Charlie Charles: «Avevo perso la motivazione, “La bella confusione” è la mia ribellione»
Il bilancio degli ultimi 10 anni, la perdita e la paura, la capacità di ridiscutere e di rimettersi in discussione: il producer che nel 2016 ha riscritto le regole del rap italiano ha trovato un ordine nella sua “bella confusione”
Charlie Charles (foto Enea Colombi)
Se dovessimo usare una sola parola per riassumere La bella confusione, il primo disco di Charlie Charles, sarebbe umanità: quella di cui Paolo Monachetti parla quando in questa intervista racconta di come gli artisti che ha scelto gli fossero umanamente vicini – tra conferme, scoperte e riscoperte -, quella che gli artisti hanno tirato fuori nelle tracce, facendo una cosa preziosissima: mettere le loro storie per parlare anche un po’ di quella di Paolo.
Quella che ha Charlie stesso quando parla del suo progetto: non come chi sta presentando un disco, ma come chi riconsegna un pezzo di sé che aveva lasciato indietro e che ora è pronto a riprendersi e mostrare a tutti in tutta la sua verità. In questi anni ha attraversato la tempesta e il silenzio, gli strascichi di un successo vissuto come trauma e la sensazione di chiedersi che senso ha un sogno quando diventa realtà. Ha surfato la vita – come dice lui – fino a ritrovare un equilibrio nuovo, fragile, prezioso, come quello che lo raffigura sulla copertina del disco.
Come tutte le cose importanti e liberatorie, il punto di partenza sono state una crisi e una perdita: di motivazione, di senso, quasi di sé. Da lì il lavoro lento, ostinato, sartoriale, durato cinque lunghi anni in cui La bella confusione è stato tante cose: studiare il pianoforte, cambiare il proprio studio, andare in terapia. Mentre tutti lo guardavano come il gamechanger per eccellenza, lui guardava altrove: a ritrovare Paolo, l’uomo che torna a parlarsi con il bambino che è stato, e che presto diventerà padre.
E in questo disco c’è tutto, anche la sorpresa di un brano con Sfera Ebbasta, nato da un dubbio e finito per diventare una nuova lezione: l’importanza del ridiscutere le nostre convinzioni. La bella confusione è un album che si rifiuta di inseguire classifiche: sceglie un’altra metrica, più umana, per l’appunto. È il gesto di ribellione di chi avrebbe potuto continuare a vincere facile, e invece ha deciso di capirsi. E non c’è cosa più complessa.
L’intervista a Charlie Charles
Non hai messo subito la faccia in questo disco.
No, ma è stata una scelta. Da un lato, poeticamente, mi piaceva proprio l’idea che fosse la musica a parlare, e credo che una spiegazione più esplicita arrivi poi all’interno del disco, che alla fine è un po’ il dialogo con la mia anima, col me bambino. Questo album è stato una prova nei miei confronti: in questi sei anni ho dovuto reagire a tutto ciò che la vita mi metteva di fronte. E questa è solo un’altra cosa a cui sto reagendo. Penso di saperci surfare bene, ormai, in questa condizione.
Due concetti che mi sembra emergano sono la perdita e la paura: perdere te stesso, i tuoi sogni, la paura di non ritrovarti. C’è stato un momento preciso in cui hai sentito di aver perso queste cose?
Sì, è successo verso il 2019, paradossalmente anche un po’ l’apice della mia carriera da produttore. Quel periodo mi ha sbattuto di fronte la verità, o almeno quella che a me sembrava la mia verità. Tutto stava prendendo una piega da “uomo d’ufficio”, da timbro del cartellino: “questa cosa la devo fare così”, senza più stimolo, senza più qualcosa per cui valesse la pena lottare o sognare. Penso che di artistico ci sia poco in una visione di questo tipo. È lì che è nata la crisi, o almeno il dubbio: “Ma perché lo sto facendo?”, mi chiedevo. Quando sei un ragazzino hai un sogno, un’ambizione: quella è la benzina che ti alimenta. Ma poi, a un certo punto, ce la fai. E ritrovare la motivazione è più difficile che trovarla la prima volta.
Certo, dici: “Sono arrivato al massimo, più di questo cosa c’è?”
Esatto, ma non è un percorso verticale: prima la vedevo così, invece ho capito che è una cosa molto più orizzontale. Ritrovare la motivazione dopo che ce l’hai fatta è il vero successo. Puoi farcela per caso, per fortuna o perché sei bravo. Ma poi: per quale motivo resti?
E tu in che modo hai ritrovato questa motivazione?
Attraverso tanti percorsi paralleli. Mi sono detto: voglio saperne di più. Ho iniziato a studiare pianoforte, composizione e armonia. Poi ho pensato: voglio conoscermi meglio, e ho iniziato ad andare in terapia. Ho fatto uno studio nuovo, all’avanguardia, con strumenti reali, suonabili. Per me era una rivoluzione: avevo sempre usato solo il computer. C’è stato un cambio radicale che mi ha dato una visione totalmente diversa.
Hai mai pensato di aver raggiunto troppo in troppo poco tempo?
Sì e no. Penso sia arrivato nel modo giusto, ma per me il successo, in sé, è un trauma. Che arrivi tutto subito o gradualmente, cambia poco: se non hai consapevolezza, lo subisci. Se non hai gli strumenti per reagire, è un trauma che si somma agli altri della vita. Se sei in un certo modo, il successo amplifica quella parte di te.
Ascoltando il disco, ho avuto la sensazione che prima di arrivare a questa forma ci siano stati tanti dischi diversi.
È vero. Ho provato più volte a farlo, ma non mi convinceva mai. Avevo perso la motivazione, poi la ritrovavo, poi di nuovo la perdevo.
Da quanto tempo ci lavoravi?
Cinque anni, quasi. Prima ancora di Obladi Oblada, che era stato un ritorno in un momento in cui non volevo fare un disco.
Cos’è che ti aveva bloccato?
In quel periodo ero reduce da una forte depressione. Pensavo che la cura non fosse lì: non avevo bisogno di fare un disco, ma di vivere più leggero. Mi mettevo troppe pressioni addosso. Ho detto: “Forse non lo devo fare, e basta”. Non per debolezza, ma perché non mi stava facendo bene.
Sentivi più il peso delle tue aspettative o di quelle esterne?
Ti dico la verità: quelle esterne non le vivo. Sto sempre in studio, non vedo nessuno. E poi, le voci nella mia testa sono sempre peggiori di qualsiasi commento esterno.
Secondo te, il pubblico aveva aspettative diverse su questo album, vedendo di nuovo Charlie e Sfera insieme?
Sì, ma ne eravamo consapevoli. Sapevamo che ci sarebbe stata una certa reazione, ma è proprio questo che rende il disco coraggioso: nulla è casuale, è tutto voluto. Non bastava a farmi ricredere rispetto a qualcosa che sento totalmente mia, sincera, onesta.
E si percepisce, anche perché sei riuscito a tirare fuori la parte più intima degli artisti, cosa rara in un producer album. Hai creato pezzi sartoriali che magari un artista avrebbe tenuto per sé, per la loro intensità. Come avete lavorato a questi brani?
Principalmente insieme. Era un progetto che esigeva confronto e apertura reciproca. Questo ha permesso loro di fare quello che hanno fatto: brani molto personali. È una cosa che esce di pancia, non è frutto di ragionamento: è ciò che l’altro ti tira fuori. Forse questa è stata la mia dote: avere sensibilità ed empatia nel capire l’altro, anche musicalmente.
Qual è stato il brano che ti ha stupito di più o con la genesi più travagliata?
Ti direi quello con Sfera. Non nasceva come brano suo, ma di Geolier, che poi me lo ha ceduto. Avevo idealizzato questo disco e forse non volevo che ci fosse Sfera. Un po’ per partito preso, un po’ perché pensavo che – essendo un disco che racconta di me in questo momento e essendo Sfera una persona a cui voglio bene ma che adesso umanamente non è vicina a me -, non fosse disposto a tirar fuori un lato che in qualche modo parlasse anche di me. Sono rimasto sempre molto saldo in questi anni rispetto a questa posizione, ma questo disco mi ha dato l’ennesima lezione.
Cioè?
Ridiscutere. Lui ha accolto di reinterpretare il brano ed eccoci qui. Sì, la storia più travagliata è stata questa, ma devo dire anche quella più romantica perché ha permesso a Sfera di esserci. Nonostante tutti lui rimane una parte importante del mio racconto e della mia storia.
Una storia che dura da quasi 10 anni ormai. Qual è il tuo bilancio di tutto questo tempo?
Bella domanda.
Senti un po’ la responsabilità di aver creato qualcosa di grande, di essere stato un game changer?
No. Ci ho pensato, ma non me ne frega niente.
Davvero?
Davvero. Mi sento una persona normale che ha fatto cose normali. Capisco che da fuori sembri diverso, ma per me è così. Io sono uno che esce alle due di notte in bici con le cuffie: voglio essere normale.
C’è un brano con un dialogo con il te bambino. Che nostalgia hai di quel Paolo?
Sicuramente la spensieratezza, la leggerezza. È quella che ti dà l’estro vero, la benzina iniziale. Crescendo la consapevolezza è fondamentale, ma credo anche nella consapevolezza inconsapevole del bambino, che fa cose giuste perché le sente. È la magia di essere bambini. La bramo tanto, anche perché tra poco diventerò padre. Spero di essere un buon padre-bambino. Voglio riuscire a comunicare con lui, non vivere la distanza genitore-figlio.
Qual è il brano con cui hai capito che La bella confusione era finito ed era pronto per uscire?
L’ultimo, quello con Nayt. È stato proprio l’ultimo brano che abbiamo fatto. Ci siamo conosciuti in studio. Avevo ascoltato molto la sua musica e ho capito che era una persona che poteva dire tanto di me. Mi sono trovato molto bene con lui, umanamente vicino.
Prima parlavi di lezioni che ti ha dato questo disco: qual è la più importante?
Che è fondamentale essere se stessi, anche quando sembra tutto sbagliato. In questi anni mi sono spesso sentito così, ma la gioia vera arriva solo se ti metti a nudo. Accogliere quella sensazione di diversità, invece di respingerla, e trasformarla in qualcosa che ti rappresenti. Accoglierla, anche se ti fa male, è catartico. Ti libera. Questo disco, in fondo, è la mia redenzione.
In che senso?
La bella confusione è un album che non si può misurare coi metronomi attuali che guardano solo a come un disco entra in classifica. Questo progetto parla proprio un altro linguaggio, da come è stato promosso a come è stato presentato. E penso che le gratificazioni arriveranno da luoghi e persone inaspettati. Non credo lo troverò al numero 1 su Spotify.
È un disco radicale?
È un disco di ribellione, per quanto dalle sonorità pacifiche cioè: è una presa di posizione netta, un altro nella mia posizione non l’avrebbe fatto. Non nascono che sia stato un incubo, però adesso mi sento un figo.
