Jack The Smoker, “Sedicinoni” e il costo di fare un classico alla Nas: l’intervista
L’importanza del sodalizio con Big Joe, lo sguardo sulla vita da figlio ma anche da padre, l’aver fatto pace con l’idea che non serve a niente fare a gara con il tempo tiranno del mercato e scegliere di seguire solo il proprio: il rapper milanese ci ha raccontato il disco che mancava alla sua carriera
“Io mai in sosta, la faccia sempre nascosta, perché aspirare a fare un classico alla Nas, costa”. Scriveva così nel 2019 Jack The Smoker in Rapper Posse Track di Ensi alludendo al leggendario masterpiece del rapper del Queens (che solo pochi giorni fa ha celebrato il trentesimo anniversario dell’uscita di Illmatic con l’annuncio di un tour che toccherà anche l’Italia). Cinque anni fa questo poteva sembrare un “semplice” wordplay di uno dei rapper più tecnicamente abili che il rap italiano abbia mai avuto, ma durante questa intervista mi rendo conto che per Jack The Smoker – che settimana scorsa ha pubblicato il suo nuovo album, Sedicinoni – quelle parole avevano e hanno avuto un peso specifico non indifferente.
Ascolta “Sedicinoni”, il nuovo album di Jack The Smoker
E il motivo – forse – c’entra poco col fatto che Illmatic sia universalmente considerato come il miglior album hip hop di sempre, e tanto – probabilmente – con quello che affinché un disco possa essere definito un classico, i pianeti si devono allineare. Come è successo a Jack The Smoker per il suo nuovo album, Sedicinoni, quello che «mancava per mettere un puntino nella mia carriera». Un discorso curioso se si pensa che ventuno anni fa lui e Mace – con il progetto La Crème – pubblicavano L’alba, considerato un culto del rap italiano. Ma le partite con noi stessi, si sa, sono sempre quelle più difficili da gestire (e da vincere) e la «sindrome di un disco non perfetto» attanagliava Jack da tanto tempo.
E forse proprio l’incontro con Big Joe (uno che «parla con la musica»), che gli ha fatto venire voglia di tirare fuori determinate cose che prima non erano mai uscite, il fatto di non essere più solo figlio ma anche padre, cosa che gli ha dato una prospettiva diversa e più riflessiva, o ancora l’aver fatto pace con l’idea che non serve a niente fare a gara con il tempo tiranno del mercato, ma che l’unica cosa che conta è scegliere di seguire solo il proprio, erano le cose di cui Jack The Smoker aveva bisogno per scrivere – finalmente – il suo classico alla Nas. E anche se il prezzo sarà stato alto, questo album lo vale tutto.
L’intervista a Jack The Smoker per il nuovo album “Sedicinoni”
Sedicininoni esce a quattro anni da Ho fatto tardi, che per come va la musica oggi è praticamente un’era geologica. Cosa è successo per te in tutto questo tempo?
Beh, diciamo che quella è un po’ la mia media creativa! Io mi prendo sempre il tempo per fare le cose come piace a me, che forse non è troppo saggia come mossa, ma tant’è! Solitamente in questo spazio temporale succedono delle cose che mi ispirano particolarmente. Ad esempio sono diventato padre di due figli. Sono successe tante cose belle ma anche tante cose brutte e da quel materiale è venuto fuori questo album.
Un disco che ho trovato molto autobiografico e nostalgico, in cui rievochi un sacco di cose del tuo passato e soprattutto hai un duplice sguardo, da figlio e da padre. Hai davvero ripercorso la tua vita come in un film…
Assolutamente. Fare questo disco è stato facile ma certi argomenti sono stati difficili da riscoperchiare. Poi io sono uno a cui non piace troppo fare cronaca personale dei fatti miei, è proprio una cosa che mi dà fastidio. Basta vedere solo l’approccio che ho sui social, c’è meno di zero della mia vita. La cosa della nostalgia è vera anche perché io sono un po’ nostalgico di natura. Ho ereditato questa cosa da mia mamma che rivolgeva sempre molto lo sguardo al passato.
L’imprinting che ti danno i tuoi genitori è una cosa che ti porti anche quarant’anni dopo e sono contento di aver fatto tesoro dei suoi insegnamenti. Era una persona molto speculativa, intelligente, molto curiosa. Queste sono cose che mi hanno accresciuto tanto e che ho messo tanto in questo disco, più che negli altri. Ecco, Sedicinoni è stato un album terapeutico e liberatorio.
Io per altro ho sempre pensato che se dovessi scegliere un solo producer per la colonna sonora del film della mia vita sarebbe senza dubbio Big Joe. Quanto è stato importante l’incontro con lui per tirare fuori determinate cose?
Jack The Smoker: È stato fondamentale. Mi ha aperto un mondo concettuale diverso, mi ha mi ha dato la voglia di scrivere delle cose che magari negli altri dischi non erano venute fuori perché mi ha fornito il tappeto musicale giusto. Joe è davvero uno che parla con la musica e in questo album c’è tanta emozione.
Big Joe: Anche per me è stata la stessa cosa nel suono. Mi sono emozionato tantissimo a fare certe produzioni.
Avete detto che questo album è il vostro manifesto di come vedete il rap.
Sì, questo disco per me è la definito e di rap. Un album omogeneo ma vaio nel sound, nelle produzioni, nei bpm, nella scelta dei sample. Per questo è un manifesto. Noi in primis siamo fan del rap, siamo cresciuti ascoltando gente forte come Mobb Deep (che Jack porta anche sulla maglietta, ndr), Nas… Insomma, gente che ha portato questa roba a un livello alto. Noi siamo fan di quella cosa lì, della qualità sopra la quantità.
E c’è anche una leggenda come Conway The Machine…
Jack The Smoker: Una roba pazzesca. Un anno fa per me dire che avrei rappato con Conway sarebbe stata una cosa impensabile…
Big Joe: Per me uguale, se mi avessero detto che avrei prodotto Conway non ci avrei creduto. Quando è arrivata la strofa stavo svenendo!
Jack The Smoker: E poi il fatto che un’etichetta così importante supporti un progetto del genere vuol dire che è un momento buono per fare un disco come questo. Non so se dieci anni fa sarebbe successo lo stesso, quindi vuol dire che anche in Italia forse si stanno aprendo delle porte.
Il rap fatto in un certo modo piace anche alle nuove generazioni di rapper?
Assolutamente sì, magari con stili diversi e velleità diverse ma c’è proprio il ritorno a quella cosa lì, mega street. Infatti un po’ mi dispiace non aver trovato un pezzo in cui inserire un giovane che mi piace. Però non escludo che questa cosa possa succedere perché mi piace molto questa generazione che è molto grezza, molto americana. I giovani che stanno emergendo adesso sono tanto in sintonia col modo in cui io vedo il rap.
Ecco, parliamo degli ospiti di Sedicinoni. Mi ha colpito molto il pezzo con Massimo Pericolo, quali connessioni hai trovato con lui?
Diciamo che la prima cosa in cui mi rivedo parecchio è il fatto che non è uno che fa movida, ma si chiude abbastanza nel suo universo di provincia e di persone a lui care. La prima volta che l’ho incontrato abbiamo avuto una bella chiacchierata e abbiamo trovato parecchi punti in contatto. Lui è più giovane di me, però mi ha mi ha detto che si ascoltava comunque V.Ita quando era pischello. E questa cosa mi ha stupito perché comunque è un disco mega, mega, mega underground.
La connessione più forte secondo me sta proprio nell’argomento del pezzo. Penso di aver fatto proprio una scelta giusta nel chiamarlo proprio in quel pezzo specifico che parla di ragazzi condannati a delle scelte, che in qualche modo non hanno avuto il diritto di essere piccoli perché magari hanno dovuto sopperire alle mancanze dei genitori e quindi si sentono in dovere di essere grandi. Questa cosa la sento molto ora che ho due figli piccoli. Il diritto a essere piccoli, ingenui e a godersi la vita nel momento più bello e più libero è una cosa che non ti deve togliere nessuno.
In questo album parli anche di “storie di dipendenze, di precariato, di relazioni complicate, di crisi economiche, di mancanze”. Siamo in uno spazio tempo disastroso e il rap non può ignorarlo.
Sì, purtroppo siamo in un momento terribile e la musica deve racontare un certo tipo di cose senza entrare nel solito concetto “compro casa a mia mamma”. Cioè, che palle, no?
Sedicinoni è IL disco della tua vita?
Sì, e l’ho fatto a 41 anni, cosa che mi fa capire che non è mai finita ma c’è sempre linfa da cui trarre e c’è sempre voglia di eccellere. Io poi sono uno che non si accontenta mai di quello che fa, ma ora sento di non essere mai stato così soddisfatto.
Una cosa particolare della tua carriera è che hai sempre centellinato le uscite. A volte senti un po’ la pressione di dover stare al passo con il mercato o ti sei mai detto “okay, è passato tot tempo e devo uscire con un disco”?
Guarda, non ti dico quale ma ho fatto un disco che secondo me è stato affrettato e questa cosa mi ha fatto incazzare molto. Tanto che quando l’ho fatto e l’ho riascoltato ho proprio pensato “che disco di merda che ho fatto”. Quella roba lì mi ha mandato un po’ sotto psicologicamente, al che ho deciso di seguire solo la mia attitudine, il mio percorso e i miei ritmi. In generale mi pesava prima il fatto di non avere fatto un disco reputato all’unanimità un classico a parte La Crème. Secondo me questo album mi toglierà delle soddisfazioni anche da quel punto di vista.
In un’intervista di qualche anno fa dicevi “Quando ormai avevo già dieci anni di carriera alle spalle tutti mi dicevano che ero sottovalutato e la cosa era abbastanza frustrante”. Ti senti ancora un po’ l’underdog del rap italiano? E se sì, hai fatto pace con questa cosa?
Diciamo che è una cosa che mi tocca ancora ma non più come prima. Se devo fare massima autocritica secondo me mancava un disco come questo per mettere il puntino sulla mia carriera e credo di avere superato un po’ quella sindrome del disco non perfetto. Questo disco – me lo autodico – mi piace tanto. C’è tanta passione, ci sono tanti contenuti, ci sono dei baet incredibili ed è un cazzo di classico.