Big Thief: «Ogni volta che imbracciamo gli strumenti siamo una band diversa»
Dragon New Warm Mountain I Believe In You è il chilometrico titolo del nuovo album (lungo anche nella durata) di una rock band che cresce di anno in anno
«La mia certezza è selvaggia» canta l’empatica Adrianne Lenker nel nuovo album dei Big Thief, Dragon New Warm Mountain I Believe In You. Di certezze e di aspetti impetuosi il quinto disco della band è pieno: da un lato il gruppo di Brooklyn rifinisce il suo folk rurale, dall’altro cinque mesi e 45 canzoni scritte testimoniano che lavoro certosino hanno portato avanti i Big Thief per catturare il loro estro incontrollato e le loro molteplici sfaccettature.
Il risultato è un album di venti brani che spazia sul piano sonoro e regala grandi momenti d’intimità testuale. Ce lo siamo fatto raccontare dal chitarrista Buck Meek, collegato via Zoom da una stanza delle meraviglie dove chitarre e microfoni spuntano da ogni parte. Quella che leggete è un assaggio dell’intervista che verrà pubblicata sul numero di febbraio di Billboard Italia.
Un disco con venti canzoni e questa varietà credo vi abbia messo alla prova.
Parecchio, credo sia il più sincero che abbiamo mai scritto. Penso sia molto vicino a rivelare le varie sfumature delle nostre personalità e a raccontare chi siamo davvero. Siamo soddisfatti e credo che questo derivi proprio dal fatto di essere riusciti a mostrare i nostri vari aspetti, anche perché abbiamo background musicali molto diversi.
Tante sfaccettature, quindi, vorrei sapere di più: per esempio in Certainty sembra aleggiare lo spirito di Bob Dylan.
Credo di averlo ascoltato così tanto in vita mia che ormai scorre nelle mie vene! Io lo considero un talismano per la fase di creazione di un brano, mi viene piuttosto naturale riversarlo sulla canzone che sta venendo fuori.
Mentre Little Things investe l’ascoltatore: è come un fiume che straripa, un prisma che riflette tante sfumature.
Quella è una canzone che cattura il momento preciso in cui suoniamo senza un canovaccio. È una Polaroid dei primi cinque minuti in cui abbiamo preso in mano gli strumenti e credo che la sua energia provenga da lì. Molte idee sono venute in corso d’opera, semplicemente suonando. Questa è la nostra natura.
A dispetto della vulnerabilità, avete scritto quarantacinque canzoni per il disco. Siete sempre così prolifici?
No! Di solito ne scriviamo venticinque e finiamo col registrarne al massimo quindici, le canzoni che vengono scartate finiscono nell’oblio. Questa volta il nostro batterista James Krivchenia ha proposto di registrare qualsiasi cosa avessimo scritto, proprio per evitare di perdere qualcosa. È stato più semplice delle altre volte perché avevamo tutto sotto i nostri occhi e nelle nostre orecchie.
C’è qualche riferimento musicale o extra-musicale che vi ha allineato sulle stesse coordinate?
Bella domanda. Credo che di base questo disco sia una raccolta di canzoni country, quindi i grandi autori degli anni Sessanta e Settanta hanno svolto la funzione di collante. In particolare, la musica di John Prine e quella di Guy Clark ci hanno facilitato il compito. A questo si sono aggiunti ascolti più eterogenei. Per esempio, James ha messo sul tavolo qualche disco di musica ambient, tipo Julianna Barwick, mentre Max (Oleartchik, ndr) un po’ di jazz, sia classico sia moderno. Quindi abbiamo cominciato a lasciarci guidare dall’istinto.
Oltre al sound, mi sembra che anche la voce di Adrianne Lenker sia più versatile del solito in questo album.
In effetti, credo sia dovuto anche al fatto di aver registrato il disco nel corso di più mesi. Un periodo di tempo in cui sono successe tante cose, sia a livello globale che per ognuno di noi. Inoltre, abbiamo registrato in varie zone degli Stati Uniti, quindi anche il paesaggio cangiante ha giocato il suo ruolo. Ascoltando il disco qualcuno potrà dire di sentirci invecchiare di brano in brano!
Non è una cosa comune! Pensi che la pandemia abbia influenzato il disco? Intendo sul piano del suono, non dal punto di vista pratico o testuale.
Credo ci abbia aiutato a focalizzarci su quello che stavamo facendo. Ovviamente è stato un disastro: tour cancellati, progetti rimandati. C’era molta tristezza nell’aria, credo che scrivere un disco ci abbia permesso di contrastare tutto questo e che la pandemia ci abbia permesso di ripartire da noi, dalle nostre origini, forzandoci di stare fermi a comporre dopo anni di tour praticamente infiniti.
Articolo di Fernando Rennis