Interviste

John Richmond: «Tutti i miei interessi sono guidati dalla musica»

In occasione della Milano Fashion Week abbiamo incontrato il fashion designer inglese che in questa intervista ci ha raccontato di come la musica abbia enormemente influenzato la sua arte

Autore Billboard IT
  • Il5 Marzo 2024
John Richmond: «Tutti i miei interessi sono guidati dalla musica»

John Richmond, foto di Filippo Moscati per Quadronno District

John Richmond, baby boomer nato a Manchester, è figlio di quella intraprendenza britannica che dal Dopoguerra non smette di lasciare impronte definitive nella moda e nella musica. Fashion designer di fama internazionale, dalla stampa di settore viene affiancato al rock ’n’ roll e al punk, ma di fatto abbraccia con i suoi lavori tutti i generi musicali britannici che hanno influenzato il resto del mondo. Arriva in Italia subito dopo una laurea in Fashion Design alla Kensington University di Londra e, sin dai primi Ottanta, collabora con nomi che in quegli anni sono, fra gli altri, pillar di una moda che non solo detta, ma anche anticipa: Armani e Fiorucci. L’individualismo inglese, di cui ci parlerà lui stesso nell’intervista che segue, è probabilmente il motivo per cui nel 1987 dà vita al brand che porta il suo nome, John Richmond.

Ha uno stile che influenza ancora oggi la moda internazionale. Forte del suo ormai iconico (e annoverato nei libri dedicati al fashion) modello di jeans, il cui bottom è arricchito dalla scritta RICH che anticipa, e allo stesso tempo dissacra, nei primi del Duemila, la logo-mania che impazzerà su molti altri brand.

John Richmond, però, non è solo moda. Se potessimo affidargli una seconda professione, lo vorremmo cronista del music system, forte dei legami con quell’industry negli anni in cui, lo citiamo, «erano i cantanti, gli artisti che venivano nel mio store a scegliere gli abiti per i loro concerti». Gli artisti che si esibiscono indossando il suo stile sono Madonna, George Michael, David Bowie, Mick Jagger, Annie Lennox, Axl Rose e Bryan Adams. E poi ancora David A. Stewart, Michael Jackson, Britney Spears, Kim Kardashian, Dita Von Teese, Kate Moss, Kaya Jones, Lukas Menzel, Nico Züchner e anche Lady Gaga. 

È proprio per questo che, in occasione dell’appena trascorsa Woman Fashion Week milanese, poche ore prima che il suo flag-store di via Mercato accogliesse uno dei party più attesi della settimana – a cui hanno partecipano numerosi artisti – abbiamo rubato un’intervista a John Richmond. Il tema? La musica.

L’intervista a John Richmond

John, se dovessimo chiederti la canzone che più ha rappresentato i tuoi anni in gioventù?
Uh!… È ancora una delle mie canzoni preferite di tutti i tempi: Life on Mars di David Bowie. 

E che ricordi musicali hai della tua adolescenza? 
Quando sei cresciuto nei primi anni ’70 puoi avere solo bei ricordi. Intorno agli undici anni si andava a ballare nelle discoteche per i ragazzi dove regnava il Northern Soul, un genere fantastico popolare nel nord dell’Inghilterra. In particolare al Wigan Casino, un locale rinomato all’epoca. Era tutto un insieme di cose, non solo la musica di quegli anni: l’abbigliamento, l’aspetto, lo stile, il modo in cui affrontavi le cose. Un Paese povero può darti opportunità. In quegli anni la gioventù era molto disillusa, a quindici/sedici  anni non pensavi si fosse poveri. Si creava, si facevano nascere stili.

È stata così l’occasione per il punk. E da allora tutte le cose che mi interessano sono guidate dalla musica. Sono cresciuto a Manchester. Un posto molto post-industriale, deprimente, ma la cosa grandiosa era che avevamo dei club fantastici. Avevamo una grande scena musicale. Dopo il punk, arriva la new wave, e quindi Joy Division, gothic e poi la new romantic. C’erano artisti per i quali lo stile, l’aspetto, i vestiti erano veramente importanti. Fondamentali. Di Bowie tutti conoscono le canzoni, ma sanno anche tutto del suo stile: abiti, acconciature, accessori, trucco. Bowie non era solo un cantante, incarnava un vero e proprio stile. 

Secondo te perché il Regno Unito che appare un Paese così distaccato, riservato, penso alla figura iconica di Queen Elizabeth, è stato – ed è ancora – in grado di influenzare e ispirare fortemente il mondo dello stile, uno fra tutti quello della musica? Qual è il vostro segreto?
Primo punto: siamo in grado di ridere di noi stessi, e questo è importante. E già per questo siamo molto fortunati. Secondo punto: viviamo su un’isola e quindi siamo di fatto completamente isolati. Quando non hai nient’altro, sei solo costretto a essere creativo. C’erano, e ancora ci sono, molti giovani che non avevano e non hanno molte opportunità. Penso che siano stati coraggiosi, perché hanno trovato in loro stessi la forza di andare avanti, di non rimanere isolati. E ciò credo sia dovuto al desiderio di essere individui, di autodeterminarsi.

Se guardo ad altri Paesi ci sono grandi leader in vari settori e le persone seguono quell’unico modello. Quasi non volessero osare. In Italia per esempio vige uno stile unico ben definito. In Inghilterra invece se vedo qualcuno fare una cosa in un certo modo, io farò di tutto per farla meglio, sicuramente per farla a modo mio: noi inglesi abbiamo l’attitudine all’individualità.

Rapporto moda e musica, il tuo parere da esperto e protagonista di entrambi i settori?
Lo riassumo in quello che è un mio slogan ormai da quindici anni a sintesi della domanda “Il punk è un atteggiamento, non è una moda”. Se ben si riflette, il punk ormai è molto più conosciuto e riconosciuto come uno stile di moda, che non per la musica. La musica punk non è durata molto, ma non ha mai smesso di permeare la moda.

Prende vita negli anni in cui la stampa di moda comincia a diventare importante e al cui interno lavoravano spesso profondi conoscitori della musica. Era quindi facile trovare in quelle pagine una sincronia di contaminazioni reciproche. Molti sono i cantanti, allora come ora, che popolano le cover di fashion mag. Londra era il luogo di questi cambiamenti. Penso a Terry Jones che, con Face e poi ID, è stato uno dei direttori più famosi e innovativi. Con legami profondi con il mondo dei giovani e con quello che facevano, aveva un atteggiamento di inclusività e avanguardia che ha stimolato e determinato la fusione fra moda e musica. Terry Jones firmava dalle cover dei mag alle copertine dei dischi.

Alla fine degli anni ’80  arrivano i video musicali, che avevano sull’audience lo stesso impatto – con tempi diversi ovviamente – che hanno oggi i contenuti di TikTok. Non c’era artista che non accompagnasse i propri brani con un video. Possiamo quindi immaginare l’importanza di vestito, trucco e capelli.

In quegli anni non c’erano certe sovrastrutture nei rapporti tipiche oggi. Se a un artista serviva un outfit andava a prenderselo personalmente. Sai, non si andava dagli artisti dicendo “Ecco il mio vestito, ti pagherò per indossarlo agli Oscar o per qualsiasi altra cosa”, questo non esisteva. I musicisti venivano da me in negozio, inoltre tutti amici in quanto anch’io ero un musicista: si compravano vestiti e li indossavano. La scelta dell’outfit era fatta in prima persona.

Mi ricordo anche cose divertenti come i New Kids on the Block, la boy band più famosa dell’epoca: arrivarono in questa piccola strada scendendo da una limo stretch bianca che non poteva girare l’angolo e fu costretta a fare retromarcia. Ho lavorato con persone come i Depeche Mode, gli Eurythmics, George Michael. All’epoca lo si dava per scontato ciò che si stava vivendo, perché lo stavamo vivendo, ma adesso girandoci indietro ci rendiamo conto che siamo stati protagonisti fortunati di momenti che hanno cambiato la storia di questi due settori: siamo stati nel posto giusto al momento giusto. 

Se dovessi scegliere un music artist per rappresentarti al meglio, chi sarebbe? 
Per me non c’è un’icona di riferimento assoluto per la mia moda. Mi piace vedere come sono interpretati i miei abiti da chi li compra, generando per questi un’altra vita rispetto a quella che mi ero immaginata io mentre li creavo. Se devo pensare a un artista, penso piuttosto a uno stile. Il rock ’n’roll è sicuramente quello che più ha pervaso, e ancora accade, i miei lavori. Sono però sempre con la voglia di progredire al passo con quello che la musica propone: oggi guardo all’hip hop che da Los Angeles è ormai ovunque; in UK il rap autoctono, oppure Jess Glynn, Kendrick Lamar tornando negli USA.

Quando ascolti la musica: quando sei felice o triste? 
Io ascolto sempre musica. Per esempio lavoro solo con la musica in sottofondo. Amo particolarmente Giles Peterson di BBC Radio 6 perché è sempre alla ricerca di cose nuove. Peterson è il mio dj preferito. Rispetto a prima ho cambiato anche la modalità d’ascolto. Se un tempo, mi ricordo, compravo Horse di Patti Smith, tornavo a casa mi sdraiavo in una stanza buia e lo ascoltavo per ore senza smettere mai, oggi sono molto più in un serendipity mood e preferisco ascoltare ciò che mi viene proposto per esempio dalle radio, dalle piattaforme. Accolgo e ascolto tutto, anche ciò che non mi piace, e spesso trovo qualcosa che mi sorprende e il fatto che non avrei mai scelto un brano che invece mi piace molto, me lo fa apprezzare ancora di più. 

Life on Mars di David Bowie è già un’ottima scelta, ma quali sono le altre canzoni, almeno tre, che non elimineresti mai dalla tua playlist?
Sceglierei un album, The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd. Ne sono certo, soprattutto perché ho vissuto esattamente i momenti in cui è stato realizzato. Non sono sicuro del terzo, però qualche settimana fa c’è stata una canzone brasiliana incredibile, presentata nello show di Giles Peterson, che mi ha davvero colpito. Purtroppo non ancora disponibile sulle piattaforme. È Vento de Mayo dello straordinario Seu Jorge, prodotta da Miguel Attwood Ferguson. E se posso aggiungerne, penso ancora a un album, il primo dei Roxy Music che ha veramente portato un cambiamento nel mondo della musica inglese e poi i Sex Pistols che per me hanno influenzato la musica mondiale.

Se tu scrivessi una canzone, quali sarebbero i versi con cui inizierebbe?
Non ho parole mie, ma potrei fare mia la prima frase di Gloria di Patty Smith. “Jesus died for somebody’s sins, but not mine” (Gesù è morto per i peccati di qualcuno, ma non i miei). Per un ragazzo quale ero, cresciuto in un contesto cattolico romano, che frequentava una scuola cattolica romana, queste parole hanno avuto su di me un forte impatto, una presa di coscienza potente e quasi liberatoria, togliendomi quel senso di dover portare sulle spalle i peccati degli altri.

Articolo di Maria Cristina Lani

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