Cesare Cremonini, Amare senza incantesimi
Il cantautore bolognese – protagonista della nostra nuova cover story digitale – torna con il suo nono album in studio, “Alaska Baby”, e lo fa dopo un lungo viaggio sia interiore che per terre e paesi lontani
«La crisi del maschio contemporaneo è un tema di questo disco, l’uomo non sa più amare fondamentalmente. Il coraggio di amare oggi è anche saper togliersi una sorta di maschera che noi uomini teniamo mentre attraversiamo una serie di pericoli e di tranelli, di trucchi e di incantesimi. Dobbiamo liberarci dai nostri falsi dilemmi». Questo delicato e attuale argomento è uno dei tanti emersi in questa intervista con Cesare Cremonini – protagonista della nostra nuova digital cover story – a pochi giorni dall’uscita del suo nuovo album, Alaska Baby, disponibile da venerdì. E quello del cantautore bolognese è un gran bel disco, ricco di temi nobili e sonorità.
Potrete infatti sentire addirittura tracce di drum’n’bass sotto un impetuoso arrangiamento orchestrale nella traccia finale Acrobati. Così come il nobile piano di Mike Garson (che lavorò con David Bowie). Ci trovate le tante intuizioni sonore di Alessio Natalizia, genietto dell’elettronica che già ha incantato al fianco di Cosmo. E poi la “solita”, bella scrittura di Cesare Cremonini, capace di dare la giusta stesura a una canzone preziosa come Ragazze Facili che profuma di classico italiano anni ‘70 e non solo. C’è il bel duetto con un altro grande bolognese, Luca Carboni (a proposito, andatevi a vedere Rio A Ri O, la sua mostra di disegni, schizzi e dipinti).
E a compendio del nuovo album presto sarà disponibile su Disney+ Alaska Baby. Il documentario, nato dalla sceneggiatura di Cesare stesso e di Giovanni John Squarcia con la regia di Ivan D’Ignoti, dove capirete meglio quello spirito da viaggiatore leggero (una piccola borsa e l’immancabile chitarra al seguito) con il quale Cesare ha affrontato un magnifico viaggio da Antigua, passando per i santuari del rock n’roll primitivo a Memphis e Nashville, o del rock tout court come Seattle, fino a finire il suo grand tour nel bel mezzo di un lago ghiacciato in Alaska. Aspettando l’aurora boreale dentro una piccola tenda e inviando un messaggio all’amica Elisa. Sua ospite nell’album in un brano che segna il loro primo duetto ufficiale nei lavori del cantante bolognese.
L’intervista a Cesare Cremonini per il nuovo album “Alaska baby”
La primissima impressione che ho è che nonostante il Grand Tour degli States o il titolo in inglese, questo tuo nuovo album sia definitivamente un gran disco di pop italiano che affonda le sue radici nella tradizione, ma con degli arrangiamenti che aderiscono al contemporaneo.
Ho scoperto quello che volevo fare con Alaska Baby strada facendo, durante la sua realizzazione. Perché l’opera a volte è una sorta di stella polare che inizi a seguire e ti porta dove vuole lei. All’inizio non ti nascondo che pensavo che questo album fosse una sorta di atto finale, dopo aver fatto uscire una serie di singoli. Sai, venivo da un album, La ragazza del futuro, che era molto concettuale, era nato durante la pandemia. Non aveva tanti riferimenti concettualmente costruiti nel tempo. Era un disco molto “concreto”, pragmatico.
Invece Alaska Baby nel corso del tempo è diventato, in confronto al precedente, “barocco”, ricco di dettagli. È diventato gigantesco fra le mie mani. È vero, ci sono tanti riferimenti alla musica internazionale di oggi o comunque del recente passato. Ci sono sempre nella mia musica, non è cosa nuova. Come il fatto che io amo gli anni ’70, mi conquistano sempre all’ascolto. Certe canzoni e testi di quell’epoca mi riportano a una delicatezza di pensiero, di sentimenti con una grande profondità e intensità. Cosa rarissima oggi.
Anche in Italia negli anni ’70 abbiamo toccato delle vette di qualità con quel mondo sentimentale creato dalla musica leggera e anche cantautorale. E oggi non possiamo non farci i conti. Come artista, come cantautore, io non tradisco mai quel filo rosso culturale da cui provengo. Non lo farei mai, non sono in grado di farlo. Non appartengo a una generazione che ha potuto farlo, quella di oggi sì. E quindi è chiaro che quello che tu dici è esattamente quello che io devo essere. Una persona e un artista che ha un riferimento col passato imprescindibile, che oggi è all’apice della sua carriera e deve comunque guardare dritto verso il futuro.
L’esempio perfetto che dà forma a tutto quello che stai dicendo è Ragazze Facili. Nel documentario indugi tanto su questa canzone, si capisce che per te è importante, addirittura a un certo punto affermi che “Mi ha fatto paura”. Che volevi dire esattamente?
Secondo me (Cesare si prende una piccola pausa, ndr)… è “una di quelle”. Una di quelle importanti nella mia carriera. Ho sempre seguito un modo di fare musica abbastanza variabile. Io non ho un solo modo di scrivere, né un solo modo di interpretare, perché mi è sempre piaciuto imparare nuovi linguaggi. E nel corso degli anni ho imparato a trasformare la rabbia che potevo avevo dentro, o altre forme di sentimenti forti, in benzina per accendere il mio motore come artista.
Ragazzi facili appartiene a quel filone di canzoni che nasce molti anni fa come è stato per Le Sei e ventisei, Nessuno vuole essere Robin. Sono canzoni che toccano dei passaggi cruciali della mia esistenza. Non è una canzone “di design”, costruita anche davanti a uno schermo, con il team produttivo. Questa è una canzone in cui io sono completamente nudo di fronte a un passaggio di redenzione personale, se vuoi di messa in discussione di me stesso profondo a livello umano.
Non è un processo doloroso? Uno potrebbe dire con leggerezza: chi te lo fa fare?
(Sorride, ndr) La risposta è la voglia, la necessità di riuscire a sopravvivere solo attraverso questo processo artistico. Lo so che non è necessario, ma questo mio dolore dentro o quel dolore che ho assorbito dagli altri, come l’incomunicabilità che è un tema centrale oggi per tutti, io non posso non prenderlo in considerazione nelle mie canzoni. Penso che ne valga veramente la pena, spendere tanta energia creativa. Sono convinto che Ragazze facili resterà nel corso della mia vita come una delle grandi canzoni che ho scritto.
Nel disco c’è il tema dell’amore nelle sue diverse sfaccettature. Nella title track tu canti “Mi sento Johnny Cash prima di trovare June Carter”. Parli di amore puro e incondizionato in Il mio cuore è già tuo. Ma accenni anche al tema della crisi del maschio contemporaneo in Acrobati.
La crisi del maschio contemporaneo è parte di questo disco. Fondamentalmente l’uomo non sa più amare. Il coraggio di amare oggi è anche saper togliersi una sorta di maschera che noi maschi teniamo mentre attraversiamo una serie di pericoli e di tranelli, di trucchi e di incantesimi. Dobbiamo liberarci dai nostri falsi dilemmi. Torno nuovamente a Ragazze facili perché secondo me è l’apice di questo discorso che sto facendo, tu senti cori di Elisa ma che sembrano fantasmi.
Le ragazze facili non esistono, sono scherzi della mente, dell’uomo etero, dell’uomo che non sa più amare. Quindi il tema dell’amore in questo disco non è mai da confondersi unicamente con la dedica a una ragazza. Ma vale come percorso di vita come attraversamento dell’esperienza di amare che è un enorme, meraviglioso tema di attualità. Posso andare parlando del concetto di crisi?
Assolutamente sì, sono curioso.
Io penso non solo che sia in crisi il maschio contemporaneo in Italia, ma anche un certo status di artista maschio nel panorama pop italiano.
Spiegami meglio.
Il mondo della musica italiana è stato negli ultimi anni completamente privo di popstar maschi. La cosa stupenda alla quale stiamo assistendo è il crescente successo nel pop di una serie di artiste, assolutamente libere e vogliose di cambiare le regole. Di saper anche sfruttare il mercato per essere vincenti. Intanto ci siamo trovati una serie di grandi nomi maschili della musica italiana e che erano i simboli del pop italiano, in completa stasi.
Ho avuto l’impressione che sia mancata la voglia, il coraggio di osare che la musica pop sa offrire per andare oltre certi muri ideologici e culturali del nostro Paese oggi. Io un tempo avevo come riferimento artisti come Lucio Dalla che sapeva giocare con l’avanguardia, con il jazz. Bisogna saper mischiare le carte in tavola.
Tu con questo disco provi a sparigliare le carte. Parli di crisi dell’uomo, aggiungi sonorità inedite nella tua musica pop, e nel tuo singolo che ha anticipato l’album Ora che non ho più te, una mega hit, c’è dentro alla produzione Alessio Natalizia che non è conosciutissimo ma un ottimo protagonista della scena elettronica di ricerca.
Alessio Natalizia è stato importante per la sua intelligenza artistica, ha vissuto tanto a Londra e così non ha quelle sovrastrutture di quel nostro mondo che sforna pop quasi quotidianamente.
Io scommetto che tu hai scelto di lavorare con Alessio Natalizia dopo che hai ascoltato L’abbraccio di Cosmo, una canzone che ha un bellissimo rimando all’antica tradizione cantautorale italiana e arriva da un artista che solitamente ci fa ballare con la cassa dritta.
Esattamente. Io penso che il disco di Cosmo, Sulle ali del cavallo bianco, sia in assoluto il più bel disco di pop italiano dell’anno. Sono orgogliosissimo di aver trovato Alessio e anche del modo in cui me lo sono andato a “cercare”. Ho attraversato le nebbie della Pianura Padana per andare a vedere un live di Cosmo a Padova, per incontrare loro due e fargli i complimenti per il lavoro che hanno fatto per Sulle ali del cavallo bianco e per vederli insieme sul palco. Siamo finiti a parlare per ore insieme come vecchi amici e collaborare. Lavorare fianco a fianco con Natalizia è sembrata la conseguenza più naturale. Alessio ha assorbito un certo mondo dell’avanguardia, anche un poco fricchettona, dell’elettronica ma è assolutamente fresco nel suo modo di essere produttore.
Ricordo che una delle cose che mi impressionò maggiormente nella mia intervista con Cosmo era il fatto che lui e Alessio trovavano che ci sia una certa mancanza di coraggio in giro, si lavora troppo con le reference, per derivazioni, non si sperimenta nel pop.
Il vero momento in cui tu ti rendi conto che stai facendo davvero un buon album, non è quando te la meni su come fare una hit. Ma quando ti butti nella vita e vai a prenderti quello che senti dentro di te e poi ti confronti con persone che seguono la tua stessa frequenza d’onda. Così è successo con Alessio Natalizia. Sono certo che lavoreremo ancora insieme, anzi, faremo un disco assieme.
Ma mi sa che questo tuo atteggiamento “caldo” di andarti a trovare i feat, anzi parliamo di collaboratori, di veri ospiti, per evitare l’accezione che oggi la parola feat sottende, è accaduto anche con i Meduza. Io ho sentito Mattia, Luca e Simone e mi hanno detto che è stato incredibile il tuo modo di approcciarsi. Non solo li hai cercati al telefono mentre erano in tour negli USA, ma poi li hai invitati a farsi una bella mangiata a Bologna e solo dopo ore di chiacchiere tu hai proposto il brano da fare assieme.
Tutto vero! Il mio cuore è già tuo è un brano che possiede “un inquietudine perenne”. Nasce da una paranoia amorosa, a proposito di incantesimi e fantasmi di cui parlavamo prima! E anche armonicamente usa solo quattro note e sta lì. Pensavo che avesse un qualcosa che richiamava una certa deep house, una certa musica da club per cui io quando ero ragazzo negli anni ’90 impazzivo e che magari, semplificandola e riaggiornandola con le persone giuste, fosse divertente da proporre alle nuove generazioni.
Questa riproposizione in chiave moderna era perfetta se fatta dai Meduza, una delle nostre punte di diamante di una scena dance italiana che sempre propone nomi che sanno imporsi all’estero. Mattia, Luca e Simone sono dei ragazzi meravigliosi e io vado orgoglioso di essere diventato loro amico e ringrazio loro che mi hanno permesso di aggiungere un colore nuovo ad Alaska Baby.
Senti, chiudo il discorso canzoni del disco dicendoti che mi diverte tantissimo Limoni. La preservo per la mia prossima playlist estiva.
Nella melodia c’è un po’ di un po’ di Prince, un po’ di Dalla, e soprattutto c’era questa voglia di fare qualcosa in stile Mauro Malavasi, un grandissimo produttore anche di dance che ha lavorato anche con Dalla. E poi in Limoni mi piaceva raccontare la storia di una città, Bologna, in cui il Sud è parte integrante della sua cultura. Bologna è la Napoli, la Puglia del Nord, è una città inclusiva, sporca e vivace, goliardica, piena di universitari che scoppiano dentro questa città che non riesci più a tenerli. È una città di vinerie, di osterie, è una città che si sporca continuamente le labbra di vino, e che ama l’incontro e la convivialità.
Secondo me la giusta metafora di quello che dovrebbe essere in parte il nostro Paese. Ma ti faccio un’ultima domanda che prende spunto dal tuo bel documentario che presto i lettori potranno vedere. Quando parti per un viaggio nel doc dici che parti sempre preparando una piccola valigia, e si dice che il vero viaggiatore deve partire sempre partire con una piccola valigia. E allora dimmi cosa c’è di fondamentale dentro.
Una macchina fotografica, una t-shirt perché non amo dormire senza. Ma credo che la mia vera valigia, in fin dei conti, sia sempre stata poi la custodia della chitarra che viaggia sempre con me. Soprattutto in particolar modo per questo viaggio che vedrete del documentario. Se in questo frangente avessi perso la mia valigia con la mia roba, sarei andato avanti. Ma se avessi smarrito la mia chitarra, sarei tornato indietro.