Interviste

Delicatoni, Human After All

Oggi esce “Delicatronic”, il primo vero album in studio della band vicentina. Strepitosi polistrumentisti, voraci conoscitori di ogni genere musicale, i quattro ragazzi ci regalano last minute uno dei dischi più belli made in Italy

Autore Tommaso Toma
  • Il20 Dicembre 2024
Delicatoni, Human After All

Foto di Alessandro Timpanaro

I Delicatoni sono ragazzi dalla faccia pulita, appassionati di strumenti analogici e digitali, abili musicisti, affabulatori dal piglio leggero e ironico, onnivori di generi e sottogeneri musicali; ma sono soprattutto una delle band più strepitose in giro per l’Italia. Se vi è capitato di vederli dal vivo – sono stati ospiti della nostra serata della Milano Music Week fuori circuito con The Orchard – sapete già di cosa stiamo parlando. Il loro live set sembra accadere dentro uno studio di registrazione: strumenti a fiato, diversi synth, bassi, chitarre, un Omnichord e tutto intorno polipi di cavi che s’intrecciano. Poi ci sono le loro voci: tutti e quattro cantano, sembrano una squadra di calcio che gioca di prima, sempre. Si ha l’impressione di assistere a una jam session, ma in realtà tutto è metronomicamente oliato e irresistibile.

Il viaggio sonoro dei Delicatoni era iniziato nel 2020, da Vicenza, con il grazioso EP Margherita che, sin dal primo ascolto, ha fatto emergere una certa personalità dei quattro nel saper comporre, con un gusto leggermente jazzy. Delicatoni 20-24 è stato poi il loro primo progetto più lungo, un lavoro di assemblaggio delle loro tracce uscite in quel quadriennio e dalle influenze più svariate – dal synth pop alla disco vellutata. Adesso è il turno del loro vero primo lavoro in studio, Delicatronic dove i quattro ragazzi del collettivo hanno scelto di approfondire maggiormente la loro curiosità verso la club music e la pc-music, senza perdere però la loro sensibilità pop raffinatissima. Abbiamo incontrato tutti i Delicatoni – Antonio Bettini, Milian Jack Cibic, Giorgio Manzardo e Claudio Murru – negli spazi di Agenzia Simpatia, sprofondati su un divano per proteggerci dal freddo di una giornata di metà dicembre meneghina.

Foto di Alessandro Timpanaro

L’intervista ai Delicatoni

Siete una band duttile nelle sonorità e derivazioni di genere, grazie anche al fatto che voi quattro siete degli ottimi musicisti. La cosa che mi colpisce di più è lo spazio che date alle vostre voci, alternandovi al canto. Vi considero un gruppo polifonico, che ne pensate?
Giorgio Manzardo: Vero! E nel nuovo album hanno cantato tutti… tranne io (ride, ndr)!

Ian Cibic: Anzi, credo che questo processo di voler essere tutti un po’ presenti con la voce stia succedendo sempre di più. E probabilmente il cantare è anche un modo di far emergere, come dici tu, la personalità o sensibilità di ciascuno.

Claudio Murru: Puoi intendere questo fatto della polifonia come una sorta di nostra necessità. Sai, lo avrai forse notato, ma noi non abbiamo una sezione ritmica, un batterista. Quindi, per poter rendere la musica meno statica e meno “ferma”, usiamo tutti gli strumenti che sappiamo suonare per fare melodie e armonie in progressione. Apprezziamo molto il fatto che si possa notare questa cosa, perché è un nostro obiettivo rendere tutti noi importanti ed equivalenti.

GM: Ma per sopperire al fatto che non canto in Delicatronic, adesso stiamo pensando a nuove tracce dove io sarò il protagonista assoluto (ride, ndr).

Però in questo album la ritmica è molto importante!
Antonio Bettini: Siamo tutti anche figli dei beats elettronici, della PC music, della musica fatta con il computer in cameretta. Io e Ian soprattutto ci siamo appassionati alle drum machine. Ci sono persone che pensano che la computer music non abbia un’anima perché è digitale. Invece è sinonimo di frenesia, dell’andare veloci perché tutto è accessibile rapidamente, come i nostri messaggi sul telefonino come i pacchi che ordiniamo in rete. Abbiamo pensato a tutto questo mentre davamo forma al nostro disco.

IC: Quando abbiamo iniziato a fare musica nelle nostre camerette sfruttavamo Ableton e tutti quei software che potevamo imparare a usare durante il liceo nel tempo libero. Ma l’attitudine era quella di sfornare continuamente dei loop, delle idee slegate. Pensavamo “per sezioni” e provavamo a mischiare. Era una mentalità compositiva più simile a un gioco. Una volta messo in piedi i Delicatoni abbiamo cominciato a scrivere canzoni con quel processo, cercando melodie e elaborando le canzoni con un certo lasso di tempo. Quando siamo andati a fare più di un anno fa la nostra residenza alla Casa degli Artisti, ci siamo detti: “Come procediamo per scrivere delle canzoni in modo che siano quasi pronte per essere suonate dal vivo?”. Ed è stato come tornare un po’ agli inizi, ai beat e ai loop. Per un certo verso siamo stati più minimali.

GM: Siamo in una fase nuova della nostra vita. Stiamo cercando finalmente di essere autonomi, quando suoniamo dal vivo, senza la sezione ritmica che spesso ci accompagna che sono poi amici a cui vogliamo un sacco di bene come Piero Pederzolli, Leonardo Ziche e Andrea Moro. Quando ci sono loro, ci sentiamo protetti. Ma è anche arrivato il momento di andare avanti in questo momento da soli, noi quattro, almeno fino all’estate, dove torneremo assieme alla nostra sezione ritmica.

Voi create un sacco di energia dal vivo, è interessante vedere nel vostro pubblico dei ventenni che rimangono concentrati e anche affascinati dai vostri movimenti in mezzo alla vostra ricchissima strumentazione.
GM: Ci piace farlo e vogliamo che il nostro pubblico dica: “Wow!”. Ma avrai capito che non siamo degli integralisti tout court, anche se il nostro suono è organico. Ringraziamo per questo anche il nostro fonico Giacomo, che fa sempre un ottimo lavoro.

IC: Ricordo che noi abbiamo, proprio per il fatto che siamo senza gli altri nostri amici musicisti, una sorta di “polipo digitale” che è il nostro sequencer che moduliamo con la nostra sensibilità.

Foto di Alessandro Timpanaro

Ma è vero che il vostro nome, Delicatoni, deriva dalle praline scandinave?
AB: Si! Le Delicatoboll del sud della Svezia, in Scania, le ho conosciute mentre costruivo una casa da quelle parti!

Hai “costruito una casa”? Ecco, penso che un uomo si possa definire un “vero uomo” se costruisce una casa!
AB: (Ride, ndr) E l’ho fatto a mani nude, con l’argilla, seguendo un antico metodo con un artista contemporaneo! Ed eravamo tutti nudi!

Doppiamente “vero uomo”!
IC: Io invece in quel periodo stavo semplicemente sfornando pizze in un ostello e mi sparavo un sacco di film del periodo della Dolce Vita di Fellini. Mi piaceva l’assonanza con il termine “I Vitelloni”! Poi succede che se una ragazza straniera sente il nostro nome, poi lo storpia chiamandoci “The Rigatoni”…

Parliamo dei brani, mi piace molto La Stessa Cosa Insieme. Fondamentale per la produzione e l’arrangiamento la collaborazione con Nice Elevator, che non conosco bene.
IC: Charlie Shine (Nice Elevator, ndr) è un mio amico d’infanzia che è stato presente durante la nostra residenza alla Casa degli Artisti. Vive a New York e ha dei progetti molto interessanti. Il pezzo nasce da un beat ripetitivo di Giorgio. Poi c’era un testo di Antonio già pronto e alla fine è stata una combinazione perfetta. La Stessa Cosa Insieme è frutto di quei periodi quando lavoriamo tutti assieme in una stanza forse troppo piccola

AB: …e finiamo per puzzare tutti nella stessa maniera (ride, ndr)!

Antonio mi piace molto la tua voce, ha un fondo soul interessante. Quando hai scoperto di avere una bella voce?
AB: Grazie, che bel complimento! Ho iniziato a cantare per voglia di farlo quando ero ancora alle medie. Con una chitarra facevo le canzoni di Paolo Nutini! E poi, conoscendo la PC music, mi sono messo a giocare con la mia voce. Parte del mio timbro forse deriva dal fatto che per metà sono anche sudamericano, cileno.

A proposito di synth modulari c’è un brano che mi piace moltissimo ed è Exercizio che ha questo suono leggermente orientaleggiante.
GM: È una traccia che avevamo in testa da un sacco di tempo e l’abbiamo realizzata con Coquinati che è un amante dei synth modulari e delle macchine analogiche. E gli ha dato proprio una dinamica “super futura”.

AB: Coquinati è stato di recente in Corea del Sud e a Seul e le sue produzioni spaccheranno!

Ah, ecco il tocco orientale!
Giorgio: No, no quello che senti è opera di Ian, che è un grande fan anche di Ryuichi Sakamoto.

E vogliamo parlare di Barbara? Mi pare uno dei brani più ambiziosi con i fiati, un beat ondivago e la chitarra anni 80 a fine brano.
GM: Questo brano è totalmente di Ian, lo aveva chiamato Whisper all’inizio (ride, ndr)

IC: Io vivo a Londra da cinque anni e stare lì ha anche accresciuto una certa tristezza. Forse meglio dire un lato più “blu” della mia musica, con anche un tocco di grigio! E Barbara è nata nel mio appartamento londinese con la complicità del mio coinquilino che si chiama Conrad Morris. Adesso lavora in Parlamento, ma abbiamo fondato insieme un progetto che abbiamo chiamato Spraytan. Barbara alla fine è una canzone d’amore…

GM: …però totalmente dedicata alla nonna di Conrad!

IC: Vero!

Oh no è sublime, con quel suono dell’Omnichord. Ci trovo tanta melodia made in Italy.
IC: Dici? Non lo so, questa è una canzone nata in maniera semplice in una giornata di pioggia con un microfono: un Omnichord e una pedaliera con gli effetti. A me faceva ricordare il sound degli Animal Collective e Panda Bear.

CM: Io invece concordo con te. Io ci sento un “tocco italiano” nella cantabilità della voce. Quando ho pensato all’interazione delle voci nella traccia mi sono immaginato la classica Operetta italiana.

Piccolo gioco finale, visto che nel comunicato stampa del vostro album si recita: “Le canzoni ruotano attorno alla ricerca di mistero, magia e spiritualità, esplorando la connessione tra esperienza umana e mondo digitale”, vi chiedo a ciascuno un evento magico, misterioso e il momento invece, dove vi siete sentiti completamente trascinati, trasportati alla deriva dalla tecnologia.
CM: Il mio momento di magia, che poi è molto legato anche alla scrittura del disco e della canzone Scogliera, è stato un tramonto a Roma, dando le spalle al Vaticano. Stavo cercando un posto dove poter scaricare delle emozioni che erano abbastanza intense in quel momento. Avevo necessità in qualche modo di far esplodere tutto quello che avevo dentro e quale posto migliore al mondo se non quello? Per quanto riguardo il fatto di sentirmi in balia della tecnologia, ecco, proprio quando ho sentito la sensazione che questa togliesse quel lato umano che invece è estremamente fondante del nostro progetto. Comunicare con gli altri membri della band non poteva essere tutto racchiuso in uno smartphone, in un PC, o in un iCloud.

GM: Per me il momento più magico è stato da ragazzino quando iniziai a suonare il sassofono ed ero felice nel passare delle serate, anche fino alle tre di mattina a provare a suonare Kenny Garrett. Mamma mia, quanto ho ballato ed ero felice! In quel momento stavo realizzando il mio sogno. Succede ancora oggi quando suono con i Delicatoni. Invece, il momento di sconforto emerge quando non riesco a gestire tutta quella mole di informazioni e stimoli che la tecnologia ti butta davanti come un’onda, quotidianamente. E allora mi accorgo che l’unico modo di reagire per me è spegnere il cellulare.

IC: Il mio momento magico è disegnare, vorrei fare un giorno il lavoro di animazione. Per adesso lo realizzo ideando quei pupazzi che vedi proiettati ai nostri concerti. Invece, percepisco l’invasività della tecnologia attraverso il suono di tutti quei bip che senti vivendo in una grande città come Londra. Dai bip mentre passi i tornelli della metropolitana a quelli del supermercato.

AC: La cosa negativa è che pensiamo di vivere la vita decentemente, attraverso uno schermo, dai film alla videochiamate con i tuoi amici. Apparentemente sembra tutto misteriosamente bellissimo. Però nonostante la figaggine del mondo tecnologico, quello che ci sfugge veramente di mano sono i nostri sentimenti e anche quelli di chi ci sta accanto.

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