Gemello presenta “La Quiete” tra passato e futuro del rap (e non solo). L’intervista
Nelle nostre vite frenetiche c’è bisogno di soffermarsi su pochi ma significativi dettagli. È la poetica dell’artista romano, che torna dopo due anni con un nuovo progetto di inediti, in uscita venerdì 21 gennaio
Questo 2022 si sta aprendo decisamente bene sul fronte hip hop, se così possiamo ancora chiamare un genere in continuo cambiamento. Gemello (nome d’arte di Andrea Ambrogio) si colloca in questo immaginario sonoro per il suo trascorso fra le rime del rap. Ma non appartiene più in senso stretto al mondo che conoscevamo, pur non abbandonando mai veramente le sue origini.
Con l’ultimo album, La Quiete, che uscirà venerdì 21 gennaio per Honiro/Believe, vedremo Gemello sospeso a mezz’aria fra due universi, nel tentativo (riuscito) di spingersi fuori dai confini di realtà ben delineate. Ancora più di quanto fatto con UNtitled, dove due anni fa abbiamo assistito ad alcuni vagiti di una trasformazione che stava nascendo, e che oggi per l’artista romano è ancora in atto.
Intanto, per uno dei nomi storici della squadra romana In The Panchine, di cui in questi giorni si parla anche di riflesso per l’uscita del nuovo progetto di Noyz Narcos, è il momento di presentarsi in una veste ancora più nuova. Pur conservando alcune cose del suo passato – in episodi come Pipistrelli, insieme a Victor Kwality e Mostro, prodotto da Sine – vediamo Gemello al fianco di artisti di oggi e di domani (Carl Brave, Esseho, Holden, Gazzelle…) che lo aiutano nell’obiettivo di misurarsi con cose mai fatte. Soprattutto nella formula, con rime più diradate, concetti su cui soffermarsi, disegnando – letteralmente, perché lui oltre a scrivere testi in rima è anche un pittore – una forma in cui comunica l’essenziale.
Con Un pezzo di universo insieme a Coez e Gemitaiz abbiamo avuto un primo assaggio di questo lavoro in cui Gemello si è accostato, per la prima volta, all’opera di musicisti veri. Dal chitarrista Peter Cornacchia alla producer e songwriter Marta Venturini, tutti i nuovi stimoli hanno ampliato degli orizzonti prima ancora poco nitidi. Ed è mescolando le carte in tavola e ricominciando il gioco che nasce, a tutti gli effetti, un disco ermetico e sperimentale. Da comprendere con lentezza e ascoltare nella quiete più assoluta.
Sì, certo. Io vivo di up & down, un po’ come tutti, alla fine la vita è così. Nel disco ci sono delle canzoni più tranquille, poi a un certo punto si incupisce, poi si riapre speranzoso. Perciò sì, c’è stata una tempesta, ma è come il tempo che c’è da un po’ a Roma: un attimo prima sembra di stare alle Maldive, poi piove, e anche il mio umore segue un po’ il meteo. In questo m’ama-non m’ama/quiete-tempesta, alla fine è uscito La Quiete, non è stata una scelta chissà quanto ponderata. Anche perché volevo omaggiare sì il gruppo, ma poi mi piaceva proprio la parola stessa, “la quiete”, perché sa di parola che si usa poco e si scrive ancora meno.
La pandemia ha influenzato un po’ tutti. Con meno contatti in generale, magari più che far cantare il ritornello a un amico, come un Coez, mi sono trovato io a dover per forza di cose fare da solo! E fra l’aiuto a distanza, o comunque ravvicinato, di chi era già un famoso “ritornellaro” e sei-sette mesi di lezione di canto mi sono “skillato” un po’. Ho sondato le mie possibilità, facendo più selezione di musica e parole. È una sensazione di libertà, come un taglio di capelli a zero, che all’inizio è strano ma poi non ti mancano i capelli, se vuoi ricrescono!
C’è stata meno urgenza e più un prendere le musiche che avevo con un approccio più maturo e libero dal punto di vista psicologico e musicale, meno pauroso, più convinto e sicuro di me. C’è un po’ di tutto nel disco, ed è stato bello anche realizzarlo per la prima volta in una casa affittata al Circeo, con un po’ di musicisti e amici e scrivere davanti al mare. Un disco alla fine è come fosse un libro, crudo o meno, che anche se letto di notte o di giorno, è comunque bello.
Con gli strumenti, come le chitarre, già giocavo in casa. Ho voluto delle basi un po’ più suonate, fatte con strumenti veri. Con la label che mi ha dato carta bianca ho potuto lavorare con diversi musicisti (il chitarrista di Mengoni, il tastierista di Ghali, Gazzelle e Coez, lo stesso Sine). Quella è stata la spinta in più che mi ha fatto venire voglia di cantare. Loro stessi mi hanno aiutato a registrare, intonare, come amici che sanno essere molto duri e severi. Lavorare con persone che ci tengono a far uscire le loro cose bene è stata una cosa stimolante per tutti.
E poi, quando devi consegnare un disco, devi mettere da parte le depressioni o l’euforia e metterti a lavorare con qualsiasi tempo (anche metereologico). È stato fico perché sai, il lavoro di un disco è stressante. Ti travolge come fosse una storia d’amore che pensi di gestire ma poi ricominci daccapo, e poi ti guardi indietro e dici: “Wow, ho già sette canzoni”. È molto bello perché non te ne rendi conto.
Come ti dicevo, non sono io che ho deciso con chi fare il disco! Mi è semplicemente capitato di uscire con delle persone o andare in studio da loro. Magari loro mi facevano sentire delle basi o io dei provini, e qualcuno si offriva di cantare su quella base. Non c’è stato niente di pilotato, è stata una specie di macchina in autostrada che si ferma ogni tanto per fare benzina e al benzinaio trovi degli amici, ci chiacchieri e te li porti dietro! Senza pit stop, senza aspettative, nonostante la serietà e il lavoro che ci sono dietro. Ma sempre con la spensieratezza del gioco e un approccio senza forzature.
È ovvio, il tempo che ognuno si è ritagliato per se stesso perché eravamo chiusi in casa ci ha consentito anche di ascoltare cose nuove, appassionarsi a film, o a generi che prima non ci piacevano. Magari in molti si sono ricreduti su delle cose, riuscendo a farne una loro versione. Alla fine o ci si evolve o si torna indietro, se si cambia ci si adegua alle nuove scoperte senza problemi. Il rap si è trasformato tante volte, ma ci sono delle radici che restano, impiantate anche in posti nuovi. Ed è bello anche provare a fare quello che fanno gli altri, con l’attitudine giusta!
Per esempio: invece di portare una “poesia” di mille righe a memoria puoi portare qualcosa di più ermetico, e per noi nati col rap è più difficile, perché di tutte le parole che vorresti usare devi selezionarne solo alcune. È come durante un terremoto, quando devi scegliere cosa portare con te. Al tempo stesso è più facile rispetto ai nuovi artisti e nei generi che ci sono adesso, perché noi è come se avessimo fatto la guerra, abbiamo le spalle larghe.
È difficile che il rap possa finire. Fa parte di noi, possiamo anche metterci dei vestiti diversi ma ci sta sulla pelle. In America, ad esempio, stanno tornando cose nel vecchio stile. Griselda, Conway, personaggi che sono anche nei dischi di Kanye West o Young Thug, piccole realtà che fanno musica come qualche anno fa. Ma c’è sempre ricircolo, come la moda. Magari saranno cose fatte meglio, ma non credo che l’attitudine del rap possa morire.
Ne discutevo anche coi miei amici. E mi sono chiesto come sia possibile per ‘sti pischelli che hanno fatto Amici, hanno milioni di follower, hanno Twitch, i videogame, TikTok. Vanno contro pilastri che anche se ti leggono la lista della spesa non puoi battere, per stima, soprattutto. Questi grandi artisti hanno la bravura di fare delle canzoni radiofoniche, ma sanno poi mettere nel disco la loro cosa.
In un campo da gioco ci può essere il talentuoso col pallone, ma se non hai carisma, una squadra e tutto il resto non sai come girano le cose. E poi, gli stessi grandi rapper alla fine hanno fatto dei prodotti nuovi bellissimi, sperimentali, magari simili a cose già uscite, ma sempre con una marcia in più. Dentro i loro progetti c’è vita vissuta e questo è un punto a favore. È quel rap che per forza di cose nasce dal tuo trascorso, e se sei incazzato, hai ferite, lividi e qualcosa da dire sei unstoppable, è diverso da quando sei piccolo e spensierato.
La domanda me la fai in modo carino! Ma potevi anche dirmi: “Gemello, quindi fate dischi un po’ ruffiani in cui mettete un po’ tutto di tutto e sono tutti felici”. Be’, non è proprio questo. Il disco è più una festa a casa nostra, e se invito delle persone che non conosco è logico che li voglio accomodare pure nella cosa loro. È un modo per salutare tutti, sia loro che i vecchi amici, inserendo elementi che la gente si ricorda. Ci si mette in gioco, ma alla fine della festa quei pochi amici che hai te li tieni lì, coi piedi sul tavolo, a mangiarti un paninaccio. È necessario essere se stessi e far vedere la propria maturazione, con dischi che hanno sapori nuovi, vecchi, sperimentali e interessanti. Noi siamo fatti così, di ricordi, di cose presenti e passate.
Sì, esatto!
È corretto quello che dici tu. Sai, se osservi uno dei miei quadri o senti una mia canzone sono accomunati da una stessa poetica. Il modo in cui dipingo è molto naturale. Ho iniziato quando ero piccolo, sui banchi, sui muri di casa, e mi sono poi ritrovato con mille tele per casa. È stata una specie di spettro il fatto di dipingere. La musica è iniziata facendo skate, incontrando Noyz, Chicoria, che già facevano dischi rap. A me piaceva leggere, e scrivevo tanto anche, cose minimali con la punteggiatura veloce, senza rime.
Ma chi leggeva i miei pezzi scritti lo faceva o troppo velocemente, o troppo lentamente, senza pathos. L’idea di poter scrivere canzoni con qualche rima, magari con la musica sotto era la certezza che potessero ascoltare cosa volevo dire! Oggi i quadri li faccio a occhi chiusi, di notte, di giorno, quando capita. Ma quando faccio una canzone non so come arrivo a finire le rime, mi stupisco di me stesso. È divertente e stimolante, come per i quadri, che però sono più istintivi. Le canzoni sono un gioco di parole, di sensazioni, di come sto io psicologicamente: la musica ha molta emozione anche quando scrivo, non ho totale controllo.
Sì. E spinge a fermarsi un attimo, a sentire un canzone, a guardare un quadro. La gente da sempre va di corsa, non perché sia stronza, ma perché la vita è così oggi. Quindi, nell’album ho fatto in modo che anche se non ti fermi troppo, ti arrivi un po’ prima la canzone. Per quello è svuotata di parole ed è più melodica, così ti viene da fermarti. Mi piace giocare con una cosa alla quale per arrivare più in fretta devi togliere, usando pochi ingredienti. Per questo credo sia un disco più maturo, ci sono le cose essenziali. Quelle di cui ho abusato le ho scartate con la necessità di fare ordine. Io sono questo, non potrei mai fare qualcosa di super leggibile quando ci si passa sopra velocemente. Non era voluto, ma è nato così.