Nel rap italiano c’è un nuovo “Spirito Puro”: l’intervista a Diss Gacha
I “no” costruttivi ricevuti nella sua carriera, la consapevolezza che la musica era la cosa che gli dava davvero gas, la potenza spirituale dell’incontro con Izi, l’importanza di preservare se stessi perché altrimenti «questo lavoro diventerebbe una tortura» e i sogni a cui pensare: abbiamo incontrato il “principe del fonosimbolismo” (parola della Treccani)
Per questa intervista incontriamo Diss Gacha negli uffici della sua etichetta discografica a Milano, ma quello – almeno mentalmente – non è l’unico luogo in cui rimarremo. Gabriele Pastero, rapper della provincia di Torino classe 2001, pubblica oggi il suo nuovo album, Cultura Italiana Pt. 1, un disco (interamente prodotto dal fedele Sala) che nonostante il titolo ha piantato un paio di radici – sonore e non – in qualche angolo sparso del globo, che Diss Gacha sa raccontare con una potenza evocativa fuori dal comune.
Se in un momento siamo nella zona nord della città, infatti, quello dopo siamo negli States – luogo molto caro a Gabriele, il cui rapporto è suggellato dalla collaborazione in Mississipi Drive con Wiz Khalifa -, dove ha vissuto “una delle esperienze spiritualmente più alte” della sua vita insieme a Izi e Vegas Jones, e quello dopo ancora le sue parole ci catapultano nel deserto, lì dove il sole si apre solo per quindici minuti e dove correre e urlare liberandosi dalle inibizioni. Le stesse che Diss Gacha – il cui stile è talmente peculiare da essere incoronato dalla Treccani come “principe del fonosimbolismo” -, sinceramente grato e con un entusiasmo ancora puro, non ha nel raccontarsi. Nemmeno quando parla dei “no” costruttivi che ha ricevuto nella sua ancora giovane carriera (alcuni dei quali proprio per questo nuovo album).
Con lui abbiamo parlato della consapevolezza che la musica era la cosa che gli dava davvero gas, dell’importanza di preservare se stessi perché altrimenti “questo lavoro diventerebbe una tortura”, dei sogni realizzati e quelli a cui pensare perché “il tempo corre così in fretta che a volte non ti ci soffermi nemmeno” e di come ha capito che era arrivato il momento di liberare la parte più intima di sé.
L’intervista a Diss Gacha per il nuovo album “Cultura Italiana Pt. 1”
Credo che questo album stupirà i tuoi ascoltatori, ti sei aperto davvero molto.
Questo è esattamente ciò che volevo fare con questo progetto. Io ho sempre avuto delle cose dentro che forse avevano bisogno di tempo per essere sbloccate. Adesso che so che ci sono delle persone che mi ascoltano realmente, mi sento più libero di scavare in me stesso.
Anche perché forse in questo periodo storico i tuoi coetanei hanno bisogno di musica più introspettiva, di sentirsi ascoltati e rappresentati.
Assolutamente sì, ho notato tantissimo questa cosa perché oggi le canzoni più ascoltate sono quelle più deep. E questo dimostra quanto le persone abbiano bisogno di sentirsi comprese. Esprimere davvero quello che si ha dentro per me è la cosa che ti fa diventare veramente un artista.
E il rap come è entrato nella tua vita?
lo arrivo da una provincia poco fuori Torino e il mio primo ricordo legato al rap è il campetto da calcio dove ci ritrovavamo perché non sapevamo cosa fare. Lì ho conosciuto un ragazzo che faceva musica, che mi ha fatto ascoltare un sacco di rap e con cui ho fatto la mia prima canzone. Da quel momento poi ho continuato e ho conosciuto Sala con cui ho iniziato a fare musica e a lavorare seriamente. Lo switch vero e proprio ce l’ho avuto durante l’ultimo anno di scuola, quando ho iniziato a lavorare consegnando le pizze e mi sono detto “Okay, cosa voglio fare veramente nella mia vita?”. Mi sono fatto dei grossi esami di coscienza e ho capito che la musica era la cosa che mi dava gas.
C’è stato un momento preciso in cui hai capito che la musica era diventato un vero lavoro?
Forse il primo viaggio che abbiamo fatto a Los Angeles, quindi ti parlo proprio di un anno e poco tempo fa. Lì mi sono proprio detto “questo è il mio lavoro adesso”.
Nell’Intro dell’album dici “Una carriera fatta di no fa sì che sarò re e non solo una comparsa”. Hai ricevuto un no che ti ha particolarmente formato?
Tutti quelli che ho ricevuto per questo album.
Cioè?
Chiamare il mio disco Cultura Italiana è sempre stato il mio sogno, ci penso dal 2020, e quindi per un titolo così imponente mi immaginavo di avere dentro un po’ tutti gli artisti italiani top. Quando invece ho iniziato a lavorare all’album mi sono arrivati dei no – ovviamente mai immotivati – tra cui quello di uno dei miei artisti preferiti di sempre. Questa cosa per me è stata molto costruttiva, in primis perché mi ha fatto capire che avere determinati sì ora sarebbe troppo presto, e poi perché mi ha dato la possibilità di fare un progetto che a parer mio è un po’ controcorrente in cui sono riuscito a mettere le persone con cui davvero mi trovo bene nell’industria, con cui c’è davvero un rapporto di amicizia come Rosa Chemical, Izi e Vegas Jones. E secondo me la musica che nasce così è quella che poi rimane alle persone.
E secondo te qual è la traccia di Cultura Italiana Pt. 1 che rimarrà di più alle persone?
Sento che potrebbe essere Spirito puro con Izi e Vegas Jones. Per me è una canzone incredibile, anche strana strutturalmente. Ha un ritornello quasi gospel alla fine, tre strofe che non sono uguali perché quella di Izi è più lunga della mia, quella di Vegas è ancora più lunga di quella di Izi. Quindi è proprio un pezzo dettato da quello che volevamo fare in quel momento e che secondo può rappresentare una bandierina di qualcosa di nuovo in Italia. E poi è nata in un modo particolarissimo.
Come?
Eravamo in America tutti e tre e Stef, il nostro ingegnere del suono, ci ha detto “raga, dovete assolutamente fare una session insieme. Il fatto che siate tutti qui è un segnale”. Io e Vegas eravamo in studio e all’una di notte arriva Izi dicendo “fuori è buio, e noi qui dobbiamo portare della musica che sia luce”. In quel momento è successa una delle cose più alte della mia vita a livello emozionale. Diego mi ha fatto togliere le scarpe per sentire il contatto con il terreno e spiritualmente è stato molto forte.
Il tutto è stato coronato dall’esperienza che abbiamo fatto nel deserto girando il video che è stata senza dubbio la più bella della mia vita. Quando dovevamo iniziare le riprese stava per piovere e Izi ha detto “tranquilli, pioverà per dieci minuti, poi avremo quindici minuti di sole per girare il video”. E così è stato.
Conoscevi già Izi?
Era la seconda volta che lo vedevo. La prima volta che lo avevo visto ci eravamo solo salutati di sfuggita, invece poi si è creata una magia assurda. Io poi sono credente, sia per quanto riguarda Dio, sia per quanto riguarda le emozioni che non ti fanno capire cosa sta succedendo, quindi per me è stato tutto potentissimo.
In generale hai un’immagine molto diversa da quella canonica del rapper…
Trovo che nella diversità ci sia la fortuna. L’importante quando sei un artista è essere sempre te stesso, perché nel momento in cui fingi diventa un lavoro come gli altri perché ti carichi di pressioni. Ne parlavo giusto qualche giorno fa con mio papà che fa un lavoro normalissimo. Gli dicevo che se dovessi iniziare a fare la musica che non mi piace e avere un’immagine che non mi rappresenta e in cui non mi sento a mio agio, a quel punto dovrei cambiare mestiere perché sarebbe una tortura.
Che rapporto hai con la fama? Ha toccato in qualche modo il tuo privato?
No, anche perché io di mio sono una persona abbastanza chiusa, e la cosa è aumentata da quando ho iniziato ad essere più conosciuto, soprattutto perché vivo in un paese piccolo in cui le persone parlano o in qualche modo vogliono tenerti buono. Io invece sono fidanzato con la stessa ragazza da sempre, ho i miei amici storici di cui mi fido. La cosa che è cambiata è che adesso ho il privilegio di poter far stare bene le persone attorno a me con la mia musica.
Quindi non ti sei spostato a Milano.
No e non penso lo farò. Stare nel mio paese mi aiuta a non andare dietro alle cose finte e ad avere la realtà in mano.
Però sei molto legato agli Stati Uniti. Cosa esporteresti della cultura italiana negli States e cosa invece importeresti qui della cultura americana?
Penso che lì porterei proprio l’essere come siamo noi italiani. L’importanza dei rapporti, il senso di famiglia perché lì è proprio mood milanese elevato alla n. Per quello che ho visto io gli americani pensano tantissimo al lavoro, ai soldi, a fare sempre un sacco di cose velocemente e forse a volte non curano troppo i dettagli. In Italia invece importerei il fatto di essere volenterosi di lavorare con gli altri senza pregiudizi perché la musica è vista come uno scambio reciproco. Un’altra cosa che amo degli Stati Uniti è che gli artisti non si adattano al mainstream, ma portano la loro visione. Kendrick Lamar ad esempio non farà mai una canzone mainstream per andare primo in classifica, ma è il popolo che farà in modo che lo diventi, e secondo me questa cosa è bellissima.
Gabriele, qual era il sogno che avevi da bambino?
Forse dovrei darti una risposta più trap ma il mio sogno era fare il veterinario!
E adesso invece?
Il mio sogno… Vedi, nella vita corriamo così tanto che non ci soffermiamo nemmeno a pensare quale sia il nostro sogno… Forse ti direi stare bene e far stare bene le persone attorno a me.