Modern boy: intervista a Jack Antonoff, il produttore preferito della tua popstar preferita
Da Taylor Swift a Lana Del Rey, è il deus ex machina del migliore pop contemporaneo. Ma porta avanti con passione anche il suo progetto da frontman: i Bleachers, che l’8 marzo pubblicano il nuovo album
Cos’hanno in comune Taylor Swift, Lana Del Rey, Lorde? E ancora: Florence and the Machine, St. Vincent, Sia, Clairo… Semplice: hanno tutte lavorato – in maniera più o meno estensiva – con una delle grandi “mastermind” del pop contemporaneo, il produttore e songwriter Jack Antonoff, che abbiamo intercettato per questa intervista esclusiva appena prima che vincesse il Grammy Award come Producer of the Year per il terzo anno consecutivo.
Il nuovo album dei Bleachers
Ma attenzione: Antonoff non è soltanto “il produttore di”. Ha sempre fatto musica in prima persona, prima come chitarrista dei Fun (protagonisti di un unico successo, quella We Are Young feat. Janelle Monáe che ha segnato in modo così forte e così effimero quell’ibrido fra indie e pop che sarebbe diventato il marchio di fabbrica di Antonoff) e poi come frontman dei Bleachers.
Con questa folta band (i Bleachers contano sei membri) ha dato alle stampe già tre album: Strange Desire (2014), Gone Now (2017) e Take the Sadness out of Saturday Night (2021). È imminente invece l’uscita del nuovo album, intitolato semplicemente Bleachers, disponibile dall’8 marzo.
L’album Bleachers è un’opera estremamente composita in termini di suoni, mood, stili, approcci. Un mosaico di ispirazioni che va dalla gustosissima spacconeria rock and roll di Modern Girl all’introspezione di Alma Mater, con quel suo tocco così squisitamente cinematico. E quella patina “glossy” da pop rock anni ’80 sofisticato che rende questa musica moderna e dannatamente nostalgica al tempo stesso.
Ma soprattutto, il nuovo album dei Bleachers è una delle grandi release pop rock di questo 2024. Sarebbe sbagliato considerarlo un semplice side project o il disco in cui Antonoff ha buttato i materiali scartati dai dischi delle sue eccellenti collaboratrici: no, Bleachers è un album completo, da ascoltare e riascoltare.
Un personaggio divisivo
Anche in virtù del suo status di arci-producer, Antonoff è uno dei personaggi più divisivi della scena musicale contemporanea. Con produzioni che vanno dall’audacia di Reputation di Taylor Swift all’approccio essenziale di Solar Power di Lorde, il suo stile di produzione è lodato o criticato per il suo massimalismo o minimalismo in egual misura. Lui non si colloca in nessun punto preciso di quello spettro: «Vado dove lo richiede il singolo progetto», ci dice Jack Antonoff nel corso di una lunga intervista che – come leggerete – è anche una piccola masterclass di songwriting.
Non solo: essendo Jack Antonoff culturalmente onnivoro, nell’intervista sul nuovo album dei Bleachers trovano spazio la scena newyorkese dei primi anni Duemila immortalata da Meet Me in the Bathroom e band in tutto e per tutto affini ai Bleachers come The 1975, la scrittrice contemporanea Zadie Smith e il suo grande mito, Bruce Springsteen (anch’egli originario del New Jersey). E sì, abbiamo anche parlato d’amore.
Signore e signori, a voi l’intervista a Jack Antonoff, il produttore preferito della vostra popstar preferita.
L’intervista a Jack Antonoff
Hai detto di aver cominciato a scrivere l’album Bleachers sulla base del concetto di “tribute living”. Mi spieghi meglio cosa intendi?
Mi interessava approfondire il sentimento di quando perdi qualcuno e il tempo passa, come ci si sente ad esser vivi quando gran parte della tua vita di tutti i giorni è dedicata a qualcuno che non c’è più. Ma poi l’album ha preso una direzione completamente diversa e ho capito che sarebbe stato invece un lavoro molto più concentrato sul presente.
Modern Girl è una canzone pop impeccabile e divertente, perfetta come lead single del disco. Raccontami com’è nato il pezzo.
È come se avesse buttato giù la porta a calci. La musica, e la cultura in generale, sono diventate così tristi, introspettive, serie. Beh, non ogni conversazione deve essere per forza così cupa. Certo, l’album è pieno di tristezza, ma per il lead single avevo semplicemente voglia di far saltare tutto per aria, di fare casino, di fare lo spaccone e di usare anche dei suoni che non si sentono più molto in radio oggigiorno, come i sassofoni. Ho volutamente tralasciato tutte le “regole” di questo periodo culturale e ho fatto l’esatto opposto.
Perché gli artisti hanno smesso di mettere i sassofoni nei loro pezzi?
Perché probabilmente sono stati usati a sproposito. A un certo punto il sassofono è diventato lo strumento di fatto di ogni scena sensuale dei film di fine anni ’80. Tutti ce lo immaginiamo suonato da un muscoloso uomo a petto nudo. Eppure è un po’ come la chitarra elettrica: una figata di strumento, può essere sia molto aggressivo che molto melanconico.
Sia la canzone in sé che il videoclip emanano un senso di forte cameratismo fra te e i membri della band. Perché per te è importante sentirti parte di un gruppo – “Part of the Band”, per citare i 1975 – anziché avere collaboratori diversi di volta in volta?
Sin da quando avevo 14 anni ho sempre suonato in band. Nel caso dei Bleachers in particolare, l’affiatamento è perfetto, dal vivo la band spacca e nei testi prendo in giro gli altri membri e ci butto dentro un sacco di “inside jokes”. Quindi sì, questa canzone e questo video ti fanno sbirciare un po’ nel nostro “club” e ti invitano a entrarci se ti va.
Questo è il tuo primo album per la Dirty Hit, una delle più interessanti etichette in circolazione. Immagino che tu stesso sia un ammiratore del loro lavoro.
Sì, perché sono come me: fanno quello che gli va di fare. Siamo entrati in contatto per la produzione di Being Funny in a Foreign Language dei 1975. Il tempismo era perfetto, perché era appena terminato il mio contratto con la RCA e non sapevo ancora cosa avrei fatto dopo. Quando ho conosciuto Jamie (Oborne, il fondatore, ndr) e tutto il team della Dirty Hit, ho trovato tutto ciò che sognavo.
In tutta la tua musica, e soprattutto negli album dei Bleachers, c’è un evidente gusto per elementi orchestrali come fiati e archi. Da dove viene questa preferenza?
Penso che venga tutto dai Beatles. Come produttore, la prima musica di cui mi sono innamorato per quanto riguarda gli arrangiamenti è stata quella dei Fab Four. Avevano poche regole: magari a un certo punto di una canzone senza motivo apparente arriva un’orchestrina da una parte, delle campane dall’altra, poi fa capolino un flauto… Un po’ alla Magical Mystery Tour, per dire.
Per cui spesso in studio gravito verso l’opposto di ciò che normalmente metteresti in un determinato punto di una canzone. Mi piace che questi elementi vadano e vengano. Mi piace creare arrangiamenti di archi molto precisi e melodici e al tempo stesso sezioni di fiati che fluiscono con maggiore libertà.
Spesso in studio gravito verso l’opposto di ciò che normalmente metteresti in un determinato punto di una canzone
Uno dei tuoi eroi musicali è Bruce Springsteen. A parte il fatto che siete entrambi del New Jersey, la sua influenza si può sentire chiaramente nel tuo stile. Avete persino collaborato qualche anno fa, su Chinatown. Come sarebbe una tua playlist essenziale di Springsteen?
Penso che la sua canzone migliore sia Tougher Than the Rest (dall’album Tunnel of Love, 1987, ndr). Lui ha molte canzoni più matte, con ricche orchestrazioni, cambi repentini, ma quella in particolare ha qualcosa che trovo molto speciale: la capacità di prendere una canzone molto semplice e darti comunque l’impressione che non ci siano altre canzoni al mondo.
La musica, il suo personaggio, la dichiarazione di sentirsi pronti per l’amore: è tutto perfetto, è ciò che la musica dovrebbe sempre fare, cioè catturare un sentimento. In questo caso il totale è davvero maggiore della somma delle parti. Oppure, per citare una canzone all’estremità opposta dello spettro springsteeniano, adoro Candy’s Room (da Darkness on the Edge of Town, 1978, ndr).
E cosa pensi dell’album Nebraska?
È brillante. Uno dei miei dischi preferiti di sempre. Quello che non dobbiamo dimenticare, riascoltandolo oggi, è che fu una mossa a dir poco azzardata, dopo l’enorme successo che aveva avuto con gli album precedenti. Fare un album del genere, per uno che si trova al culmine del successo, è una cosa che richiede coraggio. È l’esempio perfetto di un artista che fa un salto nel buio senza aderire a nessuna aspettativa. Quando fai un disco così, crei un mondo in cui nessuno può dire con certezza cosa farai dopo.
Hai letto (o visto) Meet Me in the Bathroom?
Ho letto il libro e visto il film. All’epoca ero giovane ma mi ricordo bene quella scena musicale.
Che ricordi hai di quel mondo?
Sai, io vivevo in New Jersey. Lì, fra la fine degli anni ’90 e l’inizio dei Duemila, c’era una discreta scena punk. E questo non si vede nel film. Era una scena autentica: senza riviste, senza etichette… Poi si prendeva la macchina e si andava in città a vedere gli Strokes al Mercury Lounge, i Mooney Suzuki, i Longwave (peraltro parlo di loro nella canzone Jesus Is Dead)… Era un periodo magico.
Prima di tutto dobbiamo chiederci cosa sia esattamente una “scena”. Una scena musicale esiste perché c’è della grande arte. E comporta due cose, una bella e una brutta. Quella bella è che la gente vuole essere vicina a quella scena e proteggerla. Quella brutta è che tutti gli altri vogliono succhiarle l’anima. Ed è allora che tutto comincia a svanire. Il documentario racconta molto bene tutto questo. Gli Strokes sono passati in un batter d’occhi dall’essere una band conosciuta solo da poche persone a New York all’essere il più grande gruppo del mondo, e altrettanto rapidamente è finito tutto.
Mi manca molto il fatto di andare in una zona della città con qualche bar e ristorante e in quei pochi posti trovare tutta la gente che faceva musica in quel periodo. Questo non esiste più, non in quel modo perlomeno. Perché parliamo anche di un periodo antecedente all’esplosione di internet e dei social media, per cui dovevi conoscere la gente per sapere le cose. Per esempio c’erano un paio di bar dove non potevi entrare se non conoscevi il buttafuori.
La critica musicale ha spesso definito il tuo stile come “cinematic pop”, che potrebbe voler dire sia che la tua musica evoca immagini nella mente delle persone sia che sia buona per le colonne sonore. In ogni caso, accetti la definizione?
Sì, concepisco molte delle mie canzoni come se fossero delle scene di un film, con dei personaggi da far muovere nello spazio e così via. È un processo molto “visivo” per me.
Mi piace la natura della presenza di Lana Del Rey in Alma Mater. È molto discreta e basata non solo sulla parte cantata, che è piuttosto minimale, ma anche su rumori e frammenti di conversazione. Ecco, questo è un approccio davvero “cinematico”, no?
Sì, è proprio quello che intendevo prima. Quando faccio una canzone mi chiedo: “Voglio mettere questa persona in una macchina? In camera da letto? In un ristorante?”. Nel caso di Alma Mater, questo spazio era lo studio di registrazione. Volevo trasmettere la sensazione di scrivere una canzone in studio. Spesso quando facciamo delle sessioni il microfono rimane acceso, per cui cattura anche conversazioni, rumori della stanza, tiri di sigaretta…
Spesso quei suoni vengono eliminati. Per esempio, nel caso di Chinatown, volevo che ci fossimo solo io e Bruce su una macchina, non volevo ci fossero suoni di studio. Nel caso di Alma Mater invece è stato come disvelare un vecchio reperto e aggiungere qualche pezzetto intorno.
Quando faccio una canzone mi chiedo: “Voglio mettere questa persona in una macchina? In camera da letto? In un ristorante?”. Nel caso di Chinatown volevo che ci fossimo solo io e Springsteen su una macchina
Hai un qualche metodo quando scrivi musica per altri artisti? Per esempio ho letto che tu cominceresti una sessione di songwriting chiedendo: “Qual è la cosa peggiore che ti è mai successa?”. È vero?
Potrebbe essere vero (ride, ndr)… Mi piace visualizzare tutto il mondo in cui vivi: le cose che ami, le cose che odi. Del tipo: “Fanculo questo, fanculo quello, odio questa ragazza, cos’è questo trend, perché tutti parlano con il proprio cane come se fosse un bambino, fanculo le Kardashian, Kanye è fuori di testa”, e così via.
Più elementi aggiungi su questa lavagna immaginaria, più facile sarà trovare uno spazietto “disabitato” in cui ti puoi infilare. Perché se non ti piace un aspetto della nostra cultura allora non ne vorrai far parte, mentre se ti piace vuol dire che è già successo. Per cui un modo per trovare quegli spazi è parlare di cose che non vanno bene, o di eventi traumatici che hai provato solo tu e nessun altro.
Ho sempre pensato che Bleachers e The 1975 abbiano molto in comune, dal punto di vista sia dei suoni che dei testi. Per questo mi è sembrata l’accoppiata perfetta quando hai prodotto il loro album Being Funny in a Foreign Language. Cosa vi ha spinto a lavorare insieme?
Un giorno mi hanno chiamato e abbiamo parlato di musica. Poi ci siamo incontrati per un giorno in California e ci siamo trovati bene. Mi hanno fatto capire da che parte volevano andare musicalmente. Se il loro album precedente (Notes on a Conditional Form, 2020, ndr) era piuttosto sperimentale, quest’ultimo lo è decisamente.
Il concetto di “shock” dipende da quello che hai alle spalle. Il perfetto esempio è Nebraska di Springsteen: non è uno shock se hai sempre fatto quella musica, ma lo è se prima hai fatto album come Born to Run e The River.
L’idea di base era: cosa c’è di eccitante e di scioccante in questo momento per una band come quella? La risposta era: far suonare la band come una band. E questo si applica anche ai Bleachers: ora che l’estetica da band è tornata popolare e piace alla gente, allora è il momento giusto per andare in studio e far sentire alla gente com’è che suona davvero una band che è in giro da dieci o vent’anni.
Alimenti la tua creatività di songwriter anche con la letteratura? Ci sono scrittori contemporanei che ami in particolare?
Mi piace moltissimo Zadie Smith.
Ti sei recentemente sposato: il matrimonio cambia il modo in cui scrivi d’amore?
Completamente. E ti spiego come. Tutti noi abbiamo delle storie del nostro passato: sono questo, sono quello, faccio schifo nelle relazioni, ho scelto i partner sbagliati… Tutti ci raccontiamo queste storie, e a un certo punto iniziamo a usarle come corazza. Per cui quando non riuscivo a trovare una compagna mi dicevo: “Oh, è perché mi concentro sul lavoro, non c’è spazio per una partner”.
Poi quando incontri la persona con cui vuoi stare è bellissimo, ma è anche un momento di demolizione di tutte le storie che ti eri raccontato fino ad allora. Capisci che non erano vere, che non sei un disastro impossibile da amare, che non sei stupido o egoista: semplicemente non avevi incontrato la persona giusta.