Il cambiamento visto dalla “trincea” di Babylon: intervista a Carlo Pastore
Ha esplorato i terreni di molti media diversi: dagli inizi a Rockit all’esperienza televisiva con MTV e X Factor fino a quella che oggi considera la sua casa, il programma Babylon su Rai Radio 2, Carlo Pastore ha saputo intuire i nuovi fermenti del panorama musicale prima e meglio di tanti altri
Nel corso della sua vita professionale ha esplorato i terreni di molti media, linguaggi, testate diverse e audience di riferimento diverse: dagli inizi a Rockit (con cui iniziò a collaborare giovanissimo, per poi diventarne caporedattore a 19 anni) all’esperienza televisiva con MTV e X Factor fino a quella che oggi considera la sua casa, il programma Babylon su Rai Radio 2, in onda nel fine settimana, Carlo Pastore ha saputo intuire i nuovi fermenti del panorama musicale prima e meglio di tanti altri. Aggiungiamoci il fatto che è frontman di una band (i Wemen, peraltro usciti da poco con il nuovo album Everything You Kill Is Beautiful) e, soprattutto, direttore artistico di uno dei più rispettati festival di musica indipendente italiana – il Mi Ami di Milano – e avremo il profilo di un professionista della musica che da sempre vive la sua passione a tutto tondo.
Si parla molto dell’abbattimento della barriera fra area indipendente e area mainstream però nelle fasce centrali della giornata delle radio nazionali non si sente così tanta musica indipendente di qualità. Cosa diresti ai tuoi colleghi delle altre radio?
Questa narrativa dell’indipendente italiano che ha conquistato il mainstream prende una piccola parte di verità, cioè qualcosa che è accaduto a una manciata di artisti che è riuscita a fare il breakthrough nei network radiofonici nazionali, ma per il resto le grandi radio continuano a suonare soltanto il grande pop italiano e internazionale. Come dice il mio amico Andrea Poggio, forse non sono le radio mainstream a essersi accorte degli artisti indipendenti: sono questi ultimi che hanno iniziato a scrivere per loro. Questa narrativa nasce da un fatto antropologico e socio-culturale: l’Italia in questi ultimi anni aveva bisogno di qualcosa di nuovo, anche nella musica. Ci eravamo rotti il cazzo di quello che arrivava da prima – uscivamo da una crisi fortissima, con piccoli segni di ripresa. La musica è un megafono di queste cose e spesso anticipa movimenti che arrivano successivamente. Quindi anche nella musica – come nell’industria e nella tecnologia – c’era bisogno di startup. L’idea che ci fosse qualcosa di nuovo da raccontare piaceva ai media. Ma non bisogna confondere l’esperienza singola di alcuni artisti con una scena intera. Il mio lavoro rimane sempre e comunque Vietnam: trincea.
Però secondo te in questo momento c’è una specie di “Italian wave”? Assistiamo a fenomeni come Giorgio Poi che va all’Eurosonic, Joan Thiele e Wrongonyou al SXSW, Cosmo in tour in Europa, Liberato al Sónar: da alcuni mesi si sta creando un vero export musicale italiano.
Ho vissuto questo processo da dentro. Giorgio all’Eurosonic l’abbiamo portato noi con Radio 2. La prima data – anche se è stata una “non-data” – che ha fatto Liberato, gliel’ho fatta fare io al Mi Ami 2017. Poi io collaboro con Club to Club e sono stati loro a portarlo al Sónar. Con Better Days, società di cui sono socio, nell’ultimo anno abbiamo lavorato a un progetto che prima non c’era: l’Italia Music Export. La responsabile è la precedente direttrice di Rockit, Nur Al Habash. Lei ha scritto il progetto insieme a Better Days, che l’ha sviluppato, e l’abbiamo presentato in Siae. Grazie a una persona illuminata come Filippo Sugar, Siae ha deciso di aprire un ufficio di music export che in questo momento sta facendo proprio questo: aiuta l’industria a portare gli artisti ai vari conference festival come SXSW, Eurosonic, Waves. L’industria musicale italiana vuole partecipare da protagonista a quello che accade nel mondo e senza paura di cantare nella propria lingua, una cosa molto interessante. Per esempio in questo momento Le Monde sta scrivendo un sacco di articoli su Andrea Poggio, Coma Cose, Cosmo, tutta gente che canta in italiano. Come io amo sentire i gruppi di un’etichetta francese fighissima che si chiama Microqlima, alla stessa maniera i francesi vogliono sentire cose in italiano.
Tornando indietro ai tuoi inizi: tu hai iniziato giovanissimo a occuparti di musica, a Rockit, ma la tua “stella” è nata con MTV, quando il canale ancora faceva scuola. In che modo ti ha formato quel tipo di esperienza?
MTV cercava un VJ per un programma pomeridiano di musica “alternativa” – così si diceva all’epoca – e mi hanno preso. È stato molto formativo per me. Innanzitutto è stato estremamente figo farlo: per me diventare VJ di MTV significava entrare nella squadra per cui fai il tifo. Quando ho iniziato facevo un programma che faceva parte del mio mondo. Siccome però MTV stava cambiando un po’ la sua mission, diventava cioè un’emittente generalista e giovanilista, stava in qualche modo abbandonando la propria identità. Io funzionavo bene televisivamente e decisero di farmi fare il flagship del canale: TRL. È stato un passaggio importante perché prima TRL e poi X Factor mi hanno fatto capire che quello che volevo fare io non era la televisione. MTV non era la televisione: era semplicemente MTV, un canale dove c’erano energie creative e si parlava di musica. TRL e X Factor sono invece la TV che prende la musica e la utilizza per fare televisione. Allora ho deciso di fare la radio. Si aprì un’opportunità su Radio 2 e feci un primo anno di programmi generalisti. Poi ho chiesto di fare quello che mi piaceva, ripartendo da mezzanotte. Oggi ho un programma che mi permette di raccontare un mondo che è quello che frequento, per cui lavoro, per cui organizzo festival.
Infatti sei direttore artistico del Mi Ami. Riguardo al Mi Ami Ora: perché una versione invernale del festival? E ci dai qualche anticipazione sull’edizione del 2018?
Io ho iniziato a fare il Mi Ami quando ancora non facevo neanche MTV, dal 2005. Da questo “osservatorio” ho visto davvero cambiare le cose nella scena musicale italiana. All’inizio non c’era niente di tutto questo. C’è stato un periodo, diciamo dal 2001 al 2007, in cui non succedeva niente: non uscivano dischi importanti, chiudevano i locali. Da quel momento in poi, invece, sono cambiate le cose. Il Mi Ami Ora nasce dal fatto che ogni due anni abbiamo fatto il Mi Ami Ancora, lo spin-off invernale del Mi Ami. Quest’anno non abbiamo trovato una location in grado di contenere due o tre palchi, come un festival richiede, quindi abbiamo deciso di farlo in due location diverse. Abbiamo cercato come sempre di raccontare la musica del futuro prossimo – Andrea Poggio, Verano, Wrongonyou… – e poi abbiamo coinvolto uno dei percorsi più interessanti degli ultimi anni, quello di Ghemon. Mi piaceva l’idea di dargli la possibilità di esprimersi su un palco importante come quello del Fabrique, su cui non era mai stato. Sul Mi Ami 2018 (25-26 maggio) ti posso anticipare che ci sarà una grande reunion.
Per concludere: ci fai una playlist essenziale “by Carlo Pastore” di cinque pezzi che dovremmo sentire in questo periodo?
- Rhye, Stay Safe
- Superorganism, Something for Your M.I.N.D
- Kendrick Lamar feat. Jay Rock e altri, King’s Dead
- Andrea Poggio, Mediterraneo
- Richard Russell feat. Sampha, Close but not Quite