Charlie Rapino: «Il futuro è arrivato, necessaria una concertazione di tutte le industrie creative»
Una conversazione a tutto tondo con il produttore e discografico, dal successo mainstream con i Take That al recente coinvolgimento in Artist First
Un professionista della musica come Charlie Rapino ha visto da vicino tutte le evoluzioni della musica, in senso sia artistico che tecnologico, degli ultimi quarant’anni.
Dopo un periodo come produttore di house music in un periodo in cui la house italiana era molto richiesta all’estero, la sua buona stella sorge con i Take That, di cui produce i primi successi. Dopo l’esperienza col pop mainstream, la sua carriera prosegue poi come discografico, occupando varie posizioni di rilievo fra Sony Music e Universal Music.
Oggi Charlie Rapino è un imprenditore musicale a tutto tondo e divide il suo tempo fra consulenze, consigli d’amministrazione di società di sviluppo del metaverso e l’attività al fianco di Claudio Ferrante in Artist First, dove è vicepresidente e responsabile dell’A&R, ruolo che ha accettato con piacere perché «quello che dovevo fare nell’industria discografica l’ho fatto. E a un certo punto devi restituire quello che hai preso».
Abbiamo intercettato Charlie Rapino per una lunga conversazione fra passato, presente e futuro della discografia. «Sempre che la discografia esista ancora».
L’intervista a Charlie Rapino
Quali sono stati i tuoi primi passi nella musica? Immagino che tu abbia cominciato nella scena emiliana di fine anni ’70.
Sì, ero il classico spiantato degli anni ’70. Eravamo una generazione che voleva prendersi a tutti i costi il cosiddetto “pezzo di carta”, cosa che oggi sta avendo ripercussioni spaventosi sulla società, perché hai milioni di laureati ma un operaio specializzato non lo trovi neanche pagandolo a peso d’oro.
Studiavo legge e mi ritrovai nella scena intorno a Oderso Rubini. Presto sono andato all’estero. Andai per un po’ in America, in Ohio, per poi finire a New York nel 1986, dove feci il custode al Record Plant e l’assistente di un’editrice. Bazzicavo, insomma.
Da New York tornai a Bologna e lì incontrai la persona che è stata la persona più importante della mia carriera, Marco Sabiu, con cui fondai un duo di produzione. Producevamo in particolare musica house.
Poi finimmo a Londra. Perché in quel momento i DJ inglesi suonavano la tanto discussa house italiana. La discografia ufficiale di allora non teneva in considerazione quel mondo, che era soprattutto indipendente (con etichette come la Discomagic Records di Severo Lombardoni e l’Italian Records di Giovanni Natali).
Attraverso amici come il batterista dei Culture Club e il manager di Tony Visconti finimmo a fare i dischi lì. Un’amica, Francesca Nesi, era un’agente di DJ che ci aiutò molto a entrare in quel circuito. Facemmo dischi di successo e da lì finimmo a produrre i Take That.
Esattamente come siete arrivati ad essere coinvolti nel progetto Take That?
Fummo chiamati in RCA, che distribuiva i nostri dischi attraverso la Deconstruction Records. C’era un ragazzo molto giovane, Mike McCormack, che oggi è a capo di Universal Music Publishing UK e allora era managing director di RCA. Ci disse che aveva in ballo questo gruppo e ci chiese cosa avremmo potuto fare.
Avevamo sempre detto: “Dateci quello che non vi funziona”. Perché un conto è fare un disco degli Eurythmics, un altro è portare al successo un progetto che non è sotto l’attenzione del pubblico. Bisogna sempre scommettere su uno che non sta andando.
Noi ri-producemmo un pezzo, Could It Be Magic, che andò subito nei primi posti in classifica. Il gruppo aveva già tutto, aveva già la sua “piattaforma”, la sua fanbase. Ci sono tre step in quest’industria: se l’artista è una star, se ha delle hit, se c’è una piattaforma con cui lanciarlo. E questo vale ancora oggi, con o senza Spotify. Loro erano già indubbiamente delle star.
Quindi uscimmo con il disco giusto, che ci catapultò nel pop britannico anni ’90. Fummo dietro a molte hit, come What Is Love di Haddaway e The Rhythm of the Night di Corona, di cui facemmo la versione UK. Eravamo dei produttori addizionali, dei remixer, che allora erano molto ricercati. C’era stato un forte ricambio all’interno della produzione artistica.
Eravamo dei ragazzi che avevano ricevuto altre influenze, soprattutto dall’elettronica. A livello artistico i miei Beatles sono stati i Kraftwerk. Avevamo molta più dimestichezza con la tecnologia, quindi col passaggio dalla registrazione analogica a quella digitale e le relative possibilità di editing. Quindi ero un produttore di studio che poi ha iniziato un cammino da executive nelle multinazionali.
Dall’epoca dei Take That in avanti, le boy band sono tornate a più ondate nel panorama mainstream. Come mai si tratta di un formato duro a morire?
Non lo so, ma posso risponderti con una domanda. Secondo te i Måneskin sono una boy band?
Spesso si dice che anche i Beatles in fondo erano una boy band, quindi probabilmente sì.
È tutto una boy band. Il rapporto è sempre lo stesso. La nostra “core audience”, le persone che si affezionano al prodotto discografico, alla fine sono ragazzini e ragazzine di 17 anni. Quindi c’è un fil rouge che unisce i Fab Four ai Rolling Stones ai Led Zeppelin a Michael Jackson a Robbie Williams a Harry Styles, e ai Måneskin.
Sotto alcuni aspetti, Damiano David è il nuovo Harry Styles o il nuovo Robbie Williams. È la star. Poi puoi discutere sul linguaggio musicale che usano. Ma non c’è differenza fra Justin Bieber e Damiano. Anche se usano linguaggi diversi, sono destinati allo stesso pubblico.
In Artist First c’è un nuovo dipartimento che si occuperà dello sviluppo internazionale di progetti italiani. Ci puoi spiegare meglio il progetto? E oggi, oltre ai Måneskin, vedi artisti che potrebbero sfondare sul mercato internazionale?
Io e Claudio ci siamo posti una domanda: dove andiamo? In Artist First non c’è quel luogo comune della creazione estemporanea. È quello che dovrebbe essere una casa discografica oggi: un menù di servizi. Stiamo cercando di fuggire dal luogo comune che siamo dei distributori, perché è una cosa che non ha più senso. La struttura Artist First per i nostri partner è una struttura di servizi.
Noi adesso abbiamo un grande successo con Alfa, che sulla piattaforma di Fuga è il quinto artista più streammato a livello globale. Qual è stato il giusto connubio? È stato il featuring con Rosa Linn? Oggi i pezzi di Alfa vengono scritti con songwriter a Los Angeles.
La mera distribuzione nel senso di logistica oggi è uguale per tutti. Il nostro modello è la Island di Chris Blackwell, che era sia etichetta che distributore.
Oggi nel jukebox globale tutti hanno la possibilità di sfondare a livello internazionale, anche cantando nella propria lingua. O viceversa. Un’artista inglese, Sans Soucis, ha usato i nostri servizi. Siamo riusciti a portarla sul billboard di Times Square. Grazie al lavoro fatto da Artist First, ora lei può permettersi di aprire altri mercati. Artist First non è sul pezzo: è il pezzo. Per ogni artista che gestiamo c’è una strategia differente. È ingegneria, è technè.
Volgendo invece lo sguardo al futuro, ti sottopongo due temi: metaverso e intelligenza artificiale. Tu sei membro del board di una società che opera sul metaverso, e per quanto riguarda l’AI tu hai una posizione non pregiudizialmente contraria alla sua applicazione.
Probabilmente metaverso e intelligenza artificiale andranno a braccetto. Penso che la risposta arriverà dalla persona che ha cambiato i termini del gioco, che è una persona che viene dalla vecchia discografia e la conosciamo tutti: si chiama Lucian Grainge (CEO di Universal Music Group, ndr). In questo momento è l’uomo che riesce a fare la differenza.
Tutti diciamo che Spotify ha cambiato la discografia. Assolutamente no: chi l’ha cambiata è stato Grainge, che quando ha visto Spotify ha detto “Ah, adesso sì”.
L’AI e il metaverso sono un treno che sta arrivando. Noi siamo una stazione in mezzo. Dobbiamo decidere se vogliamo far fermare il treno alla nostra stazione o lasciarlo passare. Secondo me il futuro è arrivato. E non è una cosa che riguarda solo l’industria musicale. C’è bisogno di una concertazione di tutte le industrie creative e dei media che al momento non vedo. Se fossi nei panni del ministro della Cultura mi occuperei di questo.