A qualcuno piacciono i Bar Italia
L’ultimo album “Some Like It Hot”, uscito venerdì scorso, è un passo avanti sotto ogni punto di vista per la band di Londra. Una crescita confermata anche dal dal vivo ieri sera a Milano

Foto di Rankin
La prima volta che ho visto i Bar Italia dal vivo tutti parlavano di Tracey Denim. Un terzo album che aveva il sapore di un debutto, essendo il primo con la Domino Records, e che complice un nome accattivante e un’aura di mistero, li aveva portati all’attenzione di molti. Sul palco erano timidi. La luce a tratti sembrava mangiarseli lasciando spazio al muro del suono che è sempre stato la loro forza. A due anni di distanza Nina Cristante, Sam Fenton e Jezmi Fehmi sono una band molto più matura. La rinnovata e dichiarata consapevolezza espressa durante la chiacchierata in hotel è stata confermata anche ieri sera alla Santeria di Milano. Le voci, le sporadiche interazioni con il pubblico e il modo di occupare il palco sono frutto di un’esperienza maturata suonando dal vivo ovunque, persino in Sudamerica.
Parte della suddetta crescita è da addebitare anche al loro ultimo disco Some Like It Hot, uscito venerdì scorso, che nel titolo omaggia il celebre film A qualcuno piace caldo del 1959. Il seguito di The Twits – che ricalcava gli stilemi del predecessore – è un salto in avanti in termini di forma canzone e di sonorità. «È un momento strano perché per nove mesi ci siamo fatti una nostra idea sul disco, ma adesso da due giorni, per la prima volta stiamo ricevendo le opinioni di chi lo ascolta» mi rivela Nina quando le faccio notare la cosa all’inizio dell’intervista. «Nel nostro siamo convinti di aver realizzato il nostro lavoro migliore finora» le fa eco Sam.
Quando iniziamo l’intervista è un momento strano a tutti gli effetti. Jezmi è visibilmente preoccupato per il suo cellulare rimasto “intrappolato” in un’installazione artistica della Triennale in uno dei momenti di pausa di un’intervista radiofonica del mattino. Tuttavia, un po’ come accaduto ieri sera – ha un tratto ha ciesto al pubblico notizie sul punteggio di Chelsea – Ajax – dopo qualche minuto si scioglie. Soprattutto quando si parla della loro musica.
«Nel momento in cui scriviamo una canzone permettiamo a ognuno di noi di scrivere quello che vuole quindi il brano all’inizio può sembrare un po’ fuori fuoco» spiega. «Ci capita spesso di risponderci proprio a vicenda e di scrivere in successione» ribadiscono gli altri. Perché se c’è una particolarità che è rimasta costante fin dai primi dischi è il dialogo tra voci che abita ogni loro brano. I tre scrivono le parti vocali separatamente, ma sempre tutti nella stessa stanza, come ai tempi del Covid quando la band nacque nella cameretta di Jezmi.
I testi sono dei piccoli quadretti, spesso indefiniti (in questo ricalcano il suono dei primi dischi), ma ispirati alla letteratura e al cinema. «Leggo molto Umberto Eco. Mi piace tutto di quello che ha scritto e mi trasmette sempre molto a livello di sensazioni. In qualche modo poi, anche se non so spiegarti bene come, si traducono in musica. Avviene tutto nella mia testa» mi spiega Sam.
Il gioco sul palco
Fundraiser, Cowbella e Marble Arch dal vivo non perdono il carattere quasi teatrale dell’interscambio di battute tra i tre. Rispetto ai brani del passato hanno dalla loro un sound più raffinato e rifinito anche nella versione registrata. Quello dei Bar Italia, come spiega Sam, è stato un percorso all’inverso: «Quando abbiamo iniziato a scrivere, facevamo molte cose basate su un loop perché io e Jez prima di allora avevamo fatto musica elettronica. E, ad essere sinceri, ascoltavamo un sacco di rap. Quindi c’era una sorta di influenza strutturale che non era proprio quella più ovvia, come la musica rock. Da tempo volevo che provassimo a utilizzare strutture più tradizionali».
Some Like It Hot è figlio di un processo di scrittura lungo e intervallato da tour e festival, tra Inghilterra e Messico. La grande differenza rispetto al passato, oltre a una forma più compiuta delle singole canzoni, è data proprio dal lavoro sul suono. «Al Pony Studio di Londra abbiamo collaborato per la prima volta con un ingegnere del suono, Elliot Heinrich, e avendo a disposizione maggiori mezzi rispetto al passato è stato naturale non avere più quella palette ruvida». Some Like It Hot è privo di quella sensazione da “non finito” che già un po’ si era persa con il quarto The Twits. In realtà, non è mai stata una scelta voluta.
I Bar Italia sembrano essere stati un po’ vittime del contesto che li circondava, ma non agnelli sacrificali. Sono stati abili fin da Tracey Denim a sfruttare a loro vantaggio le difficoltà. Tant’è che, appunto, i frammenti punk e dal colore lo-fi e DIY di brani come Nurse! e punkt sono fin da subito diventati un segno distintivo. Eppure, come ribadiscono più volte durante la nostra chiacchierata, non erano scelte stilistiche totalmente volute e ricercate, ma un fare di necessità virtù.
Lo stesso vale per la loro identità rimasta quasi anonima fino allo scorso anno e che ha contribuito a renderli ancora più interessanti agli occhi del pubblico. «Siamo diventati “famigerati” per questa cosa» mi dice Nina utilizzando l’italiano per enfatizzare il concetto. «Non è stato frutto di una scelta, ma di una serie di coincidenze. La nostra etichetta dell’epoca non mise i nostri nomi. Poi è arrivato il Covid e non abbiamo potuto fare nessun tour, per cui il pubblico non poteva associare nessuno ai tre che suonavano nei Bar Italia». Jezmi è ancora più diretto: «Io ho avuto un account Instagram pubblico per tutto il tempo. A nessuno importava. Vorrei essere meno anonimo, semmai, infatti trovo strano quando la gente dice cose del genere».
Nel loro caso nessuna cosa è avvenuta in maniera lineare. Nemmeno quando nel 2023 diverse riviste hanno iniziato a scrivere della loro musica. «Penso che in quel momento fossimo ancora in una sorta di stato di sogno, in cui non riuscivamo davvero a credere a ciò che stava accadendo. Ovviamente sapevamo di aver firmato un contratto e che presto avremmo dovuto affrontare la stampa. Ma abbiamo iniziato subito a scrivere i tweet, quasi per evitare di pensarci troppo» ricorda Sam.
Fuga dall’Italia
Uno dei momenti in cui il pubblico è stato più partecipe durante il concerto milanese di ieri sera è stato quello durante Bad Reputation. Nato da una frase di chitarra acustica di Jezmi, è uno dei risvolti più interessanti del disco, oltre che del live. Una di quelle canzoni che, finito di ascoltare l’album, hai subito la tentazione di tornarci su. «Penso che quel brano sia una versione più matura di altri che abbiamo realizzato in passato. Per quanto sia vero che questo album è leggermente più ampio anche in termini di effetto cinematografico, è qualcosa che avevamo provato a esprimere anche in passato, ma non in modo così efficace» spiega Nina.
La gente ieri, a differenza della mia già citata prima volta, è stata trascinata dalla band e dai suoni. E la prima cosa che viene in mente è che difficilmente in Italia riescono ad emergere gruppi di questo tipo, o perlomeno nei rari casi in cui ottengono visibilità, lo fanno con molta fatica. Nina si è spostata a Londra per fare musica e, anche se era il suo sogno fin da bambina quello di trasferirsi nella Capitale inglese, il collegamento alla fuga dei cervelli “musicali” – su tutti quello di Marta Salogni – è inevitabile. «Probabilmente non sarei riuscita a fare quello che faccio oggi rimanendo in Italia» mi rivela alla fine della nostra chiacchierata. Tuttavia, ciò che è interessante è la prospettiva esterna.
Sam non ci sta: «Ma se tutti quelli che vogliono far parte di una band se ne vanno, allora non accadrà mai nulla. Spero che l’esempio di Nina e Marta non spinga altre persone a lasciare il vostro Paese per fare musica. Il modo in cui si sono evoluti, per esempio, il punk e il post-punk, è scaturito da circostanze culturali estremamente complicate». Jezmi è invece genuinamente stupito: «La cosa incredibile è che in Italia esistono realtà come il C2C. Un festival con quella line-up così ricercata e diversificata non esiste. Quello che mi chiedo è: se in Italia si riesce a organizzare un evento del genere, perché non dovrebbe nascere anche della musica dello stesso tipo?».
Ripensandoci all’uscita dall’hotel mi sono trovato d’accordo. E alla fine del concerto di ieri sera, vedendo i sorrisi e la partecipazione del pubblico, è arrivata un’ulteriore conferma. Nel nostro Paese c’è voglia e spazio anche per musica di questo genere.