Interviste

In “Don Dada” Don Joe ha predetto il futuro del rap italiano. L’intervista

In occasione dell’uscita dell’album, abbiamo incontrato il producer milanese con cui abbiamo parlato dell’importanza delle crew nel rap e fatto un bilancio degli ultimi vent’anni, da “Mi Fist” ad oggi. Reunion dei Club Dogo compresa

Autore Greta Valicenti
  • Il13 Aprile 2023
In “Don Dada” Don Joe ha predetto il futuro del rap italiano. L’intervista

Don Joe

«Dada è un termine preso in prestito dal mondo giamaicano. Il Dada è il padre di tutti, e io mi sento un po’ così. I giovani vengono nei miei dischi anche per farsi consacrare». In un mondo costellato di perbenismo da una parte e boria (perlopiù ingiustificata) dall’altra, le parole di Don Joe trasudano onesta consapevolezza da ogni sillaba: ho scritto la storia del rap italiano e sa di averlo fatto. E a saperlo non è solo lui, ma anche tutti i giovani artisti che si sono messi a suo servizio in Don Dada, il suo nuovo producer album uscito oggi, giovedì 13 aprile.

Un disco che arriva dopo Milano Soprano, nato alle pendici della Madonnina e non solo una dichiarazione d’amore alla città che l’ha cresciuto, ma anche uno statement per ribadire che a Milano, ‘sta banda suonerà per sempre. Stavolta però, il filo conduttore è solo il tocco di Mida di Don Joe, che passa agilmente di genere in genere per far diventare ogni traccia una tappa di un viaggio.

Ma sul treno di Don Joe ci sono anche due veterani. Due amici e fratelli che conosce meglio di chiunque altro, con cui nel 2003 ha pubblicato un disco che è diventato solo una pietra angolare del genere, forgiando almeno due generazioni di teste hip hop nel nome di Jake, di Guè e di Don Joe. Un disco – Mi Fist – che tra pochi giorni compirà vent’anni e della cui importanza Don Joe si è reso conto solo tempo dopo.

L’intervista a Don Joe

Rispetto a Milano Soprano, in cui c’erano tanti veterani della scena, in Don Dada i featuring presenti sono quasi tutti newcomer. Avevi in mente un concept diverso?

Esattamente. Milano Soprano aveva un concept legato a Milano e alla storia degli artisti che l’hanno influenzata. Qui invece sono partito dall’idea di fare una sorta di mixtape dove ci fossero all’interno generi diversi con molti artisti nuovi e qualche big.

Il prodotto è confezionato in modo che l’ascoltatore potesse fare un viaggio. Anche il titolo stesso è un termine preso in prestito dal mondo giamaicano: “Dada” vuol dire padre, e io mi sento un po’ quella cosa lì. Gli artisti nuovi allora vengono nell’album sia per farsi conoscere sia – in qualche modo – per farsi consacrare.

E sono tutti artisti che in un modo o nell’altro sono stati influenzati dalla tua figura artistica.

Assolutamente sì. Ma anche dalla storia: tanti sono legati a quel periodo storico, quando siamo partiti con i Club Dogo. Ma tanti altri sono più freschi e magari mi ascoltano dal disco scorso.

Anche perché in Milano Soprano gli ospiti erano tutti milanesi. Qui il respiro è molto più ampio.

Sì, stavolta il filo conduttore sono solo io in tutte le declinazioni di genere possibili. Ad esempio Medy fa un pezzo più introspettivo che magari da solo non farebbe. Quando è venuto in studio mi ha detto: “Voglio fare una roba diversa da quello che ho fatto fino ad ora”, e ha scelto lui la base. Se viene Guè non mi fa un altro pezzo alla Cookies ‘N Cream. Fa un pezzo più deep perché lui mi conosce bene e sa che quel tipo di strumentali per me sono importanti.

Il producer album è anche una messa alla prova per i giovani artisti e l’hanno superato. Tanti hanno il miraggio di rappare su un beat di un determinato producer e lo sento che ci mettono un impegno completamente diverso. Questa cosa mi inorgoglisce perché vuol dire che riconoscono il mio status. Io mi aspetto che ciò venga riconosciuto, comunque sono sulla scena da vent’anni ormai.

E cosa deve avere un giovane per colpirti e per meritarsi una produzione di Don Joe?

Io all’inizio presto molta attenzione al connubio tra voce e flow, che non deve essere necessariamente complicato. Quella combinazione mi deve colpire. Molti usano male la voce e anche gli strumenti.

Ad esempio tanti si fanno stravolgere dall’autotune perché hanno paura di essere stonati. Ma se tu sei stonato a modo tuo ci sta! Fare troppo clean sulle voci è una cosa sbagliatissima, soprattutto per chi inizia. Devi essere sporco, mi devi far sentire quella ruvidità. Questo è lo sbaglio più frequente nell’hip hop: il voler mostrare qualcosa che non si è.

Frenetik&Orang3 mi hanno spiegato che loro fanno una distinzione tra beatmaker e producer. Tu sei d’accordo?

Assolutamente sì, anche io la faccio spesso. A 19 anni io ero un beatmaker. Io poi non avevo nemmeno i tutorial su YouTube: andavo personalmente da un tipo che lo faceva e stavo lì a imparare. Il produttore ha delle skills che arrivano dopo, ad esempio far combaciare tutto. Sei una sorta di regista, chiami i musicisti quando ne hai bisogno, assembli tutti gli elementi per confezionare il prodotto al meglio.

Parlando invece di crew: col tempo è un concetto che, a parte alcuni casi come la Lovegang126 o la Seven 7oo, è andato un po’ perdendosi, mentre nei primi anni Duemila l’idea di collettivo era molto più forte. Oggi cos’è cambiato secondo te?

Il fatto è che c’è stato un ricambio generazionale forte anche a livello individuale. I ragazzi non hanno gli stessi valori che potevamo avere noi come Dogo Gang o il TruceKlan. Negli altri paesi l’idea di collettivo è ancora molto forte. Non capisco perché in Italia debbano vedersi tutti da soli.

A noi la roba della crew ha aiutato. Quando creavi qualcosa e faceva schifo, i tuoi amici te lo facevano notare. Oggi quelli che pensi siano amici si denigrano tra di loro perché ciascuno ha una mira personale da portare avanti, ma non lo fanno di certo per il proprio bene.

Noi ci facevamo una forza della madonna. Eravamo dei fratelli che andavano tutti verso lo stesso obiettivo. Poi qualcuno è emerso più degli altri, ma nessuno ha lasciato per strada gli altri. Nella Dogo Gang tutti aiutavano tutti. Oggi non succede questa cosa.

Don Joe: «Questa roba è una giungla, se domani cadi sono problemi tuoi»

Forse oggi si ricerca di più il successo immediato, mentre voi avevate alle spalle una gavetta lunghissima.

Sì, io non dico che tutti debbano farsi tutti gli anni che abbiamo fatto noi prima di farcela. Però quella roba lì ti fortifica come nient’altro. Quanti fanno una hit e il giorno dopo cadono facendosi male? Ma male davvero. E non dovrebbe essere così, stiamo comunque parlando di musica.

Te lo dico nel modo più real possibile: questa roba è una giungla, sono cazzi tuoi se domani cadi. La vita ti dà le sberle, non sei di certo tu che sei un fenomeno. Se non capisci chi sono i tuoi amici veri e abbandoni quella strada è un problema tuo. Anche quelli che fanno gli individual artist e ci riescono hanno comunque una cerchia ristretta di persone fidate.

Tra pochi giorni sarà il ventennale di Mi Fist, un disco che non è stato solo un game changer del rap italiano ma che è diventato una pietra miliare per le generazioni post Dogo. Non voglio chiederti quello che ti avranno già domandato un sacco di volte, ma sapere qual è il tuo bilancio dopo tutta questa strada percorsa da allora.

Anche perché a quella domanda onestamente non saprei risponderti! Diciamo che adesso riconoscono l’importanza di quella cosa. Non mi ero reso conto subito quante cose abbia cambiato quel disco. Mi Fist è stato un album fatto in completa incoscienza, solo per noi, senza pensare a nessuno. Noi non facevamo musica per business, anche perché il mercato era praticamente inesistente. Chi ci ha conosciuto in quel periodo sa benissimo come funzionavano le session!

Noi in quel momento vivevamo quelle cose e le volevamo dire, non abbiamo mai detto che ce l’avevamo fatta. Molti giovani oggi raccontano già quello che potrebbe essere. In quel momento avevamo solo un pizzico di incoscienza e la cultura. Guè e Jake a livello musicale sono coltissimi. Conoscono le basi della musica hip hop e per questo motivo la fanno bene.

Don Joe sulla genesi di Mi Fist

Io mi sono ritrovato a produrre un disco che nasceva dalle ceneri delle Sacre Scuole, ma dovevo lasciare andare quella cosa lì e inventarmi qualcosa di nuovo. Questo non è stato facile. Ho fatto degli ascolti folli, sono andato a recuperare dischi che nessuno avrebbe mai messo nel rap.

Tuttora in Mi Fist ci sono delle cose che la gente non ha capito! Il suono è così artigianale perché il disco è stato mixato da noi in un banco analogico. Io non sapevo nemmeno a cosa servissero tutti quei tasti, eppure siamo stati giorno e notte a smanettare. Tutto senza nozioni, per farti capire quanto è stato folle quel disco.

Non ti saprei neanche dire come abbiamo fatto a farlo. Semplicemente quella roba suonava bene per noi. E poi ha fatto la storia. Non ti nascondo che ancora oggi a volte mi dico di voler riprovare a fare quella roba, ma poi mi dico che sarebbe impossibile.

Forse la magia di quell’album sta proprio nel fatto di rimanere incastonato in un determinato contesto storico, no?

Esattamente! È un po’ come quando c’è la domanda fatidica sui Dogo. I Club Dogo hanno un valore fortissimo già così ed è bello che rimangano cristallizzati nella storia. Perché spostarli allora? Le cose non tornerebbero mai come prima.

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