Interviste

Ballando liberi nella “discoteca primitiva” degli I Hate My Village

A gennaio Adriano Viterbini, Fabio Rondanini, Alberto Ferrari e Marco Fasolo hanno pubblicato l’album d’esordio di questo nuovo progetto musicale. Un progetto tutto teso alla ricerca e alla libertà di fare semplicemente quello che gli piace

Autore Federico Durante
  • Il19 Giugno 2019
Ballando liberi nella “discoteca primitiva” degli I Hate My Village

© Ilaria Magliocchetti Lombi

I loro curricula musicali non hanno bisogno di raccomandazioni. Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion), Fabio Rondanini (Afterhours, Calibro 35), Alberto Ferrari (Verdena) e Marco Fasolo (Jennifer Gentle) qualche mese fa hanno dato vita a uno degli esperimenti musicali più curiosi del 2019, gli I Hate My Village. Tanti li chiamano “super band”, ma è una definizione in cui non si riconoscono: loro suonano semplicemente quello che gli piace fare. A metà fra ricerca sonora e tributo alle musiche africane – Rondanini e Viterbini hanno suonato con artisti come Bombino e Rokia Traoré – il loro eponimo album d’esordio uscito a gennaio per La Tempesta International ha convogliato i loro già affezionati pubblici verso l’apprezzamento di una musica “altra”, lontana dal songwriting canonico. Ma l’obiettivo – giura Marco, che oltre che bassista è anche produttore del progetto – è comunque quello di andare incontro all’ascolto, preservando la freschezza dell’approccio come un valore assoluto.

Voi come intendete la band I Hate My Village? Voglio dire, il progetto è nato in maniera molto spontanea dalla comune passione di Fabio e Adriano per le musiche africane e mi sembra caratterizzato da una grande “fluidità” di approccio. La lineup della band, per esempio, sarà sempre questa o possiamo aspettarci delle “new entry” in futuro?

[Adriano] La cosa bella di questo progetto è che è un esperimento. In quanto tale esce un po’ fuori dai confini dell’essere un gruppo. Il progetto sta crescendo sia musicalmente sia umanamente. Di sicuro l’incontro fra noi quattro è una cosa speciale. Io da loro ho tantissimo da imparare ed è un rapporto che ci arricchisce continuamente. Sono stimoli molto immediati, non c’è troppo da ragionare. Quando abbiamo fatto il disco con Fabio l’abbiamo fatto in quattro o cinque giorni; Alberto ha sentito i pezzi e li ha cantati di getto; Marco, che ha prodotto il disco e suona dal vivo il basso, ha cercato di rendere fedele il più possibile questa attitudine.

[Fabio] Mi fa piacere che tu faccia questa domanda, perché noi siamo per definizione la “super band”, ma non abbiamo deciso nulla.

[Marco] Quello della “super band” è un concetto espresso da chi è fuori, non certo da chi è dentro.

E la curiosità nei confronti del vostro progetto secondo voi è legata anche al discorso della “super band” o al tipo di proposta artistica?

[Fabio] Sicuramente all’inizio ci ha aiutato. Soprattutto perché eravamo liberi: non avevamo niente da dimostrare, siamo tutti adulti artisticamente. Non avremmo mai fatto uscire una cosa che non ci fosse piaciuta. Spero che poi sia anche arrivato un disco, un suono che va al di là degli attori.

Quindi c’è anche una componente “ludica”: fate quello che vi diverte.

[Fabio] Assolutamente. Abbiamo fatto il disco che volevamo fare, che volevamo ascoltare. Senza neanche ragionarci troppo a tavolino: ci siamo scambiati un po’ di dischi e ci siamo trovati sulla stessa lunghezza d’onda.

Avete accompagnato in tour due grandi della musica africana come Bombino e Rokia Traoré. Cos’è che ha fatto scattare in voi il passo successivo, cioè quello di dare vita a un vostro progetto ispirato anche a quel tipo di sonorità?

[Fabio] Noi avevamo iniziato a vederci addirittura prima di suonare con dei musicisti africani.

[Adriano] La cosa bella è che quando io e Fabio ci siamo messi in sala prove a suonare insieme, la prima volta è uscito subito qualcosa che ci divertiva. La componente del divertimento e della sorpresa nella musica è qualcosa di impagabile. È quello che ci ha fatto sperare di poterlo condividere con gli elementi che ci sembravano i migliori che ci fossero in Italia: Alberto e Marco.

I Hate My Village - foto di Ilaria Magliocchetti Lombi - 2
I Hate My Village (foto di Ilaria Magliocchetti Lombi)

Le bozze iniziali dei pezzi nascono da jam session fra Fabio e Adriano e poi vengono passati a Marco e Alberto?

[Fabio] Sì, le idee nascono sempre da improvvisazioni. Però non ci siamo visti per jammare, ma per suonare insieme. Abbiamo visto da subito che la cosa diventava ben definita. Settimane fa ci siamo trovati in uno studio a suonare e sono venute delle cose nuove e completamente diverse. Non abbiamo ancora il teorema per poter riprodurre e duplicare questa cosa.

[Adriano] Diciamo che siamo ancora in un momento di leggerezza. Ci fa stare bene.

[Fabio] Dagli africani abbiamo imparato anche quello: celebrare il momento in cui fai musica.

[Adriano] Una volta ho suonato a Londra con Bombino davanti a tantissima gente senza nemmeno fare una prova. È una modalità che vivi quando stai insieme agli altri e perché sai che ci si capisce musicalmente, non c’è troppo da architettare. È un’azione artistica, un altro modo.

Marco, riguardo alle modalità di registrazione del disco: quali scelte di produzione sono state fatte, anche a livello di strumentazione?

[Marco] Forse l’aspetto tecnico è quello meno interessante. C’è stata la sfida di volerlo fare in un tempo abbastanza ristretto. Quindi la cosa più importante per me era riuscire a trovare un vestito, un’estetica giusta senza perdere l’immediatezza del progetto. Mi avevano fatto sentire dei provini di chitarra e batteria e stavano in piedi. Però mi sono messo nei panni di un ascoltatore e mi sono immaginato un vestito un po’ più “imbottito”. Nonostante le apparenze, è comunque un progetto che vuole farsi ascoltare, anche se non è il più facile del mondo.

Alberto, tu su questo progetto fai un lavoro che si discosta dal tipo di sonorità per le quali la maggior parte delle persone ti conosce. Che approccio hai con le basi che i ragazzi ti sottopongono? Come sviluppi le melodie?

[Alberto] Come diceva Adriano, ho fatto tutto il più presto possibile. Volevo che la cosa fosse quasi jammata, non ho usato i soliti parametri per fare musica. Anche i testi e le melodie sono arrivati insieme. Mi sono buttato, quasi senza ascoltare il disco.

[Adriano] Per esempio la prima take di Tony Hawk of Ghana è quella definitiva.

Ma chi è il “Tony Hawk del Ghana”?

[Fabio] È il campione che mai conosceremo. Io e Adriano eravamo appassionati di skate da ragazzini: ci piaceva il contrasto.



Per voi quali sono le peculiarità più affascinanti delle musiche africane a livello proprio di teoria musicale e di ritmi?

[Fabio] Sono molto diverse. Il più delle volte stanno in una dimensione diversa dalla nostra. Non hanno mai il primo battito e se noi ragioniamo “in quattro” loro lo fanno quasi sempre “in sei”. È un fatto culturale e linguistico.

[Marco] In più va ad attingere proprio dalla natura, dagli elementi. Qui invece è tutto frutto di altri frutti che sono già marci.

[Adriano] C’è anche l’idea che il tempo non sia così “squadrato” come da noi in Europa: lì veramente fluttua. Quando lo vivi, ti senti libero dagli schemi.

Mi piace il vostro apparato iconografico, che credo si rifaccia a quello che è lo spunto originario del loro nome (il film africano I ate my village, appunto): ci parlate del vostro approccio agli artwork? È un tipo di identità (quella horror) che intendete mantenere anche in futuro?

[Adriano] L’artwork l’ha fatto Scarful, un grafico romano che ha curato molto l’immaginario di artisti come gli Zu e i TruceKlan. Ci è sembrato subito che potesse essere la persona adatta a immaginare il nostro mondo e quello del titolo dell’album. Lui ha semplicemente reso ancora più grezzo lo spirito del disco. La copertina è molto impattante: è fatta “male”, ma in maniera figa. Lui sarebbe capace di riprodurre un Caravaggio, ma ha deciso di fare le cose in modo più elementare. È quello che volevamo che la gente percepisse.

Avete iniziato da subito anche una discreta attività live. Ci sono degli accorgimenti particolari nel portare dal vivo i pezzi?

[Fabio] Sì, gli arrangiamenti sono diversi.

[Alberto] Fai conto che il live dura un’ora e un quarto mentre il disco dura 25 minuti.

[Fabio] Visto che è stata una foto ben riuscita, abbiamo cercato di rifare quel meccanismo dal vivo. C’è anche dello sfacciato intrattenimento, senza paura.

[Adriano] La cosa bella del modo in cui facciamo i concerti è che non ascolti il gruppo di Alberto, Fabio, Marco e Adriano ma ascolti della musica che ti fa star bene. Come una sorta di discoteca primitiva.

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