Interviste

Punk rock e disco music, la strana coppia da cui nacque il fenomeno Duran Duran

In estate Simon Le Bon e soci torneranno in Italia con ben quattro date a Roma, Bari e Milano. Abbiamo intervistato il bassista John Taylor, maestro di groove e di stile che non ha perso la curiosità per la nuova musica

  • Il11 Aprile 2025
Punk rock e disco music, la strana coppia da cui nacque il fenomeno Duran Duran

Duran Duran (fonte: ufficio stampa I-Days)

Rio, Save a Prayer, Hungry Like the Wolf. E ancora: The Reflex, Girls on Film, Notorious. Quando parliamo di hit memorabili degli anni ’80, loro sono gli specialisti. Pochi gruppi hanno segnato in modo indelebile la decade del Pentapartito e dei Paninari (che li adoravano) come i Duran Duran. E sono ancora meno quelli che – fra alti e bassi, fra pause e reunion – dopo oltre quarant’anni tengono ancora vivo il progetto con nuova musica e nuovi tour, confortati dal supporto di una devota fanbase che, nonostante il tempo che passa, mostra talvolta livelli di fandom non lontani da quelli del K-Pop.

Ciò è vero soprattutto in un paese come il nostro, che da sempre rappresenta uno dei mercati di punta per i Duran Duran. Loro ne sono consapevoli e ricambiano: negli ultimi anni sono state molte le tappe live in Italia per Simon Le Bon e soci. Questa estate non è da meno, con ben quattro concerti in programma a Roma (15 e 16 giugno al Circo Massimo), Bari (18 giugno alla Fiera del Levante) e Milano (20 giugno all’Ippodromo Snai San Siro per gli I-Days 2025).

John Taylor, vero maestro di groove e di stile, è da sempre l’addetto alle quattro corde: le sue riconoscibilissime linee di basso hanno contribuito largamente al sound e al successo delle canzoni dei Duran Duran, anche se rimane una sorta di “unsung hero” del basso elettrico. E pensare che cominciò tutto con una formazione da chitarrista autodidatta e con l’incontro-scontro fra due generi coevi ma apparentemente inconciliabili, il punk e la disco. Ci facciamo raccontare tutto direttamente da lui.

Duran Duran - concerti Italia 2025 - intervista John Taylor - 2
I Duran Duran oggi. Da sinistra a destra, Roger Taylor, Simon Le Bon, John Taylor e Nick Rhodes (foto di Nefer Suvio)

L’intervista a John Taylor dei Duran Duran

Inizialmente, ai tempi della nascita della band, tu suonavi la chitarra. Cosa ti fece gravitare poi verso il basso?

Quando iniziai a suonare era il periodo del punk, e tutti volevano essere chitarristi. Per questo pensare di suonare la chitarra era una cosa molto naturale. Mano a mano che iniziavo a suonare con altre persone (e con altri chitarristi) mi resi conto che in giro c’erano un sacco di chitarristi e pochissimi bassisti. Ma soprattutto non c’era nessuno che suonasse il basso nel modo in cui io lo volevo sentire.

Alla fine degli anni ‘70 ero totalmente preso dal punk: Sex Pistols e The Clash erano dei giganti quando ero adolescente, e mi ispirarono a formare una mia band. Ma poi – avrò avuto 17 anni – sentii il richiamo di qualcos’altro, ovvero la disco music. Non sapevo dire esattamente come, ma quella roba mi attraeva. Ascoltavi canzoni come You Make Me Feel di Sylvester o Everybody Dance degli Chic e finalmente sentivi il basso! Così come in pezzi influenzati dalla disco, come Fashion di David Bowie e Miss You dei Rolling Stones.

La disco music è senza dubbio un genere trainato dal basso elettrico.

Sì, ci sono canzoni in cui il basso è quasi lo strumento solista. E, come tutta la grande arte, la disco è solo apparentemente semplice. You Make Me Feel ed Everybody Dance si basano su pattern ritmici molto semplici: se sai suonare quei due groove, sei già a buon punto. Mi chiedevo: perché non fondere i groove di basso alla Chic con le chitarre in stile Sex Pistols?

Poi conobbi Roger Taylor: era la prima volta che suonavo con un batterista dal livello musicale palesemente più avanzato del mio. Già da cinque o sei anni lui suonava in diversi gruppi, mentre io suonavo la chitarra da un paio d’anni al massimo. Nella stanza dove provavamo c’era un basso che apparteneva al cantante. Lo presi e iniziai a suonare insieme a Roger. Scoprii così che dentro di me c’era un linguaggio che non sapevo ancora di padroneggiare. Sapevo già come far andare a braccetto basso e batteria.

E poi che accadde?

Da lì è iniziato un viaggio in cui la parte più divertente era il lavoro su groove e riff, sulla creazione della sezione ritmica, sulla quale Nick aggiungeva le sue sequenze. Quando conoscemmo Andy Taylor eravamo già al lavoro su quel sound. Eravamo in cerca di un chitarrista e di un cantante. Io, Nick e Roger avevamo sviluppato un sound che nessun altro aveva, perlomeno non a Birmingham. Andy aggiunse le sue parti e così l’architettura degli strumenti era completa. Ci mancava solo il frontman, e trovammo Simon e la sua poesia. Avevamo il team.

Fu il risultato di un lavoro chirurgico, per così dire. Per chi oggi è abituato a fare musica col proprio computer può essere difficile immaginare un tempo in cui, per ottenere un certo sound, dovevi avere quattro o cinque persone che imparavano a suonare insieme.

Gli anni ’70 furono un periodo straordinario dal punto di vista dell’esplorazione degli strumenti elettrici. I Beatles avevano aperto le porte a un mucchio di grandi artisti. Per me gli anni ’70 significarono l’immersione in due generi, il punk rock e la disco music, a prima vista estremamente diversi ma accomunati dal fatto di essere entrambi molto emozionali e diretti: non jazz, per dire, ma musiche facili da capire. Per me fu la tempesta perfetta.

A quei tempi molti vedevano la disco music come una sorta di frutto proibito, specialmente nel mondo rock, no?

Assolutamente. Tutti ne erano terrificati! Penso che fosse una cosa anche un po’ omofoba, dal momento che la disco traeva origine in gran parte dalla comunità gay di New York. Oltretutto la disco metteva sempre più in rilievo il ruolo dei DJ, che da alcuni era percepito come la morte della musica live perché toglievano lavoro ai musicisti.

All’epoca non si percepiva il risvolto politico della disco. Sai, è molto più facile scrivere un pezzo triste che uno felice. Prendi un artista come Stevie Wonder, uno dei più grandi portabandiera di “happy music”: capisci subito che è un retroterra di sofferenza a dare forma a quella gioia che senti nella musica. E questa è una cosa che percepisci in tutta la storia della black music: la musica come necessario trionfo sulle circostanze avverse.

Col senno di poi, adesso ci rendiamo conto che la disco era qualcosa di straordinariamente politico. Perché era molto sovversiva: dava voce a persone fino ad allora marginalizzate. Tornando sulle somiglianze fra punk rock e disco music, possiamo dire che entrambi i generi reclamavano attenzione ed esprimevano rabbia nei confronti dello status quo.

I Duran Duran comunque non sono mai stati un gruppo politico o politicizzato.

No, non ci siamo mai visti così. Uno dei nostri più grandi traguardi è la nostra “democrazia interna”: per esempio sin da subito abbiamo deciso di dividere i nostri guadagni in parti uguali. Grazie al nostro rispetto reciproco, non siamo mai venuti meno a ciò. Ma se c’è una cosa che non ci sentiamo di metterci a discutere, è la politica.

Il Live Aid fu una cosa molto inusuale: Bob Geldof fu in grado di convincere tutti quei narcisi di musicisti del fatto che c’era l’opportunità di fare del bene per il mondo. E tutti si lasciarono coinvolgere, dando vita a questo straordinario, epico evento globale che non ricapiterà mai più.

Ma è difficile quando tutto viene politicizzato. Sono i politici a volere che pensiamo che tutto è politico, che vediamo tutto attraverso le lenti della differenza. I politici campano di maggioranze. E per questo amo quello che faccio: quando guardo il pubblico dei nostri concerti penso che in quel momento siamo una cosa sola. Abbiamo bisogno di momenti così, in cui condividiamo le nostre somiglianze anziché scontrarci sulle differenze.

Duran Duran - The Reflex (Live Aid 1985)

Negli ultimi anni c’è stato un forte ritorno di grossi groove di basso all’interno di canzoni pop mainstream: penso ad artiste come Dua Lipa e Lizzo, che nelle loro recenti produzioni si sono rifatte molto al sound degli anni ’80. Da bassista, come vedi questa specie di revival?

Sai, per come la vedo io, ci sono due tipi di musica: la “musical music” e la “lyrical music”.

Cosa intendi?

Taylor Swift è “lyrical music”. Sono il suo messaggio e la sua storia a risuonare con il suo pubblico. Non penso che il suo sound abbia la stessa importanza. Dua Lipa invece è praticamente un’artista da club, e nei club è proprio il sound a prevalere. Le canzoni di quella categoria si basano su testi più semplici e ripetitivi.

I Duran Duran tendono a scrivere prima la musica. Quando ci mettiamo al lavoro su nuova musica, le nostre session sono la cosa più divertente che facciamo. È come avere una lavagna vuota su cui ognuno aggiunge il proprio contributo, una scultura che si forma mano a mano. Queste cose funzionano bene in gruppo perché si arriva a un punto in cui c’è una sensibilità condivisa. Magari uno di noi dice: “Avete mica sentito quel nuovo pezzo di Charli XCX?”. E gli altri: “Oh sì!”.

All’epoca dei nostri esordi ascoltavamo tutti la stessa musica. Poi col tempo (e noi suoniamo insieme da parecchio) ci siamo differenziati maggiormente, anche in base alle diverse esperienze di vita, ma rimanendo come satelliti di uno stesso pianeta. Tutte le volte che dobbiamo trovare un denominatore comune ci rifacciamo alle cose che amavamo quando ci siamo conosciuti. E le mescoliamo con la contemporaneità, del tipo: “Figo, ma hai sentito la traccia di batteria di quel pezzo di Kanye West? Potrebbe funzionare con gli accordi che stiamo usando?”. Questa è la nostra esplorazione. I Beatles e gli artisti della Motown non hanno mai usato il basso synth, ma siamo sicuri che non l’avrebbero fatto se l’avessero avuto a disposizione?

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