L’identità irlandese moderna è l’hip hop dei KNEECAP: «Nessuno vuole un fott**o mondo in cui tutti parlano solo inglese»
Domani il trio di Belfast pubblica “FINE ART”: un concept album politico in cui il turbinio di generi è condito da un’adrenalina inarrestabile. Ovviamente diretta sempre verso gli oppressi, perché «la lotta riconosce la lotta»
Se la musica dei KNEECAP fosse una bevanda sarebbe una birra: FINE ART avrebbe il sapore amarognolo di una stout dal quale, sorso dopo sorso, si riuscirebbe a percepire le note fruttate. L’odore invece sarebbe più complicato da decifrare perché mescolato e coperto dall’acredine di una sala fumatori di un pub o dal più pungente odore di erba. L’album di debutto del trio hip hop – mai come in questo caso tale termine suona riduttivo – è l’equivalente di una serata passata in compagnia di amici e sconosciuti, in cui sciolto dall’alcol, ti senti libero e parli dei tuoi guai, dei tuoi traumi e di cosa odi e vorresti cambiare del tuo Paese.
Quello dei KNEECAP è il Nord dell’Irlanda, e non Irlanda del Nord, come precisa Mo Chara collegato per l’intervista da una terrazza di Belfast: «Il termine Northern Ireland legittima la presenza del Regno Unito in Irlanda spingendo le persone a credere che l’invasione del nostro Paese fosse legittima. Noi invece crediamo che il Nord Irlanda sia uno stato illegale».
L’irlandesità moderna
Come avrete capito – e come vi abbiamo già raccontato nel nostro speciale sul rap in Europa – la storia dei KNEECAP è indissolubilmente intrecciata a quella della loro Nazione. Mo Chara, Móglaí Bap e DJ Próvaí hanno fondato la band nel 2017, il giorno prima della marcia per la legge sulla lingua irlandese, riconosciuta solo due anni fa dal Regno Unito. Il nome del trio è un riferimento alle gambizzazioni che l’IRA era solita perpetrare contro gli spacciatori di droga, perché a dispetto delle accuse mosse loro per brani ironici e provocatori come Get the Brits Out, i KNEECAP sono sì repubblicani e vorrebbero un’Irlanda unita, ma sono comunque dalla parte della classe media e dei lavoratori. Più in generale dalla parte degli oppressi. E non c’entra nulla essere protestanti, cattolici, unionisti o repubblicani in quel caso.
Le loro posizioni contro i soprusi della polizia, su tutte la storia del celebre murales della camionetta in fiamme – l’opera d’arte che dà il titolo al disco – raccontata a suon di techno rap nella titletrack, o il supporto nei confronti della Palestina, sono arrivatE oltreoceano. Non solo con i concerti, ma anche con il primo film in lingua irlandese della storia del Sundance Festival: il comedy docudrama Kneecap che racconta la storia del gruppo e che vede tra i protagonisti anche Michael Fassbender. Proprio la lingua irlandese è forse l’altro grande tratto distintivo. Il gaelico è una manifestazione identitaria orgogliosa che si mescola all’inglese, così come i beat e le casse dritte vengono decorate da elementi della musica tradizionale. Basti pensare a I bhfiacha linne e Drug Dealing Pagans o al coinvolgimento di Radie Peat dei Lankum.
FINE ART è un concept album che solo i KNEECAP avrebbero potuto scrivere e soprattutto portare dal vivo. Parlando con Mo Chara e DJ Próvaí – persino in video con la sua immancabile balaclava tricolore – si comprende come il gruppo abbia le idee chiarissime, un’idea artistica ben delineata e, anche se non si direbbe, molta fiducia per quanto riguarda il futuro politico nordirlandese. Soprattutto dopo il primo governo capitanato dal partito repubblicano Sinn Féin.
L’intervista ai KNEECAP
Il vostro album FINE ART ha avuto una gestazione complicata, siete soddisfatti del risultato?
DJ Próvaí: Abbiamo lavorato a questo disco per più di un anno e non possiamo non esserne orgogliosi. I primi singoli sembra che stiano andando bene, non vediamo l’ora che la gente possa ascoltare il disco per intero, dato che è pensato come un concept. Molto del merito va al nostro produttore Toddla T che è riuscito a tirare fuori il meglio da noi, anche a livello testuale. È stata dura ma è venuto fuori un lavoro fluido e organico, ma anche molto variegato a livello stilistico. C’è un po’ di punk, un po’ di elettronica e tanto hip hop.
Mo Chara: Sì, quando siamo arrivati in studio da Toddla T avevamo un sacco di pezzi scritti nell’arco degli ultimi due anni ed eravamo convinti che fossero perfetti per il nostro disco. Invece, lui ci ha fatto scartare tutto e ricominciare daccapo. Siamo in giro da diverso tempo, ma FINE ART è come se fosse il debutto dei KNEECAP. Per questo motivo T ci ha spronato a tornare alle nostre radici, senza fare riferimento a tutto ciò che avevamo fatto fino a quel momento. Dovevamo essere il più onesti e spontanei possibile, tornare a mostrare chi fossimo veramente. Devo dire che è stato un consiglio vitale. Abbiamo riscritto tutto in tre settimane e siamo molto soddisfatti del risultato.
Da dove deriva l’idea di ambientare tutto il disco in un pub?
M: Sono convinto che il tessuto sociale irlandese sia profondamente legato al pub, anche perché in Irlanda non ci sono molte discoteche. È insito nella nostra cultura e fin da bambini cresciamo a stretto contatto con questa realtà. C’è l’abitudine da parte dei genitori di portare con loro i propri figli quando vanno a farsi una pinta: fin da piccolo vai al pub con i tuoi, bevi un succo di frutta, giochi a biliardo e fai questo genere di cose.
Al di là della birra, l’altra cosa che noi irlandesi amiamo di più è la conversazione. Parlare con le altre persone. Una cosa che è impossibile fare in una discoteca. Per cui, quando Toddla T ci ha chiesto di ripartire da zero e dal nostro essere noi stessi, era inevitabile ritrovarsi in un pub.
P: I pub sono fantastici anche per come cambiano pelle durante la notte. È come se ci fossero delle fasi. Con la prima pinta di birra ti siedi, inizi a parlare con i tuoi amici e poi accadono cose. Nel disco abbiamo voluto riprodurre tutto ciò: fin dalla prima traccia 3CAG si sente in sottofondo della musica tradizionale proveniente da un angolo del locale, poi gente che va in bagno e via dicendo. Anche se le canzoni, dal punto di vista del genere, sono molto differenti, nel complesso sono legate grazie proprio a questo tipo di narrazione notturna.
Nelle vostre canzoni si nota come integriate in modo perfetto elementi della musica tradizionale con i beat e la rave music. Nella prima traccia 3CAG avete campionato, per esempio, Caravan di Joe O’Donnell.
M: Sì, noi amiamo i suoni euforici dell’hip hop in senso classico, il drum beat, la roba alla Dr. Dre, ma abbiamo sempre pensato che ci fosse bisogno di unirli a qualcosa che ci rappresentasse. Devo essere onesto, quella canzone l’abbiamo conosciuta grazie al nostro manager che è un ex DJ e un anno fa ce l’ha fatta ascoltare: “Ragazzi, sentite questo pezzo degli anni ’70 (1977 n.d.r.)”. È una canzone senza tempo, jazz sperimentale. Ovviamente noi campionandola l’abbiamo un po’ rilavorata, però il pezzo originale rimane insuperabile. È vecchia abbastanza affinché non molti la riconoscano e questo ci ha spinto ancora di più a sfruttarla.
E con Grian Chatten e Tom Coll dei Fontaines D.C. com’è andata invece?
P: Ci conoscevamo già prima di scrivere l’album, ed è stato un onore per noi lavorare con loro. Per Better Way to Live volevamo ottenere un suono più post-punk, in particolare per quanto riguardava le percussioni. Così prima, con un programma, abbiamo creato il beat elettronico, poi in studio di registrazione Tom ha registrato sopra la sua batteria. Alla fine, abbiamo lasciato entrambe le tracce per avere un risultato più corposo.
M: Avere certi ospiti nel disco, come i Fontaines e i Lankum, è veramente pazzesco. Da quando è uscita Starburster non riesco a smettere di ascoltarla.
I KNEECAP nascono dall’esigenza di rappresentare un’identità. Voi cantate in irlandese, cosa significa per voi?
M: Credo che sia fondamentale, soprattutto per i ragazzi giovani che stanno crescendo, conoscere le proprie origini e comprendere la cultura da cui provengono. Ti dona molta più sicurezza. Per esempio, in America, o nelle nazioni più giovani, molti si aggrappano all’identità perché non conoscono le loro radici. Io sono irlandese, sono cresciuto parlando irlandese e cantare nella mia lingua mi fa sentire me stesso e mi consente di connettermi alle mie origini e ai miei antenati. Anche perché è molto antica e l’etimologia di quasi tutti i termini rimanda alla terra e alla natura. È estremamente importante sapere da dove si viene.
P: La difesa dell’identità è ancora più importante per noi, perché l’Irlanda è stata a lungo un paese colonizzato. La cultura britannica è stata ed è ancora dominante: si guarda il calcio inglese e si leggono libri e giornali in inglese. Per me è importante che le persone siano in grado di mostrare la propria visione, la propria capacità di narrazione, la propria lingua, i propri sport e la propria musica. E l’Irlanda ha tutte queste cose. Per esempio, si pensa sempre alla musica country tradizionale in riferimento al nostro Paese, ma c’è molto di più. C’è anche l’hip hop come puoi vedere ed è solo un altro piccolo tassello della nostra identità irlandese.
M: Nessuno vuole un fottuto mondo in cui tutti parlano solo inglese.
Il gaelico (quello irlandese), tra l’altro, è stato riconosciuto dal Regno Unito solo nel 2022.
M: Sì, fino a due anni fa, nonostante di fatto ci fosse un evidente bilinguismo, qui al Nord non era riconosciuto ufficialmente. Ci siamo battuti per evitare che scomparisse una lingua indigena di quasi duemila anni che ha contraddistinto questo territorio. Spesso fanno notare che in Irlanda ci sono più persone che parlano polacco che irlandese. Sì, è vero ci sono molte persone che provengono da paesi diversi, così come gli irlandesi sono sparsi in tutto il mondo. Ma la lingua irlandese è legata all’identità del luogo ed è stato importante che sia diventata protetta. E ora con il nuovo governo (Mary Lou McDonald è il primo capo del Governo nordirlandese del partito repubblicano Sinn Féin n.d.r.) speriamo che aumentino le politiche in favore delle persone. Sono molto fiducioso.
Tra l’altro vi siente conosciuti con Próvaí durante un Irish Language Festival organizzato da Móglaí Bap.
M: Sì, lui prima organizzava spesso questo tipo di eventi. Ma non si tratta di un festival dove ci si mette seduti e si parla tutto il tempo della lingua irlandese. Ci sono dei panel di presentazione di libri, altri dove si trattavano temi di politica e cultura, si fuma erba e si fanno altre cose. Col tempo si è creata una community di persone con le stesse passioni, come può essere la musica. Questi festival rappresentano una parte importante per i KNEECAP.
P: La nostra musica vuole rappresentare l’irishness moderna, diversa da quella idealistica con i folletti che suonano il violino. Nei festival di questo tipo, il mood e l’ambientazione urbana attirano ragazzi giovani come noi a collaborare.
Come vi fa sentire il fatto che molte persone apprezzino la vostra musica anche se non capiscono la maggior parte delle parole dei testi?
M: Beh, con i social media e i nuovi modi di fruire la musica oggi è molto più facile. Mi vengono in mente i BTS che hanno fatto due date sold out a Wembley. Non penso che tra il pubblico tutti comprendessero il coreano. Nel nostro caso credo che le persone trovino una connessione con la nostra musica perché nel mondo c’è un sacco di gente che ha sofferto e continua a soffrire. Forse proprio perché attraverso la nostra lingua nativa esprimiamo la nostra sofferenza e la sofferenza è una cosa condivisibile, indipendentemente dalle differenze.
P: Quando abbiamo suonato dal vivo negli Stati Uniti i fan cantavano i nostri pezzi senza conoscere la lingua. Riproducevano i suoni ed erano trascinati dalla nostra energia. Per noi il palco però è anche una piattaforma importante, non solo per far sfogare la gente da tutto lo schifo che sta accadendo nel mondo, ma anche per sensibilizzare l’opinione pubblica su questioni cruciali, come la situazione in Palestina.
In questo senso, l’Irlanda è stata tra le prime nazioni europee a riconoscere lo stato palestinese.
M: Ha impiegato persino troppo tempo a prendere posizione essendo stata a sua volta colonizzata. L’Irlanda è stata la prima colonia dell’Inghilterra ottocento anni fa. È impossibile non immedesimarsi e supportare popoli indigeni che stanno subendo lo stesso trattamento. Quello che sta accadendo in Palestina dal 1948 non è nemmeno paragonabile al nostro passato. L’Irlanda ha lottato per moltissimi anni, ma gli inglesi non hanno mai lanciato bombe sui civili ogni giorno, non controllavano la disponibilità di acqua. Ti rendi, conto? Decidono quando queste persone possono avere l’acqua! La situazione a Rafah è proprio su una scala diversa.
Per questo sostengo che il Governo irlandese abbia aspettato fin troppo. Siamo accomunati da una resistenza comune e la “lotta riconosce la lotta”.
Avete mai avuto paura di essere censurati per le vostre posizioni?
P: Proprio recentemente, il Governo britannico ha bloccato 50 mila sterline di fondi che la British Phonographic Industry ci aveva assegnato (si tratta del Programma di crescita delle esportazioni musicali, Music Export Growth Scheme n.d.r.) sostenendo che non sosteniamo il Paese. Ma, come ha detto McDonald, paghiamo le tasse.
M: I KNEECAP amano le controversie e non ci preoccupiamo troppo perché, in fin dei conti, la nostra musica non può essere altrimenti. Vogliamo essere controversi e la censura è la cosa migliore che può capitare alla nostra band. Quando ci bannano dalle radio ottengono l’effetto opposto e generano una marea di interesse nei nostri confronti. Per cui speriamo di essere censurati il più possibile.
La canzone Parful è stata ispirata all’episodio raccontato nel documentario Dancing on a Narrow Ground. Un rave che nel 1994 ha unito protestanti e cattolici. La musica può essere un’arma in tal senso?
M: Sì, come in quel caso, la musica può cambiare la prospettiva dei giovani. Ci piacerebbe che la gente nel nord dell’Irlanda capisse che in fondo siamo tutti simili. Da entrambe le parti della comunità ci sono i lavoratori della classe media e hanno tutti gli stessi problemi.
Un tema centrale che torna nei vostri pezzi, mi viene in mente il singolo Sick in the Head, è la salute mentale. Com’è la situazione nel vostro Paese a livello di consapevolezza?
M: Crescere in un Paese e in una città come Belfast, dove fino a trent’anni fa c’erano i soldati per strada, inevitabilmente lascia delle scorie emotive. Dopo il 1998, con gli accordi del Venerdì Santo, si sono messe da parte per sempre (fa il gesto delle virgolette n.d.r.) le armi, ma gli effetti dei Troubles sono rimasti. La generazione dei nostri genitori porta ancora il trauma di quegli anni e inevitabilmente lo ha trasmesso anche a noi. Il tasso di suicidi è ancora alto. Noi ovviamente non pretendiamo di essere dei medici con le nostre canzoni, per quelli servirebbero maggiori fondi statali. Brani come Sick in the Head sono un mezzo per creare discussione sul tema e portarlo all’attenzione della gente. La salute mentale è un problema di cui è bene si parli, soprattutto tra i giovani.