Davide Shorty, animo “fusion.”, «Il concetto è semplice: siamo complessi»
Dopo l’intensa esperienza fra le Nuove Proposte di Sanremo 2021, il talentuoso cantautore pubblica il nuovo album in studio: una celebrazione della diversità e di una libertà che non ha bisogno di etichette
Per il grande pubblico italiano lui è il ragazzo dalla chioma abbondante che ha calcato il palco dell’Ariston fra le Nuove Proposte di Sanremo 2021 (facendo scorpacciata di premi, peraltro: Premio della Sala Stampa Lucio Dalla, Premio Enzo Jannacci NuovoImaie 2021, Premio Lunezia per il valore musical-letterario). Ma l’avventura musicale di Davide Shorty – ormai fra i principali riferimenti italiani per l’approccio di matrice R&B, soul e jazz contaminato col rap – parte da molto lontano: il periodo trascorso a Londra, una partecipazione a X Factor, le collaborazioni a livello anche internazionale.
Tutte esperienze che hanno dato forma all’artista che è oggi: una fusion., appunto, come viene sintetizzato nel titolo del suo nuovo album disponibile dal 30 aprile. Con quel punto fermo che sembra sin dall’inizio una dichiarazione d’intenti. Abbiamo conversato con lui per dipanare la matassa di ispirazioni e riferimenti che uno sguardo artistico orgogliosamente “complesso” per natura si porta con sé.
Il titolo dell’album, fusion., con quel punto fermo alla fine, suona quasi come uno “statement”, un manifesto programmatico, in un panorama musicale spesso appiattito su formule precotte.
Io faccio la mia musica a prescindere da quello che fanno gli altri. C’è musica che mi ispira e musica che non ascolto. Penso che sia spontaneo per me esprimere sinceramente quello che sono, che è una fusione di tanti elementi: di generi musicali, di lingue, di sentimenti, di culture, di luoghi (ho vissuto a Londra, Milano, Bologna, Torino, Roma, assorbendo un po’ di ciascun posto). Sì, io sono fusion!
Nell’album troviamo collaborazioni molto variegate, da Amir Issaa a Roy Paci. Il tuo approccio è sempre molto collaborativo: in che modo fusion. si è aperto all’incontro con gli altri?
È stato tutto molto naturale. All’inizio volevo fare un disco con al massimo una o due collaborazioni. Io sono sempre molto attento a quelli che mi piace chiamare “segni dell’universo”. Mi è capitato spesso di incontrare delle persone in momenti particolari. Quando mi sono trovato a lavorare sui pezzi, quelle persone mi venivano in mente o mi scrivevano, per cui ho deciso di assecondare quei “segnali”. Nel tempo ho imparato che più li ascolti, più fai caso alla sincronicità, più essa comincia ad avvenire. In questo ho un’ottica abbastanza spirituale. Quando c’è questo tipo di connessione, sono incentivato a collaborare.
fusion. ha un animo in parte intimista e riflessivo, in parte schiettamente politico. Come nel caso di Tuttoporto, nel cui testo non usi mezzi termini.
Proprio no… (ride, ndr) Ogni volta che scrivo qualcosa è principalmente per terapia. Quando una cosa mi fa arrabbiare o mi fa pensare, sento di doverne scrivere. Per me scrivere le canzoni è come fare un diario, che è proprio quello che si fa spesso in psicoterapia. Utilizzo un linguaggio in cui a volte magari mi capisco solo io, altre volte mi capiscono in tanti. Quando questo linguaggio viene compreso e va in empatia con gli altri, questa per me è una terapia. È la bellezza della musica.
Non Respiro si rifà sin dal titolo alla vicenda di George Floyd, collegandosi però anche alla realtà italiana perché viene citato il nome di Soumaila Sacko: neanche noi siamo innocenti, quindi.
Certamente. Nessuno di noi è innocente. Tutti possiamo essere razzisti e dire cose razziste, anche senza rendercene conto. Perché viviamo in un sistema che è il prodotto del colonialismo. Un esempio banalissimo: quando tu vai al minimarket lo chiami “bangla” o “paki”, che sono appellativi fondamentalmente razzisti. Se il gestore è bianco, dici che vai dal “romanaccio”? Per me è importante decostruire tutti quegli elementi che il colonialismo e tutti i suoi echi hanno creato nella società.
Da persona bianca italiana, quindi privilegiata, devo usare questo privilegio per ribilanciare le cose. E in Italia sicuramente abbiamo dei problemi di fondo. La Rai ha finalmente vietato il blackface. Io ho commentato sui social e un sacco di persone hanno risposto dicendo cose come: “Se devono imitare Ghali, si devono dipingere di verde?”. No, semplicemente trovate una persona nera o mulatta. Non è che non abbiamo afro-italiani talentuosi e capaci, è che quelle persone non hanno una rappresentanza. Le seconde generazioni in questo momento sono invisibili.
In generale il jazz contemporaneo si sposa spesso con una sensibilità sociale e politica molto vivace: Nubiyan Twist, Alfa Mist, Oscar Jerome… Come mai ciò avviene proprio con questo genere musicale più che in altri?
La denuncia sociale si sposa molto bene con tutto ciò che viene dal jazz, che a sua volta viene dal blues, una musica di rivalsa o comunque di riflesso di una certa situazione. Il jazz quindi si presta alla complessità. Essendo totalmente libero, senza paletti, ti dà modo di spaziare e trovare il linguaggio che più ti soddisfa per esprimere un determinato concetto, magari appunto di denuncia sociale. In molte interviste Nina Simone ha detto che il ruolo di un artista è quello di riflettere i propri tempi. Spesso i ragazzi pensano al jazz immaginandosi i jazz club e la gente in giacca e cravatta. Ma il jazz non è quello. Se vai a un jazz festival, trovi i The Roots, Erykah Badu, Tom Misch… Il jazz è un modo di fare musica popolare, come anche il soul.
In una recente intervista, Ghemon mi ha detto: “Se oggi le più grandi star mondiali sono Rihanna, Beyoncé, Kanye West, Kendrick Lamar, Jay-Z, allora è importante portare anche queste sfumature al pubblico. Per far capire che la musica italiana è diventata una cosa molto sfaccettata”. Sottoscrivi questo pensiero?
Viviamo in un mondo tecnologico in cui i collegamenti sono più semplici, dove tutto è vicino e a portata di mano. Quindi c’è commistione di generi e di idee, e del resto la nostra stessa etnia è sempre più mista. La bellezza del nostro mondo è proprio la sua varietà. Non si può andare a semplificare tutto. Il concetto è semplice: siamo complessi. Bisogna accettare questa complessità, è davanti a noi.
Ghemon – peraltro siamo amici da tanto tempo – ha assolutamente ragione. Spero che in Italia le persone che hanno i canali per diffondere questo tipo di musica e farla diventare popolare – come accadde per Pino Daniele ai suoi tempi – diano spazio a queste voci. L’unica popstar in Italia che è etnicamente mista è Elodie. È assurdo: non mancano cantanti nere forti, per esempio, ma semplicemente non gli si dà spazio. Bisogna far capire alle persone che il mondo è più libero di quello che ci fanno pensare.