Interviste

Il terrore e il dubbio sono tra noi e nella colonna sonora de “Il Mostro” di Alessandro Cortini

La serie Netflix diretta da Stefano Sollima, disponibile da oggi, ha tra i suoi punti di forza le musiche originali. Ne abbiamo parlato con il compositore bolognese

  • Il22 Ottobre 2025
Il terrore e il dubbio sono tra noi e nella colonna sonora de “Il Mostro” di Alessandro Cortini

Foto di Emanuela Scarpa

La cosa che più colpisce della colonna sonora de Il Mostro di Stefano Sollima – da oggi su Netflix – è lo spazio lasciato ai silenzi. Sembra un controsenso, ma è proprio questo che la rende speciale nel suo genere. Le musiche della serie non sono quelle che corri a riascoltarti subito dopo la visione, al massimo te le vai a cercare per comprendere meglio quella sensazione straniante che ti accompagna per tutti i quattro episodi. I temi – così ama definirli Alessandro Cortini – si mescolano e confondono con i brani dell’epoca che comunque non sono mai extradiegetici. Passano in tv o in radio, non provengono dal nostro mondo.

Il lavoro compiuto dal musicista bolognese, da anni componente dei Nine Inch Nails e unico italiano a essere stato introdotto nella Rock and Roll Hall of Fame, rende ancora più giustizia a un progetto che non ricalca stilemi già consolidati. Guardando il trailer, erroneamente, si ripensa al capolavoro di David Fincher Zodiac. Ma è un’illusione. Il Mostro trasuda di Italia di fine anni Sessanta, di campagne desolate e di ultimi. Ed è anche per questo motivo che Alessandro è entrato subito in azione non appena è arrivata la chiamata di Stefano Sollima.

Foto di Emanuela Scarpa

Passeggiando nella campagna che circonda la sua casa di Lisbona si è riappropriato delle sensazioni e di quei brividi provati da bambino, quando in televisione non si parlava d’altro. «Ho seguito il cuore e mi sono subito fatto trascinare dalla scintilla. In questi casi devi seguirla e non importa se utilizzi con un registratore a cassette o se si sente il cane che abbaia. Quello che non bisogna mai perdere è la risposta emotiva alle cose» racconta. Di trovate nel corso della serie ce ne sono tante, a partire dalla sigla che sfrutta La Tramontanta, brano del 1968, che è assume quasi i connotati di un vero e proprio personaggio durante le indagini sulla “Pista sarda”.

«Lavorare per la prima volta con un team italiano a un progetto italiano è stata la cosa più divertente e più facile di tutte. Eravamo una squadra a tutti gli effetti» rivela Alessandro Cortini che, per lavorare alla serie, è persino uscito dalla sua “tana” dove ogni giorno scrive musica e si è spostato a Roma per essere a stretto contatto con regista e montatori. Chiacchierando con lui si rimane stupiti dal suo modo limpido, e solo apparentemente semplice, di intendere una colonna sonora. Le sensazioni sono al di sopra di tutto e vanno preservate, al punto da non cercare ispirazioni altrove. Al massimo, in caso di dubbi e incertezze, affidarsi al consiglio di un compagno di viaggio che naviga le stesse acque come Atticus Ross.

Foto di Emanuela Scarpa

L’intervista a Alessandro Cortini

Non è la prima volta che ti cimenti in un progetto che unisce musica e video. Com’è scrivere una colonna sonora?
Dal punto di vista dell’essere un compositore per immagini non mi sono mai ritenuto tale. Nel senso che non faccio musica “per”. A livello creativo fatica a vederlo come un processo unilaterale. La musica per me è sempre un foglio di un certo colore che permette all’ascoltatore o alle immagini di associarsi e sviluppare un’emotività che cambia a seconda dei casi e delle persone. 

Quale è stato il tuo approccio al lavoro?
Quando Stefano mi ha proposto di lavorare assieme si sono allineate tutta una serie di cose. La prima era la possibilità di lavorare con un regista che conoscevo molto bene e al cui lavoro ero molto affezionato. La seconda è stata l’opportunità di lavorare a un progetto in italiano con un team italiano. Si crea un automatismo unico per via anche del background. Non è solo un banale discorso di lingua.

Il vantaggio l’hai riscontrato solo nell’ambito lavorativo o anche per il fatto che la serie sarebbe stata vista soprattutto da un pubblico italiano?
No, in realtà non sono mai così lungimirante quando scrivo. Mi fermo unicamente al progetto cui sto lavorando con l’assunzione che, se va bene a me e alla gente con cui lavoro e ne siamo orgogliosi, di conseguenza piacerà. Potrà sembrare un po’ presuntuoso come atteggiamento, ma non lo vedo come tale. Anche perché farei fatica a lavorare a qualcosa di cui non fossi completamente convinto. Devo sentirmi legato a quello che scrivo.

Conoscevi la storia del Mostro di Firenze?
Essendo nato negli anni ’70 e cresciuto negli ‘80 in Italia, ricordo la vicenda attraverso alcune sensazioni. Era una presenza continua per quanto riguarda i telegiornali. Una sorta di aura negativa e oscura che aleggiava sulla vita italiana. Poi quando sei bambino certe emozioni e certi concetti non riesci a spiegarteli. Eppure, li vivi in modo intenso anche se non li capisci. Per cui, sì. Avevo un legame molto profondo con il progetto ed è anche uno dei motivi per cui ho iniziato subito a lavorarci.

Quindi hai iniziato a scrivere le musiche prima ancora di vedere il girato?
Appena Stefano mi ha chiamato, vivendo in campagna e, ricordandomi della connessione tra la campagna e il Mostro, ho cominciato a fare delle lunghe camminate ascoltando musica. E da lì ho sviluppato i primi “semi” nel mio studio. Devi sapere che io compongo tutti i giorni. “Spippolo” con i registratori e con le idee che mi passano per la testa. Gioco come un bambino. L’ho sempre fatto da anni e questo mi ha permesso di sviluppare una vera e propria biblioteca catalogata in base ai sentimenti o alle emozioni che creano quei frammenti. Quei pezzi poi rimangono lì per anni e li ripesco quando sento che è l’occasione giusta. Per quanto riguarda Il Mostro, avevo alcuni “semi” che ho mandato a Stefano prima ancora che la serie fosse sviluppata. Queste tracce non finite sono servite per creare un tessuto sonoro. Da quei temi è nata buona parte della colonna sonora.

Quale è stato l’aspetto più complicato?
La cosa più difficile è stato a volte il non riuscire a trovare la musica giusta per una scena e, dopo averci lavorato per mesi, vedendola all’interno dell’episodio, rendersi conto che funziona meglio senza colonna sonora. Sembra assurdo (ride, n.d.r). Ancora più complesso spesso è accettare che il processo per arrivare a questa consapevolezza ha richiesto di scrivere tantissima musica. La scena in cui il faldone viene portato in tribunale è stato uno di questi casi.

Una particolarità della colonna sonora che hai scritto è che ti rendi conto della sua presenza nel momento in cui è assente.
È proprio l’effetto desiderato. In una serie come questa la musica non può essere decisiva ma deve accompagnare il discorso senza esaltarlo. Per enfatizzare il concetto dell’indecisione della mancanza di soluzione ho utilizzato dei temi che si ripetono e che si sviluppano solo a livello sonoro, ma non a livello armonico. Hanno la forma delle idee che ti frullano in testa.  

Un’altra cosa che mi ha colpito è il modo in cui spesso la musica originale si integra alle canzoni dell’epoca. Come hai lavorato per riuscire a ottenere questo effetto?
Il lavoro di cucitura e fusione della colonna sonora con le canzoni è merito del lavoro di squadra con Alessandro Cellai. Senza di lui la colonna sonora non sarebbe quella che è. Ha un’affinità emotiva con la mia musica e un’abilità innata nel riuscire a adattare le mie idee alle scene. È stato stimolante giocare con i brani dell’epoca che ascoltavano i miei genitori e che hanno accompagnato la mia infanzia.

A tal proposito, c’è la sigla che è basata su La Tramontana del 1968.
Quello è uno dei connubi più simbiotici. L’idea iniziale credo sia stata di Stefano, ma non sono sicuro di ricordare. La mia intuizione è stata di riarrangiarla utilizzando la voce originale dell’attrice. È nata in pochissimo tempo, due giorni, una cosa rara per le sigle. Tra l’altro, i cambiamenti tra la prima versione e quella finale sono stati minimi. Netflix ci ha anche chiesto di registrarne anche una più lunga, ma mi sono opposto perché è qualcosa che funziona nell’arco dei trenta secondi. Altrimenti perde tutta la magia.    

Hai rivisto qualche film o ascoltato qualche colonna sonora per trarre ispirazione?
Io non guardo tante cose devo dire. Non perché non mi piaccia, ma non dedico molto tempo a fare ricerca sul lavoro di altre persone, sia a livello di registi o compositori.  Credo che ognuno funzioni in maniera solitaria. Io sono molto più creativo se l’input arriva da cose non musicali. Cosa c’era di meglio di avere le suggestioni della mia infanzia, la campagna di fronte casa. Cosa vuoi di più di luoghi che assomigliano a quelli dove gli omicidi sono successi?

Quindi non hai chiesto neppure un consiglio a Trent Reznor e Atticus Ross?
L’unico consiglio lo chiesi ad Atticus anni fa quando iniziarono ad arrivarmi le prime proposte di colonna sonora. Mi trovavo in difficoltà perché a volte mi venivano chieste cose che non sentivo mie. Lui mi spiegò che esistono due approcci. Puoi essere un compositore di musiche per film e serie per il quale fare una cosa diversa è una sfida stimolante. Ce ne sono tanti di questo tipo che ammiro. Oppure puoi scegliere di fare solo le tue cose e continuare. Mi rassicurò dicendomi: “Vedrai che le persone o i progetti che gravitano attorno a un’emotività o un tessuto sonoro simile al tuo arriveranno”. E devo dire che ha avuto ragione.

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