La scommessa “Emoton” dei Bautista: «Un punto di vista diverso sul reggaeton»
Il duo composto dal producer Machweo e dal cantante e songwriter 999asura ha appena pubblicato l’album d’esordio: basi latin per testi ultra-intimisti, una formula senza simili (per ora) in Italia
Emoton, ovvero l’incontro fra emo e reggaeton: a prima vista un deliberato ossimoro, visto che i due termini evocano atmosfere musicali diametralmente opposte. Tanto deliberato che finora nessuno (perlomeno in Italia) aveva pensato di accostarli. Si sono preoccupati di colmare il vuoto i Bautista, duo formato da Machweo (producer di già lunga esperienza, con un passato nell’elettronica contaminata da spunti di world music) insieme al cantante e songwriter di origine peruviana 999asura.
Nel loro album d’esordio, uscito venerdì 14 gennaio per Carosello Records / The Orchard, i Bautista esplorano le possibilità del nuovo genere “ibrido” con una freschezza d’approccio e una credibilità già notevoli: fra i punti di forza del progetto, la qualità delle produzioni di Machweo (di ispirazione latin, sì, ma con quello spirito di ricerca musicale che ha sempre contraddistinto la sua musica) e l’immediatezza dei testi dell’esordiente Aaron (999asura).
Machweo ci ha parlato del progetto Bautista proprio il giorno dell’uscita dell’album: ecco un estratto dell’intervista che leggerete integralmente sul numero di febbraio di Billboard Italia.
Il titolo dell’album suona inevitabilmente come una sorta di manifesto. Volevate fare una dichiarazione d’intenti?
Suona come un manifesto perché lo è, effettivamente. Quando abbiamo deciso di fare una cosa nuova, che non per forza stesse nei canoni già rodati, sapevamo intanto che sarebbe stato difficilissimo, e che comunque dovevamo comunicare il progetto nel modo più chiaro possibile. Questa parola, “emoton”, è nata per scherzo, ma i nostri amici e chi ci intervistava la trovavano curiosa, per cui abbiamo sempre saputo che il disco si sarebbe intitolato così.
Tu come producer hai alle spalle un retroterra musicale molto variegato e anche “di ricerca”. Il mondo latin come è capitato nel tuo percorso?
Io vengo da quella che una volta veniva chiamata scena elettronica italiana. Ci si conosceva tutti. Prima e meglio di me ci sono stati un sacco di colleghi – come per esempio Populous – che hanno cercato l’ispirazione in territori distanti proprio geograficamente. Il mio stesso nome d’arte viene da una lingua africana (“tramonto” in swahili, ndr): la voglia di guardare fuori c’è sempre stata. Ho studiato e cercato di capire cosa mi piacesse. Ho fatto un disco solista intitolato Fire and Sea (2019, ndr) ed è stato un po’ la mia visione del mondo a partire dalla musica del sud Italia.
Poi ho conosciuto Aaron, che era un amico di mia sorella. A me interessava continuare a “indagare” in giro per il mondo. Il problema è la credibilità con cui uno lo fa. Mi sembrava stupido dall’Italia, senza mai essere stato in America latina, pretendere di fare un disco reggaeton. Il nostro è soltanto un punto di vista differente.
Vista anche la versatilità linguistica di Aaron, per i Bautista immaginate esperienze anche a livello internazionale?
Nelle primissime demo c’era molto più spagnolo di adesso. Ma poi ci abbiamo pensato entrambi e un po’ ci dispiace mettere da parte quell’aspetto linguistico. Forse abbiamo avuto troppa paura, abbiamo voluto fare il passo lungo, ma non più lungo della gamba. Però sì, in futuro ci sarà molta più spinta verso fuori.
C’è qualche nome di quel mondo latin che stimi in modo particolare proprio a livello di produzione?
Per me Alizzz, che lavora con C. Tangana, è uno dei produttori contemporanei più forti.
Avete definito Callao come “un canto di battaglia verso il reggaeton che cercano di venderci qui in Italia”. Per voi quali sono pregi e difetti di quello che abbiamo sentito finora nel nostro paese?
Se un pezzo esplode in estate è sicuramente una bella canzone, non perché ci sono i poteri forti dietro (ride, ndr)… Tutti i singoli di successo di Fred De Palma sono comunque dei bei pezzi, inutile negarlo. L’unico problema è che è un modello che cerca di ricalcare le mega-hit dell’America latina, che sono solo un tipo di reggaeton ultra-mainsteam, con quelle tematiche molto chiare, con quei testi molto “trasparenti”.
Ma si tratta di una piccola parte di quell’enorme mare che è il reggaeton. È uno sguardo molto occidentale: è come se una persona dall’altra parte del mondo con la parola “rock” definisse Tiziano Ferro e i Deep Purple.
Infatti un progetto come il vostro dimostra che ormai il reggaeton non è più il genere estivo da hit sotto l’ombrellone ma è sempre più un macro-genere dalle molte sfaccettature e derivazioni. Per voi quali sono le sue caratteristiche vincenti e le sue potenzialità future?
Il reggaeton è così grosso come genere nel mondo perché è musica per il groove. Trovo che quel groove tanto bistrattato sia una ritmica killer. Intanto, rispetto alla trap, il reggaeton è lentissimo: se un pezzo trap di solito sta sui 130 bpm, quello reggaeton va sui 90. Ma in realtà balli molto di più su un pezzo reggaeton perché ha quella struttura ritmica che funziona da migliaia di anni.
Per quanto riguarda il futuro, credo che rimarrà un’enorme parte della musica ascoltata nel mondo. Crescerà ancora, sicuramente. Non sono sicuro che in Italia possa attecchire nella scena urban come ha fatto altrove, ma siamo qui per capirlo. Comunque noi facciamo questo perché ci piace.