“50 anni, un numero in cui non mi riconosco”: intervista a Max Pezzali
Il 17 novembre è uscito il nuovo disco di Max Pezzali, “Le Canzoni alla Radio”, che vede la collaborazione di ospiti d’eccezione come Nile Rodgers, Nek e Francesco Renga
Il nuovo disco di Max Pezzali vuole essere sin dal titolo un omaggio a quel mondo che l’ha prima stregato e poi portato al successo artistico: il mondo della radio. Le Canzoni alla Radio, uscito il 17 novembre, contiene 7 brani inediti, un remix e 30 successi della sua storia musicale fra 883 e carriera solista. Il disco vede la collaborazione di Nek e Francesco Renga nel singolo Duri da Battere – sarà con loro in tour a partire da gennaio – e del grande Nile Rodgers, che con la sua Hitmaker ha firmato la ritmica della title track. Ma questo 2017 è anche un anno di importanti anniversari: sono infatti passati 25 anni dall’uscita dello straordinario album d’esordio, Hanno Ucciso l’Uomo Ragno, e il 14 novembre Max ha festeggiato il suo 50esimo compleanno: «Un numero in cui non mi riconosco».
Il tuo nuovo disco ha un titolo molto semplice e molto bello. Che cos’era la radio per un giovane degli anni ’80?
Per i ragazzi degli anni ’80 non era così facile reperire musica come oggi. Adesso l’offerta è addirittura maggiore della domanda. Allora invece c’era una grande fame di musica perché era il principale mezzo di emancipazione dei giovani. C’era un mondo di nicchia per gli appassionati “hardcore” – il mondo delle fanzine e dei negozi di dischi indipendenti – e per tutto il resto esisteva la radio. Non era più la radio libera degli anni ’70, però c’era ancora una dimensione di pionierismo. Una volta stavo cercando una canzone che avevo sentito qualche giorno prima ed ero lì pronto con la cassetta per registrarla: era Chance dei Big Country. Ricordo l’emozione di quando sono partite le prime note e la soddisfazione di averla registrata: una specie di pesca in cui il pesce aveva abboccato. La radio era protagonista di quel mondo.
Nella title track canti: C’è una musica per chi ha 20 anni e per chi non li ha, da più di 20 anni e forse glieli ricorderà. Qual è la musica che ti ricorda i tuoi 20 anni?
Ce n’è tanta. Io ho avuto un percorso di evoluzione musicale particolare. Ero partito prima dal metal, poi dal punk. Avevo questa passione per i generi più estremi perché servivano anche a stabilire una distanza fra te e gli odiati fighi della classe. Sicuramente c’erano i padri fondatori del punk – Ramones, Sex Pistols, Clash – ma mi piaceva molto la scena più underground, come i Cramps. Poi ho “scoperto l’America” grazie a Springsteen. Mi ha fatto innamorare di un’America della provincia di cui ancora subisco il fascino: quell’immaginario fatto di stazioni di servizio, di backroads, di difficoltà di una classe operaia sempre più a rischio. Nei primi anni ’80, poi, un mio amico mi fece ascoltare questo gruppo, gli U2, che erano ancora solo una delle tante band che giravano. Erano gli anni di Boy e October. Ho capito che quella poteva essere una sintesi perché c’erano insieme quello che mi piaceva dell’Europa e il songwriting americano.
Il brano ha un chitarrista ritmico d’eccezione: Nile Rodgers.
Quando ero nella fase punk, per me tutto il mondo alla Chic ed Earth, Wind & Fire era la negazione di quella “crudezza” che mi piaceva: era musica associata alla disco, quindi al massimo della commercialità. Però quando partiva un suo riff non potevamo fermarci dal battere il piede a tempo. Quando cominciai a vedere la bellezza di tutto ciò che è pop ne capii la grandezza. Persino i Clash avevano scritto un pezzo come The Magnificent Seven: se lo facevano anche loro, allora la chitarra funky si poteva usare! All’epoca tu non ascoltavi la musica e basta: ne adottavi anche l’ideologia, diventava un’uniforme. Per questo non c’era ancora molta intercomunicabilità tra i generi. Per me la scoperta della potenza del funk è stata come quella del pop: se lo scopo di ciò che fa il musicista è trasmettere emozioni alle persone, allora non possiamo mettere barriere al tipo di emozioni da comunicare.
La collaborazione con lui l’avevi in mente sin dall’inizio oppure è saltata fuori in corso d’opera?
Era fra i desiderata. Ho buttato giù il pezzo registrando le tastiere a casa mia sul computer. Ho utilizzato un plugin che ha anche un tipo di preset che chiaramente è modellato sullo stile di Nile Rodgers. Per cui quando ho fatto sentire la demo a Claudio Cecchetto, lui mi ha detto: «Qui ci starebbe proprio una chitarra di Nile Rodgers!». Tentare non costava niente, al limite ci avrebbe detto di no. Tramite alcuni contatti siamo riusciti ad avere la sua mail. Una cosa meravigliosa: gli ho mandato questo provino fatto da me in casa, presentandomi e chiedendogli la possibilità di una collaborazione. Mi ha risposto che gli piaceva! Non solo l’aveva ascoltato ma ci aveva già messo delle sue idee. Così è partito uno scambio di sessioni fra qui e Londra. Mi rendo conto che magari per il pubblico più giovane Nile Rodgers è solamente il chitarrista nero che suona in Get Lucky dei Daft Punk, ma per me è stato un onore poter fare una canzone con lui.
Il ‘900 è stato definito “il secolo breve”. Cos’è il Secolo Giovane?
Il 21esimo secolo ha caratteristiche di continua auto-rigenerazione. Nel ‘900 tutto sembrava immutabile. Quando a scuola di parlava di blocchi est-ovest, di Patto di Varsavia, di Nato, si pensava che quella divisione non sarebbe mai passata. Era il secolo delle certezze, mentre oggi succedono cose che non avremmo immaginato anche solo pochi mesi prima, anche in un paese apparentemente immutabile come l’Italia. E noi non siamo abituati a questa cosa: ci terrorizza, cerchiamo di trovare delle contromosse. Dovremmo utilizzare non lo scontro diretto ma una tecnica da judo: utilizzare la forza dell’avversario – in questo caso il tempo che passa così rapidamente – a nostro vantaggio, trasformarla in una nostra forza.
Da gennaio sarai in tour con altri due grandi protagonisti della tua generazione: Nek e Francesco Renga. Ci puoi anticipare qualcosa sul tipo di spettacolo che porterete sul palco?
È ancora tutto in divenire, però sarà un concerto di team: prenderemo il meglio della nostra produzione lo metteremo a disposizione dello spettacolo. L’idea è di interagire il più possibile tra di noi, fare in modo che una mia canzone sia cantata anche da Nek o da Renga – o da tutti e due – e così via per il repertorio di tutti, in modo da dare una visione diversa delle canzoni. Per esempio il pezzo che abbiamo fatto insieme, Duri da Battere, che non riuscivamo a far quadrare dal punto di vista melodico, nel momento in cui sono venuti in studio e hanno messo giù due idee aveva improvvisamente senso. L’unione di queste tre voci, così diverse fra loro, ha dato un risultato inaspettato. Le canzoni in questo modo possono avere una vita meno personale e assumere una sorta di universalità.
Nel febbraio del ’92 fa usciva il disco che avrebbe cambiato la tua vita, Hanno Ucciso l’Uomo Ragno. A distanza di 25 anni, c’è qualcosa che cambieresti tu di quell’album?
Probabilmente in quel momento avrei cambiato tutto, nel senso che l’idea di avere a disposizione solo quell’occasione per dire la nostra ci dava quel panico del tipo: “Oddio, ho dimenticato questo; oddio, avrei dovuto scrivere una canzone che faceva così e così”. A distanza di tutto questo tempo ritengo che, per raccontare me e Mauro (Repetto, ndr) in quel momento, probabilmente era un album perfetto. Sicuramente potevamo registrarlo meglio ma parte della sua forza è stata legata a questa sua imperfezione, a questo suo essere grezzo, buttato fuori. Riascoltato oggi secondo me è perfetto.
Andiamo al secondo importante anniversario: il 14 novembre tu hai spento 50 candeline.
Ahimè sì! Mi sento vecchio per il numero, che secondo me non mi rappresenta. Ricordo i 50 anni di mio padre e lui era un’altra persona: aveva un’altra autorevolezza, un diverso modo di porsi. Nella sua generazione a quarant’anni erano già dei “signori”, e a cinquanta signori di una certa età. Io non riesco a capire bene cosa sono.
Ti consideri ancora ambizioso? Se sì, cosa vuol dire avere ambizioni a 50 anni?
Credo che le ambizioni siano un motore che non si può mai spegnere. Quando pensi di avere ottenuto tutto il possibile, quello è forse il momento di andare in pensione. Io ho l’ambizione molto forte di poter ancora scrivere la mia canzone più bella. Sono sempre convinto che potrei fare di meglio, che da qualche parte c’è un’idea che potrà trasformarsi nella canzone per me definitiva. Per ora sento di non esserci ancora arrivato. Forse non ci arriverò mai, ma è un bell’obiettivo.