Junior Cally: «Meriterei di tornare a Sanremo. Con “Deviazioni” ho tolto la maschera per la seconda volta»
L’esperienza del Festival, il disturbo ossessivo compulsivo, il fondo, la risalita e, alla fine, la rinascita. Il rapper ex-mascherato ha aperto le porte più segrete di sé nel suo nuovo disco uscito oggi. Perché poi, nonostante tutto, si torna sempre dove si è stati bene: alla musica
C’è stato un momento, due anni fa, in cui sulle bocche di mezza Italia c’era solo un nome, quello di Junior Cally. E se per molti il detto “che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli”, è perfettamente calzante, così non è stato per Antonio Signore (questo il vero nome del rapper della periferia romana), per il quale l’esperienza sanremese del 2020 è stata paradossalmente così intensa da non averla nemmeno vissuta. O, almeno, non come si dovrebbe vivere il proprio primo meritato Sanremo dopo anni di gavetta. E le conseguenze del bieco sbattimento del mostro in prima pagina, Junior Cally le ha pagate un anno dopo, quando tutti i suoi demoni sono tornati a galla e per scacciarli ne sono nati altri.
L’acuirsi del suo disturbo ossessivo compulsivo, l’abuso di alcol, il fondo. E in quel fondo o ci rimani, o scegli di afferrare una mano per risalire. E così ha fatto Junior Cally, decidendo di andare in rehab e tagliare con tutto ciò che lo teneva ancorato ad un passato a cui non poteva rischiare di tornare. Tutto, anche un disco già pronto per essere spedito ai fan. Ma a volte, per ricostruire devi distruggere e ricominciare da capo. E da questa nuova vita è nato Deviazioni, il suo nuovo album uscito oggi – a distanza di tre anni da Ricercato – in cui Junior Cally toglie la maschera per la seconda volta e lascia spazio ad Antonio. Un uomo più risolto, consapevole e – finalmente – Vivo.
Un sacco di Deviazioni ma poi il punto di ritrovo è sempre uno: la musica.
Certo, si torna sempre dove si è stati bene. Deviazioni poi è un disco che nasce a gennaio di quest’anno – perché io nel 2021 avevo annullato l’uscita dell’album precedente – con l’intento di fare i conti con me stesso, cosa che in realtà avevo già fatto l’anno prima. Mi sono detto «adesso basta, togliamoci ‘sta maschera». Ho richiamato Dr. Wesh, abbiamo ripreso casa a Focene – che è dove iniziato il percorso Junior Cally – e da lì è nato tutto. Nel tempo poi ho capito che tutto quello che succede nella vita serve per affrontare la deviazione successiva.
Quindi è come se avessi tolto la maschera una seconda volta.
Sì, già nel 2019 con Ricercato l’avevo tolta, ma la consapevolezza era ancora poca. Da quel momento ad oggi poi ho vissuto tantissimi alti e bassi che mi hanno fatto capire cosa significasse davvero essere nudi. Sicuramente con questo disco questa cosa esce molto più fuori Antonio.
Togliere la maschera per altro è stata una scelta che tu hai fatto dopo un paio d’anni, tornassi indietro lo rifaresti?
Assolutamente sì, anche perché dopo la mia prima canzone già mi ero detto che a prescindere da come sarebbe andata prima o poi l’avrei tolta. Ancora di più quando ho iniziato ad avere i primi successi. La gente infatti iniziava a riconoscermi per i tatuaggi, erano diventati la mia faccia. Mi ricordo che una sera ero con Nerone e il giorno dopo un mio amico mi ha chiamato e mi ha detto «Occhio ché ti si vede nella storia di Nerone». Ad un certo punto era diventata una gabbia.
Poi sicuramente con l’ascesa dei social diventa sempre più difficile mantenere l’anonimato…
Esatto. Poi ad un certo punto secondo me andava fatto, proprio a livello di evoluzione. Subentra anche la voglia di respirare, di togliersi un peso. Ero conosciuto ma nascosto.
Anche perché poi in mezzo c’è stata l’esperienza di Sanremo che è ciò che ti ha reso noto al grande pubblico. Hai detto che quello è stato il motivo scatenante di tutti i problemi che sono arrivati in seguito. Cos’è successo dopo il Festival? Aver partecipato forse è stata un’arma a doppio taglio…
Sanremo per me è stato proprio il nucleo del problema. Io non vedevo l’ora che finisse quel tritacarne per avere l’opportunità di mostrarmi davvero. Venti giorni dopo, però, è iniziato il lockdown. Se vogliamo dirla tutta, io Sanremo non l’ho mai fatto. Io ero lì e mi meritavo di starci, ma ho fatto tutto meno che il cantante. Junior Cally era diventato più importante nel Festival stesso. Da quel punto di vista io ho aiutato tanto il rap, a un rapper non potrà mai succedere niente di più grosso di quello che è successo a me. La cosa che mi ha fatto più male è stato pensare alla mia famiglia che in un paesino piccolo doveva subirsi tutta quella pressione. Mi hanno detto di tutto. Stupratore, femminicida, tutto. Chi mi conosce in quel momento si è fatto una risata, a loro non ho dovuto dare nessuna spiegazione. Però a livello psicologico il trauma l’ho pagato dopo, nel 2021. Lì poi è subentrata anche la politica, il mio nome è stato usato come propaganda da destra a sinistra.
E in futuro ci torneresti? Sicuramente ora hai una consapevolezza diversa rispetto a prima…
Ah, guarda, tanto peggio di come è andata non potrebbe andare! Ora non è nella mia testa, però ci tornerei. Anche perché credo che me lo meriterei. Qualcuno dovrebbe farsi delle domande. Mi hanno messo lì, mi hanno distrutto, una seconda prima chance la meriterei. Mi dispiace perché la mia immagine in quel momento è servita tanto, ma poi nessuno ha trovato un momento per farmi una chiamata e chiedermi come stessi.
E nel 2021 cosa è successo?
L’estate del 2020 l’ho passata davvero con la rabbia addosso, mi sono detto «Ora mi diverto, passo l’estate migliore della mia vita», ma poi mi sono reso conto che era un divertimento vissuto nel malessere. Poi io pensavo che finito tutto il casino sarei tornato a cantare, invece no. Poi per uno come me che soffre di disturbo ossessivo compulsivo, se mi togli il lavoro mi togli tutto. Allora torno a farmi domande, a non trovare delle risposte e a fare a botte con i problemi. Nascondo il mio disturbo nell’alcol ma dopo ogni sbronza era sempre peggio. Sono arrivato ad un punto in cui mi sono detto «O ti fai aiutare, o te ne vai da questo mondo».
Erano queste le manette trasparenti di cui hai parlato che ti facevano sentire paralizzato?
Diciamo che le manette sono state tantissime. Il disturbo ossessivo compulsivo e l’alcol hanno materializzato queste manette. Il DOC è una malattia veramente bastarda, poi vabbè, io la chiamo malattia ma non è una cosa che ti fai passare come la febbre. Dicevo, è bastarda perché ti frega sempre. Tu pensi di fregare il tuo cervello ma lui l’ha fatto prima di te. Conviverci è dura, e lo è stato soprattutto durante il lockdown. Poi è subentrato l’abuso di alcol. Lì per lì, da sbronzo, non ci pensavo, ma il giorno dopo tornavano prepotentemente tutti i riti che il cervello ti dice di fare. Non era più vita.
Quanto sei stato in rehab?
Un mese. Ho fatto un mese senza contatti con nessuno, solo psicologo, nutrizionista e personal trainer.
E durante quel periodo la musica era una cosa a cui pensavi?
No, io avevo appena chiuso il disco che poi ho annullato subito dopo. Uscito da lì sentivo di aver fatto un piccolo passo avanti, far uscire quell’album voleva dire mettermi un vestito che ormai non mi stava più e fare mille passi indietro. Disco già autografato, venduto, una situazione non proprio facile, ma non potevo portare in giro una cosa che non sentivo più mia. Cancellare quel disco è stata la scelta migliore che potessi fare, l’avevo chiuso anche in fretta perché sapevo che di lì a poco sarei andato a farmi aiutare. In quel mese poi alla musica non ci pensavo proprio, quando sono uscito mi sono rimesso in studio e ho capito che volevo tornare a fare musica. Capire che quel disco non facesse più parte di me mi ha fatto dire «Okay, se puoi capire che questa cosa non ti piace allora puoi farne un’altra».
È il disco della liberazione per te? Disturbo ossessivo compulsivo mi sembra un pezzo a dir poco catartico.
Io in quel pezzo ho praticamente fatto psicoterapia. Il primo passo della cura del DOC è parlarne. Tante persone che ne soffrono peggiorano proprio perché non riescono a dirlo a nessuno. Io da questo punto di vista sono stato fortunato perché già da piccolo riuscivo a parlarne, però sentivo sempre di non essere capito, quindi mi chiudevo. Fare un brano così secondo me può aiutare anche chi sta male e magari dice «allora posso parlarne anche io», perché purtroppo è una malattia che ti fa sentire unico, e non in senso buono.
E nella tracklist dopo Disturbo ossessivo compulsivo c’è Prison Break, un brano dove torni davvero al tuo primo amore: il rap.
Quella canzone la sento tanto mia. Alla fine io sono cresciuto nei centri sociali, il rap e l’hip hop sono cose che mi appartengono e mi apparterranno sempre.
Infatti questa cosa si vede anche in un altro pezzo, Romanzo e Criminalità, in cui parli molto di appartenenza alla tua zona e e dici «Il quartiere mi ha dato tanto e poi mi ha tolto tutto». Ti chiedo quindi cosa ti ha dato e cosa ti ha tolto.
Mi ha dato tanta fame di uscire, però allo stesso tempo ti toglieva i sogni. In paese non potevi fare niente, quando facevo rap mi dicevano che ero uno sfigato che voleva imitare i vari Fabri Fibra e Guè. Qua a Milano è tutto diverso, anche nella periferia. Quando vuoi fare una cosa il quartiere ti aiuta. Già non è così a Roma, figurati in provincia. Anche per quello mi sono messo la maschera. Ero sicuro che se nessuno avesse saputo che ero io, allora avrebbero ascoltato la mia musica, e così è successo.
Roma è così diversa da Milano da questo punto di vista?
Secondo me sì, tanto. Tanto è vero che molti rapper romani sono saliti a Milano, io alla prima occasione che ho avuto ho preso la macchina e sono venuto qui.
E nella scena rap tu come ti trovi?
Io ho sempre avuto un bel rapporto con tutti. Io ho sempre cercato di apprezzare la persona che ho di fronte, non l’artista. A me che tu sei un rapper famosissimo non frega niente, io non lecco il culo a nessuno. Magari è una scelta sbagliata in termini di interessi e strategia. Poi io sono un fenomeno a farmi volere bene, ma sono anche fortissimo a stare sul cazzo a chi mi sta sul cazzo, non sono proprio capace di scindere le cose!
Un altro tema che tratti molto in Deviazioni è l’amore in tutte le sue sfaccettature. Ti ha segnato tanto negli ultimi due anni?
Per me l’amore sempre stata è una roba incredibile, devastante, sia quello tossico che quello sano. Conta che io faccio rap grazie ad una storia d’amore tormentata che è stata la più importante della mia vita. Lei mi diceva sempre «trovati un lavoro serio», perché all’epoca pulivo le vetrine dei negozi e tentavo di fare il rapper e lei invece faceva proprio tutt’altra vita rispetto a me. Faceva l’università, io ero uno scappato di casa, e infatti all’inizio si vergognava di me. A volte mi chiedo se non abbia iniziato a fare questa cosa seriamente solo per dimostrare a lei che potevo farlo. Tutto è partito da lì quindi. Poi ho vissuto davvero uno dei punti più bassi della mia vita e la mia ragazza attuale mi ha detto che non ce la faceva più a vedermi in determinate condizioni, e che o mi facevo aiutare, o sarebbe finita. Lì ho riflettuto e ho capito che aveva ragione lei.
E quindi è stata questa cosa pa portarti a scrivere Vivo? Che forse è un po’ il manifesto di questo disco, la vera rinascita…
Infatti queto pezzo è proprio dedicato a lei. Se mi dici questa cosa dopo averti raccontato la storia allora vuol dire che l’ho scritta bene!