James Bay: «In “Electric Light” canto l’importanza di stare insieme»
Il menestrello elettrico in equilibrio fra blues e synth: James Bay è uscito con il suo secondo album, “Electric Light”, un disco dalle sonorità variegate che parla del bisogno di unità fra esseri umani
Pochi artisti mainstream di oggi si dimostrano capaci di coniugare maturità artistica ed entusiasmo adolescenziale, songwriting “elettrico” e pubblico pop con la stessa spontanea semplicità di James Bay, che – raccogliendo i frutti dell’ottimo album d’esordio del 2015 Chaos and the Calm – ha da poco dato alla luce la sua seconda prova discografica, Electric Light. Il disco segna il passaggio a una varietà di suoni e a un respiro musicale più vasti, che abbracciano lo strumming frenetico di Pink Lemonade e l’ispirazione soul della ballad Us, il synth pop di Wild Love e il piglio alt-rock di Sugar Drunk High. Merito anche del tocco di Paul Epworth (già produttore di Adele e Coldplay, tanto per citarne due), che contribuisce a lanciare la musica di James nell’orbita del grande cantautorato pop.
Parlando di Electric Light hai detto che rappresenta “una vera evoluzione artistica e sonora”. In effetti si sente chiaramente quando si ascolta il disco.
Provavo il bisogno di cambiare elementi nel mio sound e nel mio look rispetto a tre o quattro anni fa. Come artista sentivo la responsabilità di esplorare nuove sonorità: semplicemente è molto più interessante che ripetere ancora le stesse cose.
Un produttore fenomenale come Paul Epworth ha collaborato a quest’album. Che tipo di influenza ha portato con sé?
Paul è un produttore così grande… Ha lavorato con artisti incredibili su dischi fantastici del passato. Puoi sentire la sua expertise e le differenti tecniche di produzione. Si è aggiunto al processo in quanto appassionato di musica, ha aggiunto alcune parti ed elementi extra ai brani – in alcuni più che in altri.
Pink Lemonade ha un bellissimo suono di chitarra vintage e graffiante. Mi parli un po’ delle chitarre e degli effetti che hai usato su quella canzone e sull’album in generale?
Probabilmente ci sono più chitarre per traccia su quest’album che su Chaos and the Calm. Mi sono divertito molto a sperimentare con i suoni di chitarra. Sono molto legato a una Gibson Les Paul Special del 1960 che ho comprato in America, che è una bellissima chitarra vintage. Con quella ho scritto molte canzoni di quest’album e le ho suonate su un piccolo amplificatore, come mi ha suggerito Paul Epworth. E così è come è cominciato tutto. Pink Lemonade, per esempio, ricorda il suono simil-Gibson di artisti come David Bowie, i Blondie, gli Strokes… Il suono di chitarra di quegli artisti ha davvero ispirato il brano.
Hai detto che la canzone parla di un “grande desiderio di fuga”. Da cosa volevi scappare?
In generale il grande tema dell’album è l’unità e l’importanza di stare insieme. La maggior parte dei brani riguardano in maniera abbastanza diretta quell’argomento. E ho pensato che per enfatizzarlo ancora di più dovevo mettere nel disco un paio di brani che avessero il sentimento opposto. Se metti un pezzo di carta bianco di fianco a uno nero, quello bianco risalterà ancora di più. Il contrario di qualcosa rende ciò che cerchi di enfatizzare ancora più efficace. Così Pink Lemonade, con il suo desiderio di fuga, serviva a rafforzare il resto dell’album.
Electric Light ha arrangiamenti un po’ meno basati sulle chitarre rispetto a Chaos and the Calm. Che tipo di sound hai voluto privilegiare?
È vero, ma è anche vero che sono state usate più chitarre su quest’album che su Chaos and the Calm: le ho solo mixate in maniera diversa. E mi è piaciuto questo processo. Volevo dare un assaggio dei vari strumenti “live” – chitarre, batteria – in combinazione con i sintetizzatori: synth analogici, tastiere, programmi, drum machine. Sull’album trovi tutti quei suoni combinati.
Nell’album si nota una certa influenza soul, per esempio in pezzi come Us, I Found You e Slide. Avevi in mente quel tipo di sound quando hai cominciato a lavorarci?
Sì, è stato abbastanza importante. Ho sempre amato la musica soul. Ha rappresentato una parte importante di quello che sono come musicista. Ieri per esempio stavo ascoltando Aretha Franklin: mi trovo a mio agio nell’ascolto di quel tipo di sound classico.
Ho anche notato delle parti vocali alla Bon Iver in brani come Stand Up. Justin Vernon è stato una tua influenza durante il processo di scrittura?
Sì, senz’altro è una mia grande ispirazione. Sono un suo grande fan. Adoro il suo sound, così come quello di Kanye West e di James Blake. Tutti questi diversi artisti mi hanno ispirato in qualche maniera.
Come dicevi prima, l’unità è un grande tema dell’album. Pensi che il tuo primo album fosse più introspettivo e personale rispetto ad Electric Light?
Bella domanda! Mi ritrovo a non trattare solamente tematiche di tipo personale ma piuttosto a pensare al mondo più in grande e alle altre persone. Così sì, potrebbe essere un album meno personale: non ci sono più solo io.
Facciamo un piccolo throwback thursday. Mi dici quale è stata la tua prima chitarra elettrica e chi erano i tuoi eroi musicali quando avevi 15 anni?
Ho avuto la prima chitarra elettrica quando avevo 12 anni: era una Yahama Pacifica che poi ho venduto per comprare la mia seconda chitarra. A 15 anni ascoltavo molto, fra gli altri, band come i Black Crowes e Stevie Ray Vaughan.
Hai conosciuto Buddy Guy e hai anche suonato alla sua festa di compleanno. Quando suoni, soprattutto negli assoli, è piuttosto evidente il tuo background di tipo blues. Quali sono state le tue influenze blues?
Ho sempre amato il blues, sin da quando ero bambino. È forse il sound che ha influenzato maggiormente il mio approccio alla chitarra. Ho adorato tutti gli stili di chitarra blues. Ho un ricordo molto vivido di questo: c’era un esame importante che dovevo fare e avevo un disperato bisogno di passarlo bene, dovevo studiare molto. Nelle ore passate a casa, prima di andare a fare questo esame, in teoria avrei dovuto studiare ma stavo in camera mia con tutti i libri sul letto e la chitarra fra le mani ma ovviamente non studiavo: suonavo sui pezzi di Buddy Guy. Ricorderò sempre Buddy Guy per molti motivi ma per quello in particolare.
L’ultima parola dell’album è “love”. Perché hai pensato che quella poesia di Allen Ginsberg fosse la maniera migliore per concluderlo?
È una domanda difficile a cui rispondere. Mi piaceva il principale refrain lirico di quella poesia, che dice “The weight of the world is love”, e mi sembrava perfetto: è al tempo stesso triste e carico di speranza.