Interviste

Gemitaiz racconta “Elsewhere”: «È un premio di consolazione per chi non ce l’ha fatta»

Con il suo nuovo album Davide non fugge dal presente, ma lo analizza con uno sguardo lucido e sempre rivolto a chi sta ai margini

  • Il21 Dicembre 2025
Gemitaiz racconta “Elsewhere”: «È un premio di consolazione per chi non ce l’ha fatta»

Gemitaiz

Cosa significa cercare un “altrove” in un mondo – musicale e non – in cui tutto sembra andare in un’unica direzione? Che Gemitaiz sia sempre stato uno degli artisti più coraggiosi del rap italiano è cosa nota – tra le altre cose, non ha mai avuto paura di esporsi su questioni politiche e sociali in modo dritto e chiaro, anche a costo di pagarne lo scotto -, e con Elsewhere, il suo nuovo album uscito il 12 dicembre, ha trovato il suo altro luogo fatto di musica suonata per davvero, canzoni con un peso specifico nate in un periodo che di leggero non ha davvero nulla.

Un disco di rottura – come Gemitaiz lo definisce in questa intervista -, umano (in tutti i sensi, a partire dall’artigianalità con cui è stato realizzato), in cui Davide ha voluto rendere ancora più limpida la sua posizione: quella di artista vicino agli ultimi, dalla parte di quelli che «non hanno mai avuto una scelta», che trova ancora nella collettività conforto in un momento storico in cui «abbiamo perso l’empatia nei confronti del prossimo». Ed è così allora che cercare un altrove non significa fuggire dal presente, ma analizzarlo con uno sguardo diverso: lucido, talvolta disilluso ma anche con una vena di speranza, rivolto sempre anche verso chi sta ai margini di una società che ci vuole sottomessi e mologati, chi non ce l’ha fatta e per cui Elsewhere vuole essere un abbraccio, un amuleto: un atto oggi necessario più che mai.

L’intervista a Gemitaiz per “Elsewhere”

Lo definiresti un disco di resistenza?
Se viene percepito come tale per me è sicuramente un bel modo di descriverlo. Per quanto mi riguarda sono sicuro che a livello musicale lo è certamente, a livello di scrittura dei testi, di liriche, sarà chi ascolta a deciderlo. Per me è un disco di rottura, perché è un chiaro statement.

Mi sembra anche un disco per gli ultimi, un tema che ricorre spesso nelle varie tracce.
Questo per me è fondamentale. Penso che ultimamente si sia persa l’empatia nei confronti del prossimo e che ormai umanamente siamo a un livello bassissimo. Per me invece quella cosa rimane molto importante quando faccio musica, che è un’arte per condividere, per aggregarsi. Non è una roba individualista, ma che deve unire. Ecco, se non fosse già stata chiara la mia posizione negli ultimi dischi, spero che adesso il messaggio arrivi definitivamente. Non mi posso lamentare di non ascoltare tematiche interessanti nei dischi se poi non sono io il primo almeno a provare a proporle. Negli ultimi anni, per quanto io lo abbia fatto, magari l’ho fatto in una maniera più generalista e meno precisa. Adesso invece con questo disco ho sentito la necessità di essere molto più didascalico.

Hai detto di non aver voglia di fare un disco leggero.
Io faccio il musicista, e la musica che mi piace ascoltare è quella che mi emoziona, che mi trasmette qualcosa. Raramente mi trasmette felicità. Dico sempre che la canzone perfetta, per me, ti deve far piangere, non ti deve far sentire felice o sorridere. Deve essere emotiva, profonda. Se mi devo mettere a fare un disco, non voglio che sia musica di distrazione. Voglio che sia qualcosa che percepisci anche a livello emotivo.

In un mondo che va in una direzione sempre più distopica, qual è il tuo Elsewhere ideale?
A livello musicale non riesco a immaginare un modo più bello di fare un disco di quello che è stato quest’ultimo. Per me è stato tutto perfetto. A livello discografico credo che il raggiungimento massimo di un artista sia diventare completamente indipendente. Io sono in un’etichetta indipendente da quando ho cominciato, però non lo sono completamente. Il mio elsewhere perfetto sarà quando avrò una mia struttura per fare tutto quello che voglio.

Come avete lavorato a questo album? Alcuni brani sembrano davvero delle jam registrare in presa diretta.
Esattamente così. Io ho portato delle reference e tanti sample, e quando hai una squadra come quella che ho avuto io, è una passeggiata. Loro sono bravissimi, hanno gusto, siamo vicini artisticamente. La parte musicale è complessa all’ascolto, ma per noi è stata semplice. Loro suonano, io ascolto e scrivo. Oltre a essere il metodo più facile è anche il più divertente. Senza di loro non avrei potuto farlo così. Non sono venuti a fare i turnisti. Ci siamo svegliati e siamo andati a dormire insieme tutti i giorni. Lo sentiamo tutti come il nostro disco.

Un concetto che torna spesso è quello della piazza. Negli scorsi mesi abbiamo visto piazze pienissime per la Palestina: è lì che si trova ancora una speranza?
Assolutamente sì. La modalità egoistica e individualista ha mostrato dove porta. Non c’è salvezza senza unità.

Oggi il rap secondo te ha perso quest’idea?
Sì, ma non perché sia peggiorato: sono cambiate le generazioni, e quando cambiano le generazioni cambia l’arte. Denunciare una realtà difficile va bene, ma beatificare violenza e armi in un periodo in cui sta esplodendo tutto mi sembra troppo. Sarebbe il momento di riavvicinarsi. A 13 anni mi sentivo un pesce fuor d’acqua, lottavamo per i valori che per noi erano importanti. Se c’era da fare una manifestazione andavamo tutti, era normale. Io mi sentivo capito dai rapper che parlavano di minoranze e ingiustizie. Oggi i ragazzini che vogliono fare rap non hanno più quell’input: il rap è il mainstream, è la cosa più grossa che ci sia, ed è normale che si sia perso il concetto di aggregazione, di manifestazione, perché è diverso il periodo storico in cui sono cresciuti. 

A proposito di nuove generazioni, in Dancing with the Devil oltre a Neffa hai voluto con te Ele A.
Riprendere quel brano è venuto in modo spontaneo. Ho scritto uno storytelling e ho voluto due ospiti come allora (Bassi Maestro e Mondo Marcio, ndr). Ho pensato a Eleonora perché spacca e perché mi avevano mandato un’intervista in  cui lei raccontava che si era innamorata del rap ascoltando i QVC. Questa cosa mi aveva molto colpito ed era un po’ che volevo tirarla in mezzo per qualcosa, quindi ho pensato che fosse un bella cosa farle fare la parte due di un pezzo di QVC. Non avevo dubbi che avrebbe spaccato.

Cosa rappresenta la copertina?
Anche nella copertina c’è l’idea di altrove. Abbiamo deciso di andare a scattare tutte le foto per l’artwork del disco in due città abbandonate in Basilicata: è un posto assurdo, sembra davvero di stare su un altro pianeta. Manuel, uno dei miei collaboratori nonché uno dei miei più grandi amici, è andato lì, ha fatto un po’ di giretti da solo e mi ha detto: “Dobbiamo andare lì a scattare, è tutto già pronto, non devi fare niente”. La foto è uno scatto analogico. Noi non abbiamo fatto assolutamente nulla. Siamo entrati in una casa abbandonata dove c’era quel frigorifero, con sopra poggiato quel televisore rotto: era tutto già lì, la scenografia era pronta, e dietro c’era una finestra. Io mi sono arrampicato sulla casa che stava di fronte a quella finestra e abbiamo scattato.

Cosa vorresti arrivasse in particolare di questo album alle persone?
Quello che mi stanno scrivendo è quello che volevo arrivasse. Elsewhere è un abbraccio, un premio di consolazione per chi magari non ce l’ha fatta, un amuleto da usare per essere compresi, per sentirsi meno tristi, per affrontare la vita più serenamente. Che poi è come volevo che fossero tutti gli altri miei dischi: quello non è mai cambiato.

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