giudici a scegliere i dodici talenti. Dai live comincia un’altra fase. Mi interfaccio col tavolo per la scelta dei brani. Io ho il quadro completo di tutta la musica della puntata: quanti pezzi uptempo, quante ballate, quanti brani in italiano e quanti in inglese. Devo cercare di equilibrare la scaletta, anche occupandomi degli arrangiamenti e della produzione degli inediti che scegliamo tutti insieme.

E in che modo avviene la collaborazione con i giudici?
Loro hanno sempre l’ultima parola su tutto. Non solo per quanto riguarda la musica con brani e arrangiamenti, ma anche sulla messa in scena e il look. Il confronto con loro c’è ed è costante e positivo. Tante volte capita che seguano il tuo consiglio, altre volte, invece sono molto dritti e sicuri e quindi li lasci fare la loro scelta. Anche perché se poi si forza troppo la mano e il concorrente esce, ti trovi con la responsabilità sulle spalle (ride n.d.r.).

Quale è la prima cosa che ti colpisce quando vedi un giovane artista?
Dopo diversi anni che sono qui ne ho visti veramente tanti. Ormai già da quando varcano la soglia mi rendo conto, dallo standing, se hanno qualcosa di speciale. La prima percezione spesso aiuta tanto. E anche se ti rendi conto che è un ragazzo molto verde, se non è un clone di qualcos’altro, sai che ci puoi lavorare. Quest’anno, in particolare, ci sono parecchi minorenni rispetto al passato ai live.

Che differenza c’è tra il lavorare con dei giovani artisti e con dei veterani?
Hai a che fare con un ego diverso, poi ovviamente dipende da artista ad artista. Ci sono alcuni artisti giovani che se la menano di più e hanno più pretese rispetto a quelli che già sono navigati. Un atteggiamento che spesso deriva soprattutto dall’inesperienza. Questo è l’aspetto negativo che noto più di frequente. Quello positivo è che hai davanti un foglio bianco e quindi, insieme a lui, puoi creare un percorso e una nuova visione rispetto a qualcuno che invece è già affermato e ha già una sua storia. Dovendo partire da zero, paradossalmente ti puoi permettere anche di sperimentare di più e di non seguire troppo le metriche del mercato. Puoi essere un po’ più anarchico.

Come giudichi i talenti di questa nuova edizione? Hai già in mente qualcuno con cui vorresti lavorare fuori dal programma?
Sono molto forti, ma per forza di cosa non posso esprimermi nello specifico. Devono tutti lavorare tanto, questo è fondamentale per gli emergenti. È capitato in passato che abbia lavorato con qualcuno dopo il programma. Per esempio, con gIANMARIA e i Santi Francesi abbiamo fatto sia Sanremo giovani che la gara con i big. Non escludo che possa capitare di nuovo.

Quale è la cosa più importante che hai imparato da quando hai iniziato la tua avventura con X Factor?
Ad avere tanta tanta pazienza (ride n.d.r.). Oltre a questo, ti posso dire che ho ricevuto molta energia. Sai, facendo il producer da anni, capita di avere qualche periodo di stanca e soprattutto perdi il fatto di lavorare con dei ragazzi che sono proprio all’inizio. Tornare a farlo, a contribuire a questi che io chiamo “progetti d’investimento” mi ha restituito molta carica.

Secondo te in cosa può essere utile, per un giovane artista, partecipare X Factor?
X Factor è una palestra. Come tutti i talent, il suo ruolo è cambiato negli ultimi anni. Non va più inteso come quel programma dove tu vai per vendere milioni di dischi appena esci. Al contrario, è un posto dove per un periodo molto compresso hai tutti i fari puntati addosso, lavori con dei professionisti in ogni campo e impari tantissimo. Secondo me è un buon inizio, una sorta di alzata di mano per dire: “ehi, ci sono anch’io”. Poi però non bisogna farsi ammaliare, perché una volta fuori devi lavorare ancora più duramente.

Negli ultimi tempi in Italia la figura del produttore è diventata più centrale. Secondo te in che modo è cambiata rispetto al passato?
Sì, è cambiata moltissimo e credo che molto sia dovuto all’avvento nelle classifiche dell’urban, un genere dove la figura del producer è sempre stata vista in modo diverso. Quasi più importante dell’artista stesso che il più delle volte cerca di affidarsi al produttore più in hype. In Italia questa cosa sta prendendo piede ed è importante per tutta la filiera che in passato rimaneva dietro le quinte e veniva dimenticata. È bello anche che i producer italiani sono degli artisti a tutto tondo, per citarne uno a caso, basta guardare quello che fa MACE.

Sei stato tra gli organizzatori del Festival of the Sun, com’è nata l’idea?
Tutto è cominciato grazie alla mia amica Fiammetta Cicogna che conosce Rick Rubin e ci ha lavorato a Los Angeles. Col fatto che lui si è trasferito in Italia da diverso tempo è stato tutto più semplice. L’abbiamo incontrato a casa sua in Toscana ed è nata questa cosa bellissima, questo boutique festival con una spiritualità unica. Sono stati due giorni intensi totalmente al buio. Nemmeno gli stessi artisti sapevano con chi avrebbero suonato e chi ci sarebbe stato oltre a loro. La ricordo come un’esperienza totalizzante, soprattutto per il fatto di aver conosciuto il lato umano di big internazionali come James Blake e Arcade Fire. Stiamo già provando a organizzare una seconda edizione.

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