Interviste

Kae Tempest è luce per gli altri e per l’hip hop

L’artista inglese torna alle origini e riconduce la sua scrittura nel territorio del rap. Il quinto album “Self Titled” si muove coraggiosamente in un eterno presente in cui il bambino interiore e tutti i suoi sè si riuniscono. Un percorso nell’oscurità per illuminare chi non ha la forza per risplendere

  • Il3 Luglio 2025
Kae Tempest è luce per gli altri e per l’hip hop

Foto di Jesse Glazzard

Kae Tempest non avrebbe mai voluto scrivere un album come Self Titled. Perché non c’è niente di più complicato che essere se stessi, bisogna vincere la paura e lo sguardo interno ed esterno, combattere le aspettative e prendere una posizione. Perché è troppo facile e conveniente glorificare la sofferenza, anche se si sta parlando della propria. Ci sono però delle vite che vale la pena raccontare perché possono essere un faro. Il rapper inglese l’ha capito confrontandosi in studio con Fraser T. Smith. Cinque settimane complessive di scrittura e registrazione – dal nulla alla masterizzazione del disco – distribuite nell’arco di circa 10 mesi. «Lavoravamo quattro giorni e poi passavano un mese o due dall’incontro successivo. Poi altri cinque giorni, una pausa e così via. In questo modo quando torni in studio il tuo cervello ha avuto il tempo di recuperare».

Non solo, per Kae è un modo per entrare e uscire dal flusso della scrittura. La sua macchina del tempo, il suo modo per connettersi con il bambino che era e con tutti gli io che l’hanno portato a essere la persona e l’artista che è oggi. Per questo motivo ha scritto in continuazione, anzi ha iniziato a farlo in prima persona e di nuovo in rima, in una vera e propria seconda pubertà. Come a quindici anni e come faceva quando il mondo della musica e dell’hip hop l’anno conosciuto. Proprio l’hip hop che oggi vive di due opposti: troppo aperto e vittima dell’ansia da classifica o troppo chiuso in se stesso per accorgersi del mondo circostante.

Self Titled (in uscita domani venerdì 4 luglio) è un’eccezione perché avrebbe potuto intitolarsi Kae Tempest, ma la vita del suo autore che straborda dalle sue tracce è un faro per l’oscurità di molti che non hanno la sua stessa forza. E allora il gioco di parole, che Kae su Zoom sembra voler minimizzare come un semplice scherzo, è un certificato di universalità. «With all the problems that we have to contend with / Why are trans bodies always on the agenda?». La rabbia di uno dei primi versi di I Stand on the Line e l’orgoglio e la voglia di riscatto di Statue in the Square sono universali.

Il suo rap personale e biografico è grandioso perché legge la contemporaneità e la racconta, affrontando temi complessi come l’identità di genere e il percorso di transizione. Quando finisci di ascoltare le dodici tracce sei combattuto dalle emozioni e provi la medesima sensazione di simultaneità emotiva, spaziale e temporale che Kae si sforza di descrivere nel corso dell’intervista. E finisci anche tu, ascoltatore, a fare i conti con il bambino che eri chiedendoti se te ne sei preso cura abbastanza. Ma soprattutto se hai trovato il coraggio di essere te stesso.

L’intervista a Kae Tempest

Come hai deciso di tornare a rappare come ai vecchi tempi?
È difficile da spiegare. Per certi versi è come se non avessi mai smesso di farlo, le parole sono le mie fondamenta. Anche se mi si sono allontanato dall’hip hop, il mio amore per quella cultura è sempre rimasto profondo. Il punto è che mi sono sempre lasciato trascinare prima di tutto dalle idee prima che dalla forma, per cui l’abbandono delle mie radici non è stato qualcosa di intenzionale, ma di spontaneo. Molte volte influenzato anche dagli artisti con cui ho collaborato. Infatti, la causa del mio ritorno al rap è Fraser.

In che modo ti ha spinto?
Un giorno mi ha provocato dicendomi: “Chi può raccontare la tua storia meglio di te? Sei l’unica persona, l’unico paroliere, l’unico autore di canzoni nel mondo che può farlo in questo momento”. All’inizio ero molto titubante perché non volevo glorificare un’esperienza difficile. Così mi ha raccontato la sua esperienza con Stormzy durante la scrittura di Gang Signs & Prayers. Nel 2019 tutti si aspettavano un album di bangers, ma lui è arrivato in studio e ha deciso di mostrare la sua complessità: ha scritto della sua fede, di sua madre, del rapporto con la sua virilità. Questo ha fatto sì che un numero maggiore di persone si sia potuto rispecchiare.

E così hai cambiato idea?
Sì, mi ha convinto perché il suo discorso non era semplicemente: “Scrivi del tuo trauma, perché la gente ama la miseria altrui”. Mi ha fatto capire che c’era un motivo per raccontare la mia storia. Ho compreso che avrei potuto connettere molte più persone ed essere una guida. Se risplendo e la mia luce può illuminare qualcun altro in un momento di oscurità, allora per me ha senso.

Intraprendere questo processo di scrittura più personale, in prima persona, è stato più un aprire delle ferite o curarle?
È stato curativo, ma non sapevo che lo sarebbe diventato. Self Titled è arrivato in un periodo della mia vita tutto sommato bello. Ho pubblicato abbastanza dischi per sapere che non è sempre così. L’intero processo è stato speciale e non c’è stata nessuna fase in cui ho avuto paura. E anche adesso che uscirà, qualsiasi cosa accada, il risultato è così positivo che non ho preoccupazioni.

Il titolo dell’album Self Titled è una descrizione del concept del disco, il vero protagonista sei tu. Questo quindi l’hai capito dopo aver scritto le canzoni o è stato il punto di partenza?
No, non ho mai intitolato nulla prima di scrivere almeno qualche verso. Parto dalla pagina bianca e seguo il flusso finché a un certo punto non comprendo la direzione verso cui quel filo sta cercando di portarmi. Poi arriva quel momento bellissimo in cui ti rendi conto della forma che sta prendendo il disco ed è come se dicessi: “Ok, come ti chiami?”. In questo caso è tutto molto meno serio di quello sembra. Self Titled è un titolo nato come una specie di scherzo ed è un riferimento a quando siamo costretti a definirci. Di solito il disco selftitled è quello dove l’artista dichiara una sorta di arrivo e il mio è un gioco di parole per raccontare a che punto sono e dove sono stato finora.

Anche dal punto di vista sonoro ti sei riappropriato di un certo stile hip hop.
Il mio obiettivo principale per questo disco era avere delle grandi canzoni e Fraser ha cercato di assecondare i miei desideri. Volevo concentrarmi sullo scrivere delle grandi canzoni, non solo a livello testuale, ma dal punto di vista musicale. Lui ha cominciato a tirare fuori questi beat irresistibili. Abbiamo scritto un sacco di demo, tutte molto differenti tra loro. Le sue scelte e il suo stile sonoro sono diversi dalla palette di Dan Carey con cui ho collaborato per tanto tempo. La verità è che lavorare con un producer diverso mi è stato d’aiuto perché oramai io e Dan ci conoscevamo talmente bene che il più delle volte finivamo a ronzare attorno allo stesso tipo di suoni e tendenze.  

Più volte nel corso del disco fai riferimento al “bambino interiore”. Per esempio, ti rivolgi a lui in Hyperdistillation e ne parli in modo emozionante in ‘Til Morning. Cosa rappresenta per te? È un modo per affrontare il passato o il presente?
Per me è un processo simultaneo. Scrivere è il mio modo di viaggiare nel tempo perché mi permette di avere un accesso diverso alla temporalità. Il bambino che ero lo sento qui con me in questo momento. Sono certo che sia qui e sono abbastanza forte per mantenermelo vicino. Questa percezione particolare del tempo è un po’ la stessa che provo quando sono a Londra.

Cioè?
Amo tanto Londra, ma ho anche le mie frustrazioni. C’è una corrente potentissima che scorre sotto questo suolo. Qualcosa che ha a che fare con quanta musica è stata fatta qui, quanti scrittori hanno trovato qui la loro voce, quante persone sono venute qui per migliorare le loro vite, quanti ci hanno perso la vita. E quando sono qui è come se sentissi tutte queste sensazioni insieme e simultaneamente. Quello che accade in questa città continua a succedere per sempre, per questo a volte trovo che sia un posto estenuante in cui stare. Qualche volta devo scappare per scrivere. Sono venuta anche in Italia, in Umbria.

Nel secondo singolo Know Yourself dici: «When I was young I sought help from my older self I came into my head, I told me know yourself» In che modo invece il tuo io più giovane ti aiuta oggi?
Beh, la cosa assurda è che se quella persona che ero da piccolo non avesse scritto tutti quei brani, non fosse andato da tutti quegli sconosciuti per strada e non avesse rappato con loro, oggi non sarei qui a fare questo. Se iniziassi ora, non ce la farei mai. Quindi sono in costante relazione con quella persona. Ogni volta che scrivo un testo, sono lì con quella persona. Perché l’esperienza di tenere una penna in mano, guardare un pezzo di carta e scrivere un testo, dall’interno è la stessa. Che tu abbia 15 o 35 anni. È uno spazio eterno senza età in cui posso rifugiarmi in ogni momento. In autobus, nel mezzo di una festa. Da adolescente andavo ai rave, non ballavo e non bevevo, ma rimanevo lì fino al mattino, per tutta la notte, a scrivere testi.

Scrivi ancora con carta e penna?
Sì, la prima bozza di un brano la scrivo sempre su un quaderno. Anche il mio romanzo. Mi toglie la pressione e l’aspettativa. Lo schermo di un portatile mi fa pensare alla versione definitiva che dovrai inviare, è come una scrittura pubblica. Con carta e penna posso scarabocchiare e l’esperienza di sedermi e scrivere è quella alla quale mi sento più legata. Più di ogni altro aspetto della mia vita. Mi riporta a ciò che sono sempre stato.

Ho visto il dietro le quinte del video di Know Yourself, dove ti commuovi mentre rivedi i filmati di te da giovane.
In quel momento ero sopraffatto dalle emozioni. L’intero ciclo è stato travolgente. Ho ripensato a quando ero quella persona e salivo sul palco a rappare in quel modo. Ero un tipo strano e quando mi presentavo a queste sessioni, si capiva che nessuno voleva davvero che fossi lì perché non ero molto amichevole. La gente mi voleva affascinante, dolce, ma io non lo ero. Volevo solo rappare, essere pagato e andarmene a fanculo. Ora che ho tutto questo amore intorno a me, la gente pensa che io sia una persona gentile. Oggi amo le persone, prima non le sopportavo.

Sempre a proposito di dialoghi, ce ne sono molti nel disco, in Prayers to Whisper affronti anche il tema del lutto. All’inizio pensavo che parlassi sempre del tuo bambino interiore.
No, la persona a cui mi rivolgo in quella canzone è un amico che ho perso per suicidio. In quel pezzo parlo della strana sensazione che si prova nel perdere qualcuno e nell’essere felice che non soffra più. Se perdi qualcuno a causa di una malattia, fisica o mentale, o per qualsiasi tipo di perdita, c’è una parte di te che è grata che non stia soffrendo più. Allo stesso tempo c’è un’altra parte di te che si chiede se avrebbe potuto fare di più. Ma la cosa divertente è che la persona di cui parlo non avrebbe mai immaginato che potessi scrivere una canzone su di lei. Non vedo l’ora di suonarla al Glastonbury Festival. (E l’ha fatto, n.d.r.).

Abbiamo parlato di presente e passato, ma c’è un brano in cui parli di futuro, Bless the Bold Future, dove ti rivolgi al tuo figlio mai nato.
Quella canzone ha rischiato di non vedere mai la luce. Ho sempre avuto questa sorta di superstizione per cui ogni volta che andavo in studio non usavo mai un testo già esistente. Per me sarebbe stato come ammettere che per trovare qualcosa di buono dovevo guardare al mio passato. Bless the Bold Future l’ho scritta diversi anni fa e per molto tempo l’ho lasciata lì per questo motivo. Poi Fraser mi ha convinto a lavorarci e alla fine ho deciso di coinvolgere Tawiah con cui ci conosciamo da quando avevamo sedici anni. Ha registrato il ritornello in presa diretta la prima volta che ha ascoltato il pezzo.

In Everything All Together dici: «Sto solo cercando di essere qualcuno in cui il bambino che ero possa credere». Cosa penserebbe di te quel bambino?»
Credo che sarebbe fottutamente grato che alla fine ce l’abbia fatta, che sia finalmente me stesso, così da poterlo prendere per mano e avere cura di lui. Perché per anni non ci sono riuscito e non ho potuto tenerlo in braccio. Quella canzone è speciale. È nata prendendo un verso da ogni brano del disco e intrecciando insieme il tutto, in modo da avere una sorta di poesia principale. La stessa cosa l’abbiamo fatta con il suono. Abbiamo preso il rullante da una canzone, il coro da un’altra, la chitarra da lì e il corno da là. In una sessione abbiamo creato un loop. Il risultato è l’anima dell’album. È come se tutti i sé parlassero insieme unificati. È la metafora audio di ciò che sto cercando di fare nella mia vita. Contenere tutto e lasciare che ogni mio lato, compreso il mio bambino interiore, conviva simultaneamente qui con me.

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