Per Jake La Furia la “Fame” non è importante: è ancora l’unica cosa che conta. L’intervista
Il lavoro con Night Skinny, la Milano di ieri e di oggi, la sua vita incredibile e a tratti fantascientifica e il rapporto con Guè: abbiamo incontrato il rapper preferito del tuo rapper preferito, dei furgonari e pure delle signore di terza età
C’è un momento nella vita e nella carriera degli artisti che segna una sorta di giro di boa: quello in cui si sente di non aver più nulla da dimostrare. Un pensiero che probabilmente arriva in concomitanza del consolidarsi di un certo status, quando alla musica senti di aver dato e da cui senti di aver preso tutto il meglio che potevi. Nel rap, però, le cose sono leggermente diverse. Anche quando ormai sei nella rosa degli intoccabili, la fame è ancora la spinta propulsiva. Vuoi perché la competizione – soprattutto oggi, in un mercato saturo fino al collo in cui tutti esplodono ma in pochi restano – è spietata, vuoi perché la modestia non è proprio la caratteristica principale dei rapper, nell’hip hop l’essere il migliore non è importante: è l’unica cosa che conta.
Jake La Furia quella consapevolezza l’ha raggiunta da un pezzo, eppure il suo approccio alla musica è lo stesso degli inizi, quando segnava il suo passaggio sui muri di Milano con la sua prima tag, Fame, e nel 2003 insieme a Guè e Don Joe formava i Club Dogo e si preparava a sovvertire le regole del rap italiano. Emozioni che non passano e che in qualche modo Jake ha voluto recuperare nel suo nuovo album – Fame, per l’appunto – uscito ieri e interamente prodotto da Night Skinny. Un disco fatto senza lo stress da classifica – «non ho voluto sapere niente al di fuori della musica, nemmeno quando sarebbe uscito» -, in cui Francesco Vigorelli ha fatto semplicemente ciò che gli riesce meglio: rap, senza se e senza ma.
Lo abbiamo incontrato per parlare di quella Milano dove la vita era «incredibile e a tratti fantascientifica», del suo rapporto con Guè, del perché «i rapper giovani oggi sono più furbi di quanto eravamo noi 15 anni fa», di lotta di classe (tra fili e masse) e di come è diventato il rapper preferito dei «furgonari, ma anche delle signore di terza età».
L’intervista a Jake La Furia per “Fame”
In che momento della tua vita arriva questo album? Mi sembra che tu sia veramente in uno stato di grazia incredibile.
Lo sono assolutamente e sai perché? Perché non me ne frega più niente dello streaming, della classifica, dell’industria. Quando ho deciso di iniziare a fare questo album con Skinny io ho avvisato tutto il mio team e ho detto “ragazzi, io per questo disco vorrei andare in studio a fare musica e basta, non mi vorrei preoccupare di niente, né della copertina, né della promozione, né sapere quando esce. Non voglio sapere niente, voglio solo andare a fare il disco migliore che posso e godermi il momento.
Anche perché mi pare ti rappresenti proprio nella tua essenza più pura. Hai persino recuperato la tua tag degli inizi.
Perché questo disco è più un ritorno agli inizi della mia carriera che all’ultima fase. La musica che ascoltiamo adesso risponde a uno standard settato da 10 anni e mi sono rotto i coglioni. Tutto assomiglia a qualcosa che abbiamo già sentito, quindi piuttosto che farmi affascinare dalla trap e dal sound moderno, ho scelto di tornare alle cose che mi emozionavano quando ho iniziato. Nell’ultimo periodo mi sono trovato a non riuscire ad ascoltare un disco rap che mi emozionasse, quindi mi ritrovo ancora ad ascoltare musica uscita prima del 2000.
Ti riferisci solo all’Italia o anche a livello internazionale?
Entrambe le cose, poi in Italia questo standard si sente ancora di più. Per ogni generazione del rap c’è un capostipite che arriva, setta un suono e tutti fanno come lui. Poi ne arriva un altro e succede la stessa cosa. Solo che prima le cose succedevano più lentamente, ora il ricambio è molto più rapido. Alla fine però ne rimane uno, quello che è stato davvero gamechanger. Guarda Baby Gang e Simba La Rue: adesso tutti li copiano, ma poi a rimanere saranno loro.
Che per altro hanno un background musicale completamente diverso che non è nemmeno di derivazione americana. In un’intervista Simba raccontava che fino a qualche anno fa non aveva idea di chi fossero i rapper italiani perché ascoltava solo rap francese.
Io ho sempre seguito il rap francese perché trovo che in Europa sia stato il fenomeno hip hop più importante che ha contribuito ad accorciare le distanze con gli Stati Uniti. Oggi i ragazzi non hanno più bisogno di andare a cercare la reference in America. Prendi anche solo l’Italia: una volta non c’era una grossa fan base affezionata del rap italiano che riempisse i grandi posti. Quella roba l’abbiamo creata noi e poi si è consolidata con Sfera e tanti altri. Da lì in avanti si è creato veramente un pubblico per il rap italiano, quindi la gente ha smesso di ispirarsi solo all’America perché si è creato uno storico a cui i ragazzi di oggi si possono ispirare.
La roba più figa di questo disco secondo me è che si percepisce il fatto che sia competitivo ma con la consapevolezza di essere tra i migliori.
Perché alla fine il rap è l’unica cosa che so fare bene, e per farlo bene per me la cosa importante è divertirmi, con la fame che ho sempre avuto.
Il lavoro con Night Skinny com’è iniziato?
Ultimamente abbiamo lavorato un po’ per le sue cose e questo rapporto si è consolidato, poi quando gli ho proposto di fare questo disco è stato molto contento, anche se non so se ce ne sarà un altro dopo il trauma di avere fatto tutto il mio album! (Ride, ndr)
Perché?
Diciamo che entrambi siamo dei gran rompicoglioni l’uno con l’altro! Scherzi a parte, abbiamo lavorato benissimo insieme, abbiamo scelto una rosa di beat su cui io poi sono andato a briglia sciolta e solo alla fine, con calma, abbiamo cercato i featuring. Per fortuna poi tutte le rotture di coglioni più industriali se le è accollate Skinny. Lui non è il classico produttore all’italiana che produce la base e basta, è quello all’americana che si prende il pacchetto completo del progetto. Questo disco è tanto mio quanto suo perché entrambi ci abbiamo messo il meglio di quello che sappiamo fare.
Uno dei pezzi che mia ha colpita di più è ovviamente L’ultimo giorno del mondo, anche per il fatto che attacchi con una citazione di Cronache di resistenza. Com’è stato tornare a lavorare con Guè dopo tutti questi anni?
Diciamo che è stato abbastanza naturale. Nell’ultimo anno grazie alla reunion dei Club Dogo abbiamo lavorato tanto insieme e mi piaceva l’idea di inserirlo anche nel mio disco. Quel pezzo è stato una delle ultime cose che abbiamo messo in piedi, però c’era quel sample incredibile che è proprio della nostra generazione per cui chiamare lui è stata proprio una cosa spontanea.
Nel brano c’è anche Rkomi che negli ultimi anni si è parecchio allontanato dal rap.
Sì, però è uno che se decide che vuole tornare a rappare può farlo quando vuole e può farlo bene. Il pubblico secondo me deve imparare a capire che gli artisti non sempre vogliono fare sempre la stessa cosa, non è che se un rapper decide di esplorare altre cose allora non lo è più. Mirko rimane un rapper.
Tutti e tre rappresentate due fasi distinte di Milano: c’è qualcosa della città di prima che ti manca?
Non ho tanto la nostalgia della città come era prima, quanto di come la vivevo io. Avevo 25 anni in meno, non me ne fregavo un cazzo di niente, stavo in giro tutto il giorno e tutta la notte. Adesso faccio una vita diversa, quindi forse mi manca quella vita lì, un po’ selvaggia, capito?
Certo, anche perché al momento sto leggendo il libro di Emi (Lo zio, Nato senza privilegio, ndr).
Eh certo, 50 pagine di reati fatti da me. Ho dovuto chiamare l’avvocato guarda…
Però è una perla.
Io e Emi abbiamo condiviso tantissimo, un momento della mia vita incredibile, fantascientifico a tratti. Però non posso dire che mi manchi proprio tutto tutto, alcune cose erano veramente pesanti. Adesso almeno siamo tutti più comodi. Ecco, posso dirti la mia su Milano?
Devi.
La città non è così terrificante come ce la raccontano. Secondo me Milano è sempre stata una città un po’ hardcore, non è che adesso sia tanto diverso da prima. Semplicemente c’è tanta propaganda e il divario sociale è aumentato in maniera esponenziale. Viviamo in un’epoca in cui la recessione è quasi ai massimi storici, in Italia non ci sono soldi per fare niente, la gente muore di fame e la differenza tra ricchi e poveri è gigantesca. Da una parte c’è gente che passa il tempo a flexare i Rolex su Instagram, dall’altra gente che non sa come cazzo andare a comprare da mangiare. È logico che a un certo punto c’è una bomba sociale che deve esplodere.
Se in un momento in cui la gente ha fame tu ti metti a fare i tour della casa nuova, aspettati che prima o poi qualcuno ti entri dalla finestra. Ostentare in un momento delicato non vuol dire essere un figo, anzi, forse sei un coglione.
Propaganda chiaramente razzista. Quello che oggi succede ai “maranza” su Rete4 non è poi tanto diverso da quello che accadeva a voi quindici anni fa quando andavate in televisione.
Esatto, solo che loro sono più furbi perché non ci vanno. Noi quando ci chiamavano cadevamo nell’imboscata e ci facevamo rompere i coglioni. Baby Gang invece non ci va perché sa che non è lui che ha bisogno della televisione, ma è la televisione che ha bisogno di lui.
Anche perché in quei contesti è impossibile avere un confronto costruttivo, che sia sul rap o su qualsiasi altro tema.
Perché per avere un confronto costruttivo bisogna avere la stessa base per capire le cose, un certo tipo di predisposizione. Paolo Del Debbio che cosa ne capisce di trapper e cosa ne capiscono i trapper di Paolo Del Debbio? Sono realtà che non si incontreranno mai. Questi chiamano i rapper in tv solo per sbattere il mostro in prima pagina, per dire “ecco di chi è la colpa” e dall’altra parte alcuni ci vanno pensando di farsi promozione, e invece vanno solo lì a farsi distruggere. Non è possibile un confronto tra generazioni così distanti anagraficamente e culturalmente.
Tranne che sulla traccia. Nel tuo disco ci sono anche i giovani più forti di oggi.
Sì, e sono lusingato che tutti loro abbiano avuto noi come riferimento. Mi piacciono molto. Con Artie 5ive non avevo mai lavorato e non lo conoscevo personalmente, però mi piace la sua attitudine, è intelligente nelle cose che dice e che fa e concordo con Guè nel dire che rappresenta Milano molto degnamente oggi. Di Papa V e Nerissima Serpe mi piace il fatto che si vede che proprio non gliene frega un cazzo delle classifiche, dei numeri, e questo è il motivo per cui ce la faranno. Sono genuini, e le persone questa cosa la percepiscono.
Ecco, parlando di genuinità. Dall’esterno mi pare che tu non abbia quella patina dell’artista umanamente inarrivabile, ma che le persone si sentano molto vicine a te.
Che infatti è il motivo per cui sono il preferito dei furgonari. Io in strada ho proprio la percezione di essere amato, infatti i miei amici per prendermi per il culo mi chiamano “Il sindaco”. Se io vado a Milano mi salutano tutti. Poi io sono uno che non flexa mai più del dovuto, e in questo mi ispiro a un grande filosofo del nostro tempo.
Che sarebbe?
50 Cent. Lui dice sempre che è così amato perché nel blocco si veste ancora con la felpa col cappuccio, e quindi le persone sentono che è uno di loro. Io sono rimasto uguale, non è che vado in giro con la pelliccia di visone. A parte alla finale di X Factor. Che poi figurati, dopo la televisione ormai mi fermano pure le signore dalla media alla terza età.
L’altro giorno volevo appunto comprarmi una pelliccia, ho chiesto a mia zia come mi stesse e mi ha detto che sembravo te in tv.
Vedi? Quanti anni ha tua zia?
Cinquantadue. Però è venuta a vedervi al Forum.
Capito? Quello è il mio nuovo target, almeno per la televisione. Per la musica non lo so, non credo che le signore di mezza età ascolteranno questo disco. Però oh, se vogliono sentire del rap fatto bene…